Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
La Medea di Euripide – Luigi Angelino
La figura di Medea è tra le più celebrate e discusse del panorama mitologico e letterario greco. La stessa etimologia del suo nome evoca il significato di “astuzie” o “scaltrezze”, derivando dal termine “medos” (pensiero) e giustamente ricollegato al verbo “medomai”, tradotto nella maggioranza dei casi con l’espressione “essere scaltri”. Pertanto, la donna è diventata un simbolo di “riflessione” e di “premeditazione” con accezioni di carattere soprattutto negativo, ma non solo, come analizzeremo nel corso della presente trattazione (1). Nel quadro gentilizio, molto importante in ogni racconto ellenico, Medea è presentata come figlia di Ete, sovrano della Colchide e di sua moglie Idia. Apollonio Rodio, in una delle sue opere più famose, le Argonautiche (2), ci offre qualche dettaglio in più, indicando Medea come nipote di Elio (il Sole) e della maga Circe, arricchendo di particolari fantastici la discendenza mistica della donna, mentre Diodoro Siculo ci racconta una versione ancora più articolata. Secondo questi, Medea discenderebbe da Elio, tramite Perse e la figlia di questi, Ecate, conosciuta per le straordinarie capacità magiche che, in qualche modo, avrebbe trasmesso a sua figlia. E’ chiaro l’intento degli autori di attribuire una sorta di “giustificazione genetica” alle azioni di cui Medea si renderà responsabile. Nella narrazione di Diodoro Siculo, la terribile Ecate avrebbe perfino ucciso suo padre Perse, unendosi allo zio Eeta, generando appunto Medea e suo fratello Egialeo, in alcuni testi chiamato anche Apsirto. Il concepimento di Medea, pertanto, sarebbe avvenuto a seguito di nozze incestuose e macchiate da un orribile delitto. Il personaggio di Medea è profondamente legato a quello di Giasone, il famoso condottiero degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro, oggetto mitico che avrebbe posseduto l’eccezionale proprietà di guarire ogni ferita, ma custodito da un imponente ed invincibile drago al servizio del perfido Eeta. Quando Giasone arrivò nella Colchide (3) per dare vita al suo ambizioso progetto, Medea se ne innamorò alla follia. In nome di questa bruciante passione, cercò di aiutare il giovane eroe in ogni modo, arrivando anche ad assassinare suo fratello. Non paga dell’omicidio, la donna violò il corpo dello sventurato, una gravissima profanazione per la sensibilità religiosa antica, spargendo i suoi resti dietro di sé, mentre si dirigeva ad imbarcarsi sulla nave Argo in compagnia del vanesio Giasone, nel frattempo diventato suo amante.
Quel gesto si rivelò anche un astuto stratagemma, in quanto Eeta, impegnato a raccogliere le povere membra del figlio, rallentò la sua rincorsa dietro agli stranieri, perdendo il controllo del preziosissimo vello d’oro. Gli scellerati servigi di Medea si rivelarono utili a Giasone anche quando, al rientro in patria, suo zio Pella si rifiutò di cedergli il trono di Jolco, in cambio del vello d’oro, così come aveva promesso prima dell’impresa. Medea fu capace di convincere la figlia di Pella a somministrare un potente veleno al padre, in grado, a suo dire, di farlo ringiovanire, dopo averlo scomposto in tanti pezzi e messo sul fuoco.
Per convincere la ragazza a fare questo, Medea si affidò alle sue arti magiche, mostrandole un vecchio caprone nelle fattezze di agnello, dopo averlo sminuzzato e bollito. Il risultato di tale macabro rituale è degno di una pellicola cinematografica horror: Pella morì tra atroci sofferenze davanti agli occhi dei suoi ingenui e raggirati figli. Acasto, comunque, figlio di Pella, esiliò i due malfattori, una pena che forse ci sembra troppo indulgente, costringendoli a chiedere asilo ai cittadini di Corinto, dove coroneranno il loro insano sogno d’amore, unendosi a nozze.
L’autore che ha consacrato la celebrità di Medea, tra le eroine della tragedia greca, è senza dubbio Euripide. La vicenda narrata dall’autore ateniese si inquadra nel periodo successivo al trasferimento di Medea e di Giasone nella città di Corinto, dove la coppia si sposa e genera due figli. Passati alcuni anni, Giasone stanco della routine matrimoniale che lo lega ad un destino mediocre, perchè ambisce ad ottenere un più elevato prestigio sociale ed a conquistare il potere politico, decide di ripudiare Medea per contrarre nuove nozze con la principessa Glauce, figlia del re di Corinto. Questa unione, infatti, gli avrebbe permesso di succedere al trono del suocero (4). Come si poteva ritenere prevedibile, la decisione non viene accolta con rassegnazione da parte di Medea che, nella migliore tradizione dei cori della tragedia ellenica, si lamenta della sua sorte con le donne corinzie, scagliando contro la casa reale ogni tipo di maledizione. Creonte è preoccupato, anche perchè conosce la triste fama della donna, di cui teme una terribile vendetta per sé ed i suoi cari. Per questo, le intima di lasciare Corinto, ma Medea, riflessiva ed astuta, premedita il suo piano con grande sangue freddo, fingendosi calma ed arrendevole. In fondo le basta la possibilità di rimanere solo un giorno in città per poter attuare il suo orrendo progetto di vendetta.
In un crescendo di tensione e di alternanza di stati d’animo, Medea dapprima cerca la strada del dialogo con il marito, accusandolo di ipocrisia e di viltà, ma Giasone riesce ad opporre solo stolte motivazioni di convenienza, dimostrando indifferenza ed un’assoluta incapacità di entrare in empatia con gli ardenti sentimenti della moglie. Dopo l’infelice colloquio, Medea inizia a tessere le trame del proprio diabolico piano, chiedendo al re di Atene, Egeo (5), di passaggio per Corinto, di ospitarla nella propria città. Egeo accetta, in quanto Medea in maniera astuta promette di attuare le proprie pratiche magiche affinchè il sovrano possa finalmente concepire un figlio. Ostentando calma e finta accondiscendenza, Medea invia alla principessa Glauce, futura sposa di Giasone, due doni: una ghirlanda ed una veste avvelenata. La fanciulla muore tra indicibili tormenti, mentre una colonna di fuoco si estende dalla ghirlanda a tutto il corpo martoriato dalla veste avvelenata. Anche il re Creonte spira straziato dal fuoco, mentre cerca di soccorrere sua figlia.
Tuttavia, la vendetta di Medea non ha ancora raggiunto il suo punto più drammatico. Temendo il peggio, Giasone tenta disperatamente almeno di salvare i propri figli, ma arriva troppo tardi. In una scena magnifica dal punto di vista aulico quanto tragica nel contenuto, Medea appare sul carro alato del Sole, con i cadaveri dei suoi figli che lei stessa ha giustiziato, per privare il marito fedigrafo della sua discendenza. Il gesto estremo di Medea è compiuto con lucida sofferenza, ma con implacabile sete di appagamento e di contorta giustizia. La tragedia si chiude con il volo della donna verso Atene, lasciando Giasone al suo dolore inconsolabile che la maledice, forse rimpiangendo in cuor suo di esser stato poco coraggioso e soprattutto di aver sottovalutato la malvagità quasi eroica della moglie, di cui di certo non gli erano mancate numerose prove nel passato. Dell’opera di Euripide ci colpisce innanzitutto il lucido realismo descrittivo, dove i protagonisti sono soltanto le donne e gli uomini, mentre gli dèì, così celebrati dalla maggior parte degli autori greci, rimangono in disparte ad assistere alla tragedia che si consuma nella città di Corinto. Le divinità rimangono fuori dal dramma, al punto che sul finale, Giasone inveirà contro di essi, accusandoli di non aver impedito l’orribile destino dei suoi figli. Non vi è dubbio che l’intera tragedia sia incentrata su Medea, il personaggio principale della vicenda, capace di commettere atroci delitti e, per questo, la sua condotta è considerata riprovevole dall’autore. Ma il giudizio di Euripide non è affatto indulgente neanche verso Giasone, nonostante la terribile perdita dei figli, che viene descritto come un uomo ambizioso e vacuo, che non esita ad ingannare la moglie per ottenere privilegi sociali. Forse la figura più meschina della tragedia euripidea è proprio Giasone che diventa un “falso eroe”, in considerazione del fatto che le sue imprese precedenti, tra cui la conquista del vello d’oro, non avrebbero avuto esito favorevole senza l’aiuto delle nefandezze compiute da Medea. La nobile della Colchide è uno dei più grandi personaggi dell’intero repertorio della tragedia greca, di cui Euripide tratteggia con sapienza e maestria le caratteristiche psicologiche ed i diversi stati d’animo.
Si tratta di una figura molto complessa e che non può essere minimizzata, analizzando soltanto le feroci azioni finali (6). E’ come se l’opera di Euripide desse per scontato che lo spettatore conosca le gesta di Medea anche prima del soggiorno a Corinto: soltanto in questo modo si può cercare di comprendere in pieno il suo modo di agire. La passione incontrollabile per Giasone, per il quale non aveva esitato a distruggere e ad abbandonare la propria famiglia, si trasforma in premeditata ed insaziabile vendetta, non priva, tuttavia, di tentennamenti e ripensamenti prima di stendere la mano omicida sul frutto della sua carne.
La Medea di Euripide presenta, inoltre, una particolarità strutturale che la rende unica tra le rappresentazioni del teatro greco, in cui i modelli paradigmatici si fondano sul contrasto tra un “protagonista” ed un “antagonista”, come ad esempio Antigone e Creonte, oppure Oreste e Clitemnestra (7). Nel caso specifico di Medea, la donna incarna in sé queste due figure opposte: una parte di sé vorrebbe assassinare i figli, mentre un’altra parte esita, tentando di risparmiarli. La sua mente appare in preda a forze emotive incontrollabili che, al giorno d’oggi, sarebbero studiate con l’ausilio delle teorie psico-analitiche, in grado, almeno in parte, di spiegarne le spinte motivazionali. Nonostante il gesto scellerato, è possibile provare una certa pietà empatica per la donna, quando ancora il suo proposito è incerto e Medea quasi si commuove davanti all’innocenza dei figli. Rimaniamo, invece, sconcertati davanti alla scena finale, così aulica nella sua unicità, quando Medea si mostra convinta e consapevole di ciò che ha compiuto, al punto che vola via su un carro divino, come se avesse compiuto un’impresa eroica. La Medea “vittoriosa” è forse quella più spregevole ed odiosa, non a caso raffigurata “in volo”, quasi come si ergesse al di sopra del bene e del male, libera da ogni condizionamento etico e morale, ma soltanto fiera di aver soddisfatto la propria brama di vendetta, cancellando la discendenza del marito traditore. E’ giusto ricordare come gli antichi attribuissero una notevole importanza al concetto gentilizio di “discendenza” che, soprattutto nell’ambito delle famiglie nobiliari e, comunque, di alto lignaggio, rappresentava un patrimonio inestimabile di valori non solo genetici. Come abbiamo già accennato, Euripide non è indulgente nei confronti di Giasone, uomo egoista e calcolatore che considera i rapporti sentimentali solo come mezzo per aspirare al potere. Nei secoli successivi all’opera di Euripide, Giasone si guadagnerà la fama di seduttore, tanto che Dante lo collocherà nell’Inferno (8). Lo scenario generale in cui si muove la tragedia di Euripide ci offre anche un quadro significativo delle contrapposizioni culturali del mondo ellenico del quinto secolo avanti Cristo, evidenziando due diverse tipologie di modello familiare: da una parte la visione più tradizionalista di Medea, proveniente dalla “barbara” Colchide, dall’altra i costumi più “moderni” e legati alla “ragion di stato”, propri di Corinto e delle principali polis greche. Non è un caso se, nelle prime rappresentazioni volute dall’autore, il personaggio di Medea va in scena con abiti “barbari”.
La tragedia fu rappresentata per la prima volta nel 431 a.C. durante le festività denominate Grandi Dionisie (9) che si svolgevano nella città di Atene. Nonostante l’efferatezza delle sue azioni, Euripide ci offre una Medea altamente dignitosa ed altera, molto lontana dagli stereotipi femminili dell’antichità classica. A tale proposito assume un grande significato, uno dei più lunghi monologhi dell’opera, quando la donna si sofferma a riflettere sulla propria individualità:
“un uomo, quando sente fastidio di stare in casa, esce fuori e solleva il cuore dalla noia. Per noi, invece, è destino volgere lo sguardo verso una sola persona. E dicono di noi che viviamo in una casa senza pericolo, mentre loro combattono in guerra; ma ragionano male. Giacchè preferirei stare tre volte presso lo scudo piuttosto che partorire una sola volta!”.
Le precitate parole rivelano una lucida analisi da parte di Medea sulla situazione della donna nel suo periodo storico, rivelandosi quanto mai attuale nei secoli a venire e presso la maggior parte delle culture. Euripide, tentando più degli altri suoi contemporanei di indagare sull’animo femminile, fu anche accusato di misoginia, agli occhi dell’ipocrita società ateniese che assume il valore simbolico di ogni struttura convenzionale della storia. Tracce della presunta misoginia di Euripide sono state riscontrate in alcuni passi della tragedia dedicata a Medea, in particolare nelle parole pronunciate da Giasone:
“Bisognerebbe che gli uomini generassero figli in qualche altro modo e che non esistesse la razza femminile; così per loro non ci sarebbe più alcun male”.
Peraltro, anche in un’altra opera di Euripide, l’Ippolito (10), Giasone si abbandona ad invettive di questo genere:
“O Zeus, perchè hai messo alla luce e imposto agli uomini la donna, questo grande malanno? Se era nel tuo intento propagare il genere umano, non era necessario farlo attraverso le donne. Gli uomini avrebbero dovuto semplicemente comprare la generazione dei propri figli”.
Nell’ambito psicologico la Medea letteraria è diventata l’antesignana di ogni donna che si trovi in una situazione di conflitto con il proprio partner ed utilizzi i propri figli come strumento di vendetta e di rivalsa. Si parla, infatti, di “sindrome di Medea” per riferirsi ad una vasta gamma di comportamenti che, oltre al caso di abusi e di omicidi della prole per contrastare il coniuge, comprende anche alcuni stati emotivi rientranti nella “depressione post-parto” che può spingere la donna a rifiutare i figli ed, in alcuni casi, perfino all’infanticidio (11). La famosa scrittrice tedesca Christa Wolff, attingendo ad altre fonti letterarie relative al mito di Medea, ha considerato la tragedia di Euripide, nell’azione finale di assassinare i propri figli, una libera interpretazione dell’autore, corrotto dai Corinzi e desideroso di screditare il genere femminile (12). Creofilo, nel suo poema “La presa di Ecalia”, afferma che Medea, dopo aver provocato la morte di Creonte e di Glauce, fuggì verso Atene, mettendo i propri figli al sicuro nel tempio di Era, ma i Corinzi, infuriati per l’affronto al re ed alla principessa, li avrebbero catturati e poi lapidati a morte. In un’altra versione riportata da Pausania nella Guida della Grecia, si ripete l’antico racconto di Eumelo, secondo il quale Medea avrebbe rifiutato le offerte d’amore di Zeus, suscitando la gratitudine di sua moglie Era. La dea le avrebbe chiesto di sacrificare i propri figli nel suo tempio, in cambio della loro immortalità. Medea avrebbe rispettato il volere della dea, per poi ascendere sul carro del Sole trainato da serpenti alati. Sotto questo profilo, la Medea “trionfante” potrebbe assumere un significato più chiaro e compiuto, con il suggello divino di Era che l’avrebbe presa sotto la sua protezione. La tragedia di Euripide, come indicato da Nietzsche, romperebbe l’antico equilibrio tra la concezione apollinea e quella dionisiaca, introducendo una progressiva aspirazione al logos trascendente ed immutabile, che troverà la sua compiuta trattazione con il pensiero di Aristotele. Medea, pertanto, potrebbe essere inquadrata come una figura didascalica intermedia, in cui si tenta di celebrare il tramonto definitivo del matriarcato e l’ascesa al potere dei valori patriarcali Al di là dei significati sociali, etici e psicologici, che il mito di Medea implica e tramanda in maniera unica nel suo genere, nel tessuto complessivo della narrazione si intuiscono elementi simbolici non di immediata evidenza che, però, non possono sfuggire agli appassionati del settore. Ad esempio, la vicenda di Medea potrebbe costituire la metafora della coltivazione dei campi di grano, un tipo di cereale non tanto diffuso in Grecia, che gli antichi Elleni andavano a procurarsi sulle coste del Mar Nero, dove si trova appunto la Colchide, la terra di origine di Medea. Inoltre, la veste e la ghirlanda, i doni avvelenati offerti da Medea alla futura sposa, potrebbero indicare una sorta di parabola sugli effetti negativi della ricchezza, se non supportata da adeguati presupposti morali. Ed il carro trainato dai draghi, o da serpenti secondo alcune versioni, esprime il giudizio delle divinità nei confronti dell’operato di Medea che non sembra avverso alla donna, ma piuttosto verso Giasone, considerato il vero responsabile della strage, per il suo comportamento calcolatore e spregiudicato.
Ed alcuni fatti di cronaca ci dimostrano come il mito greco sia sempre attuale, diventando, come nel caso di Medea, un paradigma metastorico dell’imprevedibile comportamento umano. La tragica storia di Medea, moglie passionale tradita ed avida di vendetta, ci porta negli oscuri meandri dell’animo umano, dove le cosiddette “ragioni del cuore” molto spesso frantumano i dettami della logica e le pulsioni personali si scontrano con gli schemi concettuali dell’intelletto.
Note:
1 – Cfr. Maurizio Bettini e Giuseppe Pucci, Il mito di Medea. Immagini e racconti dalla Grecia ad oggi, Edizioni Einaudi, Torino 2017;
2 – Le Argonautiche costituiscono un poema epico, elaborato da Apollonio Rodio nel III secolo a.c., che narra le gesta di Giasone e degli Argonauti per recuperare il vello d’oro;
3 – La Colchide è una regione storica del Caucaso che, al giorno d’oggi, fa parte dello stato della Georgia;
4 – Cfr. Elena Adriani, Medea. Fortuna e metamorfosi di un archetipo, Edizioni Esedra, Padova 2009;
5 – Si tratta del nono re mitologico di Atene;
6 – Cfr. M.G. Ciani, Medea. Variazioni sul mito, Edizioni Marsilio, Venezia 2003;
7 – L’ Antigone è una tragedia di Sofocle; Clitemnestra e suo figlio Oreste sono i protagonisti dell’Orestea di Eschilo;
8 – Nel canto XVIII dell’Inferno, nell’ottavo cerchio, sono puniti i ruffiani, gli adulatori ed i seduttori, tra cui Giasone;
9 – Le Grandi Dionisie si svolgevano ad Atene tra il 10 ed il 14 del mese denominato elafebellione del calendario attico, più o meno corrispondente al periodo compreso tra metà marzo e metà aprile del calendario giuliano. Si trattava di una sorta di festival competitivo di rappresentazioni teatrali tragiche e comiche;
10 – L’Ippolito è un’altra tragedia di Euripide che gli valse il primo premio alle Grandi Dionisie del 428 a.C.;
11 – Cfr. Giulia Tellini, Storie di Medea, Edizioni Le Lettere, Firenze 2012;
12 – Cfr. Christa Wolf, Medea, Voci, Edizioni e/o, Roma 2000.
Luigi Angelino