La filosofia di Jakob Böhme: un testo capitale di Alexandre Koyré – Giovanni Sessa
Il pensiero di Jakob Böhme (1575-1624) è, per chi scrive, cruciale per l’influenza che ebbe sui romantici e la filosofia classica tedesca, quanto per il tratto dirompente dei suoi contenuti, soprattutto se confrontati con la vulgata teoretica e teologica contemporanea. Usciamo dalla lettura di un volume di Alexandre Koyrè, La filosofia di Jakob Böhme, curato da Francesco Novelli, nelle librerie per Mimesis (pp. 703, euro 32,00). Il lucido e dirimente saggio introduttivo è firmato dal curatore stesso. La filosofia di Jakob Böhme è una puntuale e organica esegesi della proposta speculativa-realizzativa del tedesco, che consente al lettore di coglierne gli aspetti sostanziali e quelli accessori.
Koyrè, studioso franco-russo, fu uno dei massimi promotori della Hegel Renaissance in Francia. Fu docente all’École des hautes études di Parigi, dove operò sotto la sagace guida, tra gli altri, di Étienne Gilson. Successivamente, si avvicinò, attraverso la fenomenologia di Husserl, alla “filosofia del vissuto”. È questa una delle chiavi interpretative di cui si serve in queste pagine dedicate alla mistica böhmeiana. Obiettivo di Koyré è far parlare il teosofo con “la propria voce”: «prescindendo il più possibile da postulati genealogici di discendenze, influenze e derivazioni» (p. 9). Altri aspetti metodologici da tenere in debito conto, per avere acconcio accesso al libro, sono il rifiuto della ratio positivista e del determinismo marxista, nonché l’interesse di Koyré, condiviso con l’antropologo Lévy-Bruhl, per la riemersione della mentalità arcaica nel pensiero moderno, sospeso tra queste riviviscenze e: «nuove rivoluzioni epistemiche» (p. 10).
L’esperienza di Böhme è un tentativo di rispondere a una domanda circostanziata: «A cosa mi serve una scienza nella quale io non possa anche vivere?» (p. 108). Quesito sollecitato dalla constatazione, nel frangente storico in cui gli toccò in sorte di vivere: «di una scissione tra il vissuto religioso e l’istituzione ecclesiastica luterana» (p. 10). La Slesia era, allora, terra devastata dalla guerra dei Trent’anni: in quella regione la nobiltà rurale impoverita e gli artigiani delle città erano particolarmente sensibili alle dottrine mistiche e critici nei confronti della chiesa visibile. Böhme si prefisse, pertanto, di corrispondere a due istanze vividamente avvertite: ricongiungere l’uomo a Dio e affrontare il problema della presenza del male nel mondo. A suo dire: «L’esperienza tragica dell’uomo è riflesso, immagine o similitudine […] di quella, altrettanto tragica, di Dio. La vita di Dio […] è evoluzione, storia, processualità» (p. 15). In Böhme, l’emanazionismo ipostatico assume una curvatura emozionale e fisica, che si lascia alle spalle l’autocostitursi del divino inteso in termini meramente concettuali e logocentrici. Esso ha, invece, a che fare con la “nascita”, Geburt. Per questo, il Dio cui allude il teosofo-ciabattino, è personale e vivente. In tal senso, egli si richiama, in modalità non scolastica e ripetitiva, all’henologia di Eckhart. Laddove questi e, più in generale la mistica renana, avevano pensato la Deità quale terminus ad quem del tragitto dell’anima, Böhme, al contrario, esperisce la Gottheit quale terminus a quo della complessa, dolorosa, auto-gestazione del divino. Pertanto: «Il Dio-Persona […] contiene in sé ogni “differenza”, tutto l’infinito di opposizioni e distinzioni che eternamente supera e riunisce […] È nel movimento, e il movimento è in lui» (pp. 17-18).
L’intera visione teologica del tedesco è irrorata dall’idea di seme, germe cosmico, (Keim), intesa quale mysterium vitae: «È […] una unione dei contrari, perfino dei contraddittori. Il seme è […] ciò che esso non è. È già ciò che non è ancora […] Eppure non lo è […] Il seme è […] la “materia” che evolve e la potenza che lo fa evolvere» (p. 217). È un chiaro riferiemento alla dynamis greca, che la ragione calcolante, identitaria e dicotomica, non è in grado di cogliere. Tale idea troverà in Schelling, un’eco profonda, in particolare, rileva Koyré, nella filosofia della libertà. Jean Wahl, autore di un noto volume sulla “coscienza infelice” di Hegel, recensì entusiasticamente l’opera di Koyré al fine di giustificare la propria esegesi del filosofo di Stoccarda: «come pensatore romantico animato da afflati mistici e tragici» (p. 13). In realtà, il “negativo”, la tragedia, nel sistema hegeliano, sono tacitati ab initio: «la sua tragedia è un tragedia del pensiero, non una tragedia vissuta […] il tragico che è reale per l’uomo, non è affatto reale per Dio: per Dio- e anche per Hegel- la tragedia è già superata» (p. 14). L’eredità speculativa di Böhme, al contrario, è viva in Schelling, che aveva ben compreso, rileva Koyré, come in Hegel il tragico fosse fittizio, da sempre risolto dialetticamente in un nuovo positivo. Un Dio puramente spirituale, chiosa Böhme, sarebbe imperfetto, in quanto persona deve avere un corpo.
Dio ha in sé una natura che pur non coincidendo con lui, lo induce, lo sospinge al novum, oltre se stesso, fino all’auto-rischiaramento. Per Koyré, in Böhme i contrari si richiamano l’un l’altro, si implicano: l’uno si dice solo nei molti: «Tale è il grande mistero dell’essere» (p. 360). Egli trasforma la “metafisica della luce” in una “metafisica del fuoco”: la natura divina è fiamma ardente, pyr eracliteo, potenza distruttrice e generatrice: «È in Dio quella morte che è origine della vita, il fuoco senza il quale non vi sarebbe né fiamma né luce» (p. 371). Il fuoco è principio infondato e spiega la polarità dinamica del reale. Il mondo, in tale ottica, ha le fattezze della paracelsiana signatura rerum, è espressione nel senso indicato da Giorgio Colli di un Ab-grund, ed è in relazione biunivoca e simpatetica con l’invisibile. Il linguaggio di Böhme, il suo tedesco “selvatico”, testimonia il tentativo böhmeiano di porsi oltre l’analitica della Vernuft, oltre il tratto dia-bolico e divisivo che la connota, al fine di alludere al mistero della coincidentia oppositorum: una faticosa pratica, quella del teosofo, che ha a che fare con la professione artigianale che egli esercitò in vita, quella di calzolaio, teso a concedere un Grund, un suolo, a un Dio vivente, “corporeo”, che agita, ab initio, gli enti. Prassi artigianale e “demiurgica”, traslata in filosofia.
Alla teosofia di Böhme debbono guardare quanti vogliano sottrarsi al dominio del concetto e dell’onto-teo-logia, quanti vogliano recuperare alla prassi teoretica la dimensione museale, immaginale, al fine di cogliere l’essere sempre all’opera del principio, della dynamis, libertà-potenza. Il libro di Koyrè, in tal senso, è utile e illuminante viatico.
Giovanni Sessa