Mithra e la misteriosofia romana della Luce – Luca Valentini
La condizione ontologica del Silenzio nel neoplatonismo – Gabriele Bux
Questo lavoro propone il ripensamento della nozione di silenzio riconsiderando alcuni concetti neoplatonici. Ci interesserebbe intendere il silenzio come una sorta di dimensione esistenziale intesa come spazio condiviso dalle alterità. Una dimensione, dunque, sottratta al potere definitorio del linguaggio, in cui i soggetti non si chiudono nella loro interiorità ma sono intimamente connessi fra loro. Dapprima, credo sia opportuno iniziare con un paradosso che deriva dal linguaggio gergale: la locuzione “il silenzio vale più di mille parole” espone il fatto di tacere mediante l’ausilio della parola.
In questa locuzione pare esserci un equivoco emblematico: il silenzio, pur equivalendo al tacere, si dice superi la parola. Ancora, nell’espressione: “rimango in silenzio”, affermo mediante la voce di non voler parlare. La posizione ontologica del tacere dunque si colloca, suppongo, al di là del pensiero e del discorso. L’annullamento del logos come forma di comunicazione, e quindi l’omissione della parola, non implica tuttavia una mancanza di comunicabilità. In quest’istanza, mi focalizzerei sul fatto che, come si nota dalle locuzioni sopra, il silenzio comunque permette di esprimersi. È probabile che l’idea del tacere esponga un diverso rapporto con l’alterità, uno di quelli che parla la lingua del contatto. La nozione di contatto a cui farò riferimento, vorrei specificare, appartiene alla metafisica neoplatonica. Infatti, sarebbe interessante discutere del silenzio per come inteso nell’ottica di Plotino. A questo proposito, riportiamo:
«Questa è vita degli dèi e degli uomini divini e felici: affrancamento dalle cose estranee di questo mondo, vita che non prova piacere per le cose di quaggiù, fuga di solo a Solo» (1).
In questo passo, Plotino pare non parlare del silenzio, ma fa riferimento alla unione mistica dell’anima con l’Uno, costruita in una interiorità ermetica. Questa unione è possibile definirla una specie di contatto che avviene mediante una coincidenza ipostatica tra l’anima e l’Uno. Ciò che proporrei di mia parte, è una rivalutazione del concetto di contatto che, stavolta, veda il silenzio come spazio di apertura all’Altro, e non di ripiegamento intimistico. Per motivarne la validità esistenziale, analizzerei le suggestioni di Pietro Prini (2) intorno al silenzio nel rapporto neoplatonico – che si presenta, per l’appunto, come un contatto mistico – dell’anima con il Primo Principio. Preciso come al silenzio sia data rilevanza solo dopo che:
«[…]il procedimento della ragione si conclude ponendo la trascendenza del Principio come alterità assoluta»; prosegue poi Prini: «[…]è però possibile, quando la ragione tace e proprio perché la ragione tace, l’esercizio di un’attività soprarazionale».
Come si apprezza dalle citazioni proposte, l’importanza del silenzio è data anzitutto dal fatto che con esso si acceda a un piano differente dove i mezzi della razionalità diventano sterili. In questo modo si compie, nella mistica neoplatonica, un atto di «trascendenza del sapere» da parte dell’anima, in cui essa abbandona la finitezza e la molteplicità. La funzione che però reputo fondamentale, è quella dell’apertura alla presenza del Sacro attraverso il silenzio della ragione, come conferma Prini.
(Plotino)
Il silenzio pare essere una condizione necessaria per entrare in rapporto con Dio nel plotinismo, nella misura in cui questa relazione è intesa come un contatto estatico. Nella dottrina dell’estasi apprendiamo che Plotino – come sostiene Isnardi Parente (3) – pone:
«[…] il Bene-Uno come pensiero al di là del pensiero, hypernòesis, autocoscienza non pensante e il raggiungimento di un simile oggetto non può avere altro carattere che quello di un oltrepassamento della stessa sfera del pensare».
Isnardi definisce tale momento come appunto estasi, ovvero un’uscita da sé, concepibile sia come hàplosis – cioè un abbandono all’assoluto –, sia come epìdosis, un contatto con l’assoluto, un atto di sospensione del proprio essere.
In quanto l’Uno-Bene: «[…]non è forma e quindi non ha nome né definizione[…]» coglierlo porta a un «[…]silenzio attonito, contemplazione rapita, di pausa totale del pensiero e dell’essere». Il silenzio è quindi quell’atto del pensiero che rende possibile abbandonarsi verso un’alterità – che è l’Uno-Bene – con cui vuole immedesimarsi. Parente osserva ancora: «[…]occorre arrivare al silenzio, là ove pensiero e discorso cessano, perché sono superate ragione e forma». Mi sembra quasi che la studiosa parli del silenzio come una dimensione interiore, attraverso cui l’anima attua la plotinica fuga da solo a Solo, nonché dal sensibile all’intelligibile. Dare un’impronta esistenziale al silenzio implica, come accennato, riconsiderare lo statuto dell’alterità e del contatto. L’alterità è il soggetto che mi si oppone nel silenzio ed è una presenza vissuta in una diversità non-racchiudibile. Ovvero, quella situazione del soggettivo dove i suoi aspetti emotivi si compenetrano indistintamente; un piano esistenziale condiviso dai soggetti in relazione, dunque una dimensione comprensiva in cui ognuno subisce e emette le percezioni senza pronunciarle.
La moltitudine di atteggiamenti, intenzioni e comportamenti inespressi dal discorso cadono nel silenzio, quasi come fosse una sorta di nutrice del sentire, uno spazio che accoglie tutto il non-detto. Con questo elemento credo emerga una nuova funzione del silenzio, cioè quella di risignificazione delle soggettività in quanto presenze non racchiudibili perché non vincolate da niente. Il contatto, dal toccare estatico si fa contatto fisico, concreto, la cui importanza è data dal rapporto misterioso tra i soggetti in silenzio che, per l’appunto, si interfacciano nell’ineffabilità della loro condizione. Perciò, mi sembra adeguato accostare la seguente descrizione del contatto tra anima e Bene-Uno a quella tra le alterità nel silenzio:
«[…]noi non siamo impediti di sentirne la presenza, anche se non ne possiamo parlare, come avviene degli ispirati e dei posseduti che percepiscono, fino ad un certo punto, d’aver in sé qualche cosa più grande di loro, anche se non vedono esattamente che cosa sia; ma dal proprio agitarsi e dalle proprie parole traggono un certo sentimento di Colui che li scuote e li ispira, benché Egli sia ben diverso da quegli impulsi» (4).
(Arpocrate ed il Genius Loci)
Rivedendo questo passo delle Enneadi attraverso le categorie proposte, direi che le soggettività hanno fuori di sé «qualcosa di più grande di loro», non in quanto si trascendano le une con le altre, ma perché si mostrano multiformi sulla base dell’inafferrabilità della loro situazione. Il rapporto tra queste soggettività silenziose e non-racchiudibili non va avvicinato, chiarirei, all’estasi religiosa. Ciò sarebbe a mio avviso inappropriato perché riguarda una intensa esperienza spirituale con una trascendenza inarrivabile: i soggetti sono, invece, ontologicamente pari.
Detto questo, concluderei intendendo il silenzio come uno spazio indefinito: ogni soggettività che fa silenzio si può osare dire abiti l’indefinito, ovvero è una esistenza che si colloca in una dimensione dell’inesprimibile che la rende indeterminabile. Proprio in questa indeterminatezza si trova il silenzio che dà modo a ogni soggettivo di nascondersi, ma anche di esprimersi liberamente, in un contatto profondo dove partecipa al silenzio altrui e comunica il proprio. Il soggetto, allora, non è annullato nella sua unicità ma la riflette intensamente all’altro, a cui giunge come un vortice policromo dove il soggetto nascondendosi, si manifesta.
Note:
1 – Plotino, Enneadi, VI, 9, 11;
2 – P. Prini, Plotino e la genesi dell’umanesimo interiore, Abete, Roma 1968;
3 – M., Isnardi Parente, Introduzione a Plotino, Laterza, Bari 1984;
4 – Plotino, Enneadi, V, 3, 14.
Gabriele Bux