Jünger, Melchionda e l’empiria estatica – Giovanni Sessa
È da poco nelle librerie per Bietti editore un prezioso volumetto di Roberto Melchionda intitolato, La politica dello spirito, curato da Andrea Scarabelli (pp. 33, euro 4,99, ordinabile su Amazon). Raccoglie quattro saggi dedicati dallo studioso all’analisi dell’opera di Ernst Jünger oltre ai Taccuini d’appunti relativi allo stesso autore o a tematiche a questi contigue. A Roberto Melchionda devo molto. La lettura del suo Il volto di Dioniso, edito da Basaia nel 1984, ha influenzato, in modo determinante, il mio “apprendistato” evoliano ed è per me, ancora oggi, imprescindibile guida nell’esegesi dell’idealismo magico. Ritengo pertanto un onore chiudere, con qualche sintetica considerazione, la silloge dei suoi scritti jüngeriani. Il loro ubi consistam va rintracciato nella chiarificatrice lettura della filosofia evoliana di Melchionda. Una visione del mondo, quella dell’Evola filosofo, radicalmente antidualista, sostenuta dal superamento delle distinzioni prodotte, nel corso della sua lunga storia, dal logocentrismo. Evola, lungo tale percorso, mostra l’identità di essenza ed esistenza, di essere e nulla, di fenomeno e noumeno. Il suo sguardo sul mondo ha il medesimo tratto della stereoscopia spirituale, fil rouge dell’opera di Jünger. Uno sguardo cristallino e trasparente sul mondo proprio delle “figure” cui lo scrittore tedesco ha affidato il compito di testimoniare la Sapienza folgorante, misterica e dionisiaca, di cui ha detto Giorgio Colli.
Nel primo saggio della raccolta, Linguaggio e conoscenza in Ernst Jünger, Melchionda rileva come il linguaggio per lo scrittore sia, in uno, opera empirica, risorsa umana, ma anche «resto sacro dell’Assoluto, flatus vocis e paradigma universale». La Parola cui rinviano, con sobrietà classica ed eleganza espressiva, il tedesco e lo stesso Melchionda, è atta a offrire al nostro sguardo tanto la dimensione puramente esteriore delle cose, quanto la loro profondità archetipica. È linguaggio svincolato dalla mera dimensione connotativa e distinguente, teso a recuperare il Dire originario: in esso echeggia l’eterna e sempre possibile origine. In ogni fenomeno palpita l’essenza che il linguaggio trascrive quale testimonianza di un’esperienza gnoseologica che si pone oltre la ragnatela, puramente logico-intellettualistica, tessuta dai concetti. Si intuisce con l’occhio ma si vede con la mente, in quanto l’intera physis è attraversata da «un’identica corrente di potenza elementare» percepibile in attimi felici e immensi, in cui il tempo coincide con l’eterno, chronos e aion tornano a gemellarsi. In tale istante svanisce la distinzione di soggetto e oggetto, si attua la stereoscopia spirituale, vera e propria empiria estatica. Per sperimentarla è necessario un lungo e impervio apprendistato, spirituale in primis, ma che si trasfonde sulla stessa corporeità, svelandola nella sua nudità. Tale esperire richiede apertura dei sensi e dell’intelletto, l’esporsi alla vibratilità della dynamis, animante gli enti di natura. La frase jüngeriana, costruita con ricercatezza, ha tratto magico, allusivo, rimanda alla dimensione cristallina, magistralmente evocata da Adalbert Stifter nel suo Cristallo di rocca (Milano, 1984), che balugina nelle cose. Il linguaggio diviene campo di battaglia selettivo per i pochi che, in piena modernità, rifuggono la distinzione dominate che contrappone la materia allo spirito. Il “maestro di giovinezza” Nigromontanus, protagonista del racconto jüngeriano I rebus, insegnava ad aver fiducia nei sensi. Questi, stante la lezione di Quirino Principe, se convenientemente utilizzati, dicono il primato dell’oggetto sul metodo. Lo stesso Principe ha notato, da par suo, come Jünger abbia convertito la formula conoscitiva dell’empirismo classico in nihil est in sensu quod intellecutus non sit, a sancire la primazia della dimensione immaginale e archetipica in ogni processo gnoseologico che sia realmente tale.
Nel secondo saggio, Melchionda si intrattiene sulla figura del Waldgänger, colui che passa al bosco. L’età segnata dal trionfo del Leviatano e della tecnica «tende ad imbrigliare il flusso metafisico». Solo il ritorno al bosco, il recupero del contatto con la potenza che la natura selvaggia manifesta, terrifica ma rigenerante, può ricondurre l’uomo ad agire onorevolmente. Nella selva si sperimenta l’elementare, l’originario, la libertà. L’azione “onorevole” ha una sua incidenza sul reale, a prescindere dalle circostanze storiche nelle quali ci è stato dato in sorte di vivere. È azione, chiosa Melchionda, che si invera nei “miracoli”: «Essi nascono dalla sfera in cui alberga la libertà» e donano, in ogni caso, “stile” alla necessità. La libertà è sostanza insostanziale, che rinnova il “cuore avventuroso”. Nel terzo scritto della silloge, Stereoscopia dei sensi, Melchionda sostiene le “Figure” del tedesco essere riproposizioni dell’Übermensch nietzschiano. In loro vive la conciliazione estrema di modernità e arcaicità, di tecnica e mito. Conciliazione “rivoluzionario-conservatrice” con la quale si esperisce il reale quale presenza avvolgente del numinoso, degli dèi solo apparentemente eclissatisi. Oltre la storia, Jünger profetizza il ritorno del mito. Infine, lo scritto che chiude la raccolta è Estetica della violenza. L’autore sviluppa una critica, pertinente e argomentata, alla lettura riduttiva della visione del mondo jüngeriana, che Wolfgang Kaempfer presentò nella sua monografia dedicata a Jünger. Kaempfer tenta di psicanalizzare Jünger, individuando nella sua produzione letteraria un “alibi” mirato a coprire, attraverso la “razionalizzazione” del pulsionale, la sua “dipendenza edipica”. Lo studioso in questione riduce il ludus mortis jüngeriano alla mera dimensione dell’inconscio. Ferruccio Masini ha spiegato che il richiamo all’avventura non fu vissuto dallo scrittore in termini romantici. Il “cuore avventuroso” gli ha concesso di approssimarsi all’irruzione dell’elementare. Poeta e combattente condividono la medesima destrutturazione della visione del mondo comune, in quanto vivono un’effettiva rottura di livello ontologica.
(Roberto Melchionda)
Il confronto con la morte, la ricerca del pericolo, rendono edotto chi le pratichi del continuo “potenziarsi della vita”, del suo essere costantemente all’opera. L’avventura è sperimentazione del terribile e del meraviglioso. Melchionda lo ha ben compreso: intento di Jünger fu vivere e scrivere l’avventura come mito liberante. Da qui anche il suo interesse per l’onirico, che si evince dai Taccuini dell’autore. L’onirico è luogo del mysterium vitae, consente di comprendere l’essere uno di veglia e sonno, gioia vitale e angoscia. Solo la “doppia vista” ci espone sugli abissi aperti dal Mondo delle Madri.
Le fasi del pensiero attraversate da Jünger sono fenomenologiche, come per Evola: corrispondono a esperienze realmente vissute. Riteniamo di poter sostenere che, di fronte all’irrompere della dismisura, lo scrittore maturò una sola certezza, appuntata nel suo Diario 1941-1945 (Milano, 1979): «Anche se tutti gli edifici verranno distrutti, rimarrà tuttavia sempre la lingua; castello magico con torri, merli, volte antichissime. […] Quivi nelle sue segrete, nei suoi misteri, si potrà ancora vivere e sfuggire a questo mondo. Così pensando mi sono, oggi, confortato». Dobbiamo esser grati a Melchionda per averci ricordato, in queste pagine dense e luminose, tale possibilità.