Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Jünger e la Grande Madre: meditazioni mediterranee – Giovanni Sessa
Ernst Jünger, insigne rappresentante della Rivoluzione conservatrice tedesca, è stato scrittore di vaglia, diagnosta del moderno, illuminato interprete della Tecnica e profeta di un Nuovo Inizio. Nella sua sterminata produzione letteraria, un posto di rilievo rivestono i diari di viaggio. In essi, l’autore ha dato, sotto il profilo stilistico, il meglio di sé, per il tratto elegante della prosa e per la non comune capacità di affabulare il lettore. Lo conferma il volume, Ernst Jünger, La Grande madre. Meditazioni mediterranee, curato da Mario Bosincu, comparso nel catalogo de Le Lettere (pp. 209, euro 15,00). Il testo raccoglie i diari dei viaggi compiuti dallo scrittore, tra il 1955 e il 1975, nel Mediterraneo, che lo portarono in Sardegna, Spagna, Turchia, Creta, Egitto, Samo, e perfino nel Sinai.
E’ bene aver contezza di quanto, in merito al senso del viaggiare, ebbe a scrivere Marguerite Yourcenaur. La scrittrice affermò che, come un detenuto in attesa dell’esecuzione capitale è portato a compiere il giro della prigione in cui è rinchiuso, così gli uomini, animali davvero mortali in quanto consapevoli della fine che li attende, sono indotti al viaggio da tale tragica certezza. In tale prospettiva, gli umani con il viaggio completerebbero, sic et simpliciter, il giro della “cella” in cui sono costretti. L’affermazione della Youcenaur è forte, ha tratto gnostico. Jünger, di contro, è mosso da una visione totalmente divergente. Egli è animato da afflato neoplatonico, convinto che all’homo symbolicus, sia dato interpretare la natura in termini ierofanici. Nella molteplicità caleidoscopica del reale, Jünger individua i diversi volti dell’Uno. Nelle sue pagine, il viaggio diviene strumento catartico: attraverso lo spostamento nello spazio (che è sempre anche moto nel tempo), di fronte a reperti archeologici e alle meraviglie o al terrifico che alberga nella physis, ci liberiamo dell’accessorio che la ratio moderna ha costruito. Tornati all’essenziale che ci costituisce, ci scopriamo nuovi, sempre in fieri, aperti alle potestates del cosmo.
I diari di viaggio nel Mediterraneo sono, in particolare, il resoconto dell’incontro jüngeriano con l’energia anteica, con la Terra quale riferimento imprescindibile delle civiltà sorte lungo le sponde del Mare Nostrum. Tale potenza torna a far sentire la sua voce nei diari e, per il suo recupero, l’intellettuale tedesco, con Eliade, fondò la rivista Antaios, sulla quale scrisse Evola. Nel paesaggio dionisiaco del Mediterraneo, nei meriggi panici, mirabilmente presentati da Jünger, il lettore ri-scopre il legame indissolubile dell’uomo con la Grande Madre, e tornato a Lei, nell’“attimo immenso” della contemplazione, vive l’eterno. Non è casuale che in tema venga citato Angelo Silesius: «Colui per il quale il tempo è come l’eternità/ e l’eternità come il tempo/ è liberato da ogni sofferenza» (p. 101). Tale la liberazione è possibile in quanto: «ciò che è senza tempo non ci è estraneo. Proveniamo da esso e andiamo verso di esso: ci accompagna lungo il viaggio come il solo bagaglio che non può andare smarrito» (p. 199).
In, La Grande Madre, Jünger, tra i molteplici debiti culturali contratti durante un’intensa esistenza di studioso, salda quello con Bachofen. Lo si evince fin dalle prime battute del diario sardo del 1955. Descrivendo l’estasi provata durante un bagno ristoratore a Capo Carbonara, nei pressi di Villasimius, dove le acque dolci del Rio Campus sfociano in quelle salmastre del mare, così esclama: «Provai un immenso piacere e ringraziai la mia seconda Grande Madre, il Mediterraneo» (p. 72). Acque primigenie e Terra, grembo originario, divengono per lo scrittore simboli di vita, morte e rinascita. Tale ciclo cosmico è ben simbolizzato in questa notazione, trascritta a margine della visita al cimitero di Carloforte, da cui si rileva dal rapporto tomba-fiore, quello tra morte e incipit vita nova: «La paradisea liliastratum era già per lo più sfiorita, mentre la sua più grande parente dal colore rosa era ancora visibile su alcune tombe» (p. 81). Il nostro comprese l’inanità del progresso nel suo vagabondaggio sul Sinai. Nel diario annotò: «Il progresso lineare […] si riduce […] al progredire della tecnica e non esercita alcuna influenza sul comportamento civile, l’arte, la morale» (p. 180). Esso risulta inessenziale rispetto a ciò che conta, in senso eminente, per l’umanità.
Si comprende da questa affermazione il tratto “zelota”, termine utilizzato dal prefatore nell’informata e organica introduzione, della visione del mondo di Jünger. Concezione antimoderna e contraria al moralismo borghese la sua, ancorata alla kultur che, all’inizio del secolo scorso, risultava pulsante in molte espressioni della produzione intellettuale. La contrapposizione jüngeriana alla Zivilisation, evidente nei diari di viaggio, era stata mutuata da Nietzsche e, soprattutto, da Spengler. Dall’autore del Tramonto, il nostro trasse la valorizzazione del sacro che vive nella natura. All’elaborazione della sua visione post-romantica della realtà contribuirono, come opportunamente ricorda Bosincu, Schleiermacher e Rudolf Otto, di cui Jünger apprezzò l’esegesi del numinoso. Grazie alle loro intuizioni, durante il Primo conflitto mondiale, lo scrittore tedesco vide nel combattimento la possibilità, per chi se ne fosse fatto attivo interprete, di conseguire una rottura di livello atta ad aprire nuove prospettive ontologiche. Si sarebbe dovuto lasciare libero sfogo alle forze ctonie, in sequela con quanto, nella società civile, avrebbe dovuto realizzare l’Arbeiter.
Jünger, in seguito, si avvicinò al cristianesimo. Da allora ritenne che il tellurismo dovesse essere, non represso, certo, ma raffrenato dal riferimento allo Spirito. Se inizialmente il ruolo dello scrittore avrebbe dovuto essere mito-poietico, volto a plasmare, sulla scorta del richiamo spengleriano al cesarismo, l’homo totalitarius, nei diari, lo scrittore assume per Jünger la funzione di mistagogo, il quale dovrebbe indurre il lettore ad attraversare i medesimi gradi “iniziatici” da lui vissuti durante il viaggio di “conoscenza”.
I vagabondaggi mediterranei, in luoghi non soggiogati dai fuochi fatui della mobilitazione totale, si risolvono: «in atti di resistenza volti a coltivare l’ “altro lato dell’uomo” […] la regione psichica […] in contatto con le forze sorgive dell’inconscio e aperta alla trascendenza» (p. 65). Per chi scrive, il riferimento alla trascendenza rappresenta una diminutio delle posizioni jüngeriane. L’incontro con la physis è liberatorio, a nostro parere, per il fatto che essa, stoicamente, è l’unica trascendenza che ci sovrasta. Nonostante tale divergenza, La Grande Madre rimane libro illuminante, che vivamente consigliamo.
Giovanni Sessa