“Io terrò duro, qualunque cosa accada” (Otto Braun) – Giovanni Sessa
Più volte ci è capitato di rilevare come il destino dei libri sia insondabile. Volumi di gran pregio, portatori di una nuova visione del mondo, si sono mostrati tali solo decenni dopo la loro pubblicazione. Altri, al contrario, meno significativi, ma imbevuti del senso comune proprio del frangente storico in cui ebbero in sorte di veder la luce, hanno ottenuto immediato riscontro. Il libro che il lettore sta per leggere, Io terrò duro, qualunque cosa accada. Diario e lettere di un giovane volontario di guerra di Otto Braun, testimonia, in modo paradigmatico, quanto detto. La prima edizione italiana, uscita nel 1923, fu curata dal filosofo politico Enrico Ruta con il titolo di Diario e lettere, attrasse l’attenzione di uno sparuto gruppo di intellettuali tra cui, come si vedrà, i filosofi Benedetto Croce e Julius Evola. L’idealista magico, tra i primi, colse l’eccezionalità di questa silloge, individuando nel giovane autore un tedoforo ante litteram delle proprie posizioni speculative.
[…] La pubblicazione di questo testo ha a che fare, inoltre, con un ricordo di chi scrive. Anch’esso rinvia al “destino” del libro che stiamo presentando. Nel 2008 contattai telefonicamente, pur non conoscendolo di persona, il filosofo Franco Volpi. Qualche anno prima aveva scritto la prefazione ai Saggi sull’idealismo magico di Evola: gli chiesi se fosse disponibile a rispondere a mie domande inerenti il suo percorso intellettuale, lo stato della traduzione delle opere di Heidegger nella quale era impegnato, la Rivoluzione conservatrice ed Evola. L’intervista sarebbe stata pubblicata da un piccolo editore romano. Fu molto gentile, ma declinò l’invito. Durante la conversazione, protrattasi per oltre un’ora, discutemmo a lungo di idealismo magico. Al termine mi disse, tenendo conto dei miei interessi: «Le consiglio vivamente di occuparsi di Otto Braun. E’ un autore davvero straordinario, di cui si sa poco. Ho fatto fare ricerche in Germania anche a miei allievi, ma in fondo la parte più importante della sua opera è rappresentata da Diario e lettere. Si prodighi, se possibile, per farne una nuova edizione perché, finalmente, se ne torni a discutere». Ho raccolto il suo invito. Dedico alla memoria di Volpi, intellettuale coraggioso e di spessore, sempre oltre gli steccati dell’ “accademicamente corretto”, queste brevi note.
[…] Otto Braun nacque a Berlino il 27 giugno del 1897. Figlio del dottor Enrico Braun e di Lily von Kretschmann, autrice delle Memorien einer Sozialistin (1910-1911) ispirate al volume di Malwida von Meysenburg, Memorien einer Idealistin, nota negli ambienti del socialismo tedesco per aver avuto parte attiva nella controversia teorico-politica tra l’ortodossia di Bebel e il revisionismo Bernestein. In tale diatriba si schierò dalla parte di quest’ultimo. Il giovane subì l’influenza intellettuale degli amatissimi genitori, ma fu altresì sensibile all’amor di patria, che visse in modo entusiasta, senza mai giungere al nazionalismo sciovinista. Al divampare del conflitto tentò di arruolarsi volontario, ma non vi riuscì. Chiese aiuto, quindi, ad un noto generale amico di famiglia e riuscì ad imbracciare il moschetto: fu ferito più volte e cadde al fronte combattendo eroicamente nel 1918, poco più che ventenne. Per aver contezza della valenza teorico-esistenziale dell’esperienza di questo enfant prodige è ben tener conto del seguente fatto: la sua epoca vide il condensarsi di tensioni inesplicabili, che agirono prepotentemente tanto a livello individuale, quanto collettivo in Europa, più in particolare nella Mitteleuropa che vedrà, dopo la Grande guerra, il dissolversi di due compagini imperiali, l’impero absburgico e il II Reich. Da un punto di vista generale, pertanto, è necessario collocare le pagine di Io terrò duro, qualunque cosa accada, accanto alle coeve esperienze, di vita e di pensiero, di Otto Weininger e Carlo Michelstaedter, segnate profondamente dal riemergere del tragismo. I tre autori afferiscono a quel vasto movimento intellettuale che trascrisse nelle proprie produzioni, tanto i segni tangibili della fine di un mondo, quello borghese-cristiano per dirla con Hegel, quanto la possibilità del realizzarsi di un Nuovo Inizio della storia europea. Ci riferiamo a quella congerie di pensiero che Massimo Cacciari ha definito “metafisica della gioventù” e che abbraccia la generazione nata “attorno” al 20 novembre 1889, giornata in cui Gustav Mahler diresse alla Filarmonica di Budapest la sua Prima Sinfonia: «Questo è il tempo della memoria. Tutti i nati “attorno” alla Prima di Mahler ne sono partecipi: la loro “gioventù” non è che elemento compositivo, un movimento nel contesto della Sinfonia, in fuga verso il proprio Trauermarsch (marcia funebre)» . Un’esperienza speculativa segnata dal negativo e dal rifiuto di ogni riferimento trascendente che, attraversando Stirner e Nietzsche, condivise il platonismo rovesciato di Lukács: «L’assoluto, ciò che non ammette mediazioni, l’univoco, è soltanto il concreto, il fenomeno individuale». I nostri autori furono indotti a vivere socraticamente, privilegiando la dimensione etica, la decisione e la scelta che in loro, a differenza di quanto era avvenuto in Kierkegaard, non era più rivolta al religioso in senso proprio, ma al werk, all’opera che, in tale ottica, avrebbe dovuto realizzare la ricongiunzione di vita e pensiero, di finito ed infinito.
Weininger, Michelstaedter e Braun, presuppongono quale fondamento speculativo inconfessato, la filosofia vahiningheriana dell’als-ob, del come se. Per dirlo con le parole di Cacciari, l’“eroismo” teoretico-pratico cui si votarono: «consiste […] nell’impedirci ogni illusione e, in questo stato dell’anima, mirare a dar-forma al nostro in-dividuo, come se si vivesse in una Cultura, come-se quell’in-dividuo fosse davvero simbolo». […] Le pagine del volume segnano le tappe della formazione di Otto, protesa a conquistare la dimensione propriamente umana che, gli amati Greci, avevano attribuito al solo aner, giammai al mero anthropos, l’uomo dimidiato e centrato attorno alla dimensione biologica-esistentiva. Questi era considerato nella filosofia classica, “incapace di possedersi”, in preda alle correlazioni di coscienza indotte dal rapporto, sempre cangiante, di io e mondo, proprie dell’uomo “rettorico”, facile preda del dio della philopsuchía.
Di tale “animale umano” Michelstaedter dice: «Il suo fine non è il suo fine, egli non sa ciò che fa né perché lo faccia: il suo agire è un essere passivo perché egli non ha se stesso finché vive in lui, irriducibile, oscura, la fame della vita». Bene, il giovane Otto, come testimoniano le pagine appassionate di questo volume, tese a realizzare in sé l’egemonikon, il Centro interiore atto a fornire al nostro percorso esistenziale direzione iperbolica, attraverso la spinta determinata dall’acquisizione della qualità dell’andreia, della “fortezza. […] Solo uomini potenti e virtuosi avrebbero potuto risollevare le sorti della Germania (per il giovane la Germania, per il suo rapporto di intima fratellanza con la Grecia antica, era sinonimo di Europa), troppo grande la crisi in cui la Kultur stava precipitando: «si è mai vista tra gli uomini una tale prostituzione di ogni sentimento, un tale maligno disertamento di qualsiasi cosa forte e severa, una tale distruzione metodica di ogni idea di nobiltà?». Egli era certo che l’incipit vita nova avrebbe avuto lo stigma della civiltà ellenica, in quanto: «l’uomo avvenire porterà inconsapevolmente dentro di sé uno spirito, il quale in parte sarà conseguente con lo spirito greco». Non auspicava un ritorno al passato, nulla a che vedere con prospettive regressive. Nella nuova civiltà avrebbero palpitato assieme le conquiste della modernità e quelle degli Antichi. Il Nuovo Inizio avrebbe visto configurarsi un mondo antico-moderno. Avrebbe trovato, così, adempimento la profezia di Gemisto Pletone: «Sorgerà una religione, a cui tutti gli uomini si sottometteranno; solo che non sarà la cristiana né la pagana, ma assai somigliante alla pagana». Della Grecia il nostro apprezzava, in ogni sua creazione, la superba sintesi di dionisiaco e apollineo. Presso quel popolo, la forma conquistata nelle arti, nella poesia e nella filosofia alludeva, comunque, all’origine caotica del mondo. La religione greca, inoltre, era “civile”, politica, in quanto essa aveva il proprio ubi consistam in: «un consentimento di popolo». Ciò indusse quegli uomini a non indulgere alla contemplazione di sovra mondi né, tantomeno, li spinse a dissolvere la loro individualità nel Tutto, alla ricerca di un nirvana nullificante. Al contrario, essi non distinsero mai natura e sovra natura, corpo e spirito. In tale convinzione Otto fu confermato dalla lettura appassionata di Saffo e Alceo. Si soffermò anche su Protagora e, riflettendo sul suo pensiero, comprese la necessità di far parlare i Greci, finalmente, con la loro voce, in quanto noi moderni: «traduciamo tutto nella terminologia cristiana».
[…] Di qui, l’esplicito dichiararsi “politeista”, “pagano”, “fedele alla vita”. Tale professione di fede si mostra il più delle volte, nell’esaltazione della natura, delle sue bellezze. […] Si è cennato all’interesse di Evola per Braun. Nel momento in cui il filosofo romano era intento, dopo l’esperienza dadaista, a rintracciare le coordinate teoretiche sulle quali costruire l’idealismo magico, guardò con ammirazione a Braun, la cui opera lesse nell’edizione tedesca del 1921. Il pensatore tradizionalista pone Braun al fianco di altri “spiriti della vigilia”, quali Weininger, Michelstaedter, Gentile, Hamelin e Keyserling […] . In Braun, a dire di Evola: «viene […] essenzialmente in rilievo l’aspetto della potenza efficiente, della trasformazione del valore in forza assoluta operante dentro al seno stesso dell’antitesi della bruta realtà». In lui non si tratterebbe di filosofia in senso scolastico, della elaborazione di un sistema, perché ciò che interessava realmente al giovane tedesco era: «lo spettacolo grandioso dell’autocrearsi di una volontà titanica, di una fede incrollabile, di una potenza demiurgica onde il valore divenga vita, realtà assoluta». Il dio a cui Braun fa riferimento vuole farsi “corpo”, uomo. Pertanto, alla luce dell’ “evangelo della volontà”, nucleo vitale della visione del mondo di Otto, è necessario trasformare ciò che il vivere ci offre, conformandolo al nostro scopo. In ciò si mostra la libertà del volere.
Evola non può non apprezzare, nel giovane, la “fedeltà alla vita”, l’approdo greco implicante il recupero della physis e l’attribuzione all’arte di un ruolo essenziale lungo la via della realizzazione. Inoltre, riconosce il tratto carlyliano dell’eroismo politico di Braun, della sua valorizzazione dell’uomo di Stato: «al religioso, al poeta e al sapiente egli contrapponeva l’eroe, ed eroe per lui, al giorno d’oggi, significava uomo di Stato». Era consapevole che la “dominazione” reale, su di sé e la realtà, si trasformava in dato reale solo per quanti avessero risolto la corporeità nella libertà, come accade lungo le vie iniziatiche, ma la sua fu solo un’intuizione lungo tale percorso. Il limite della proposta di Braun è da rintracciarsi, per Evola, nel fatto che esperì la volontà dell’uomo come subordinata: «ad una superiore doverosità, egli umiliava l’Io nella sussunzione ad un compito, ad una missione che pareva procedergli quasi da un demone, da una potenza superiore». Il “porsi al servizio di un dio”, avrebbe distolto Braun dalla realizzazione nella pura immanenza: il daimon in tal prospettiva rappresentando una realtà trascendente. Michelstaedter si era riconosciuto nella centralità originaria dell’Io, la Persuasione, Braun, a dire di Evola, ancorò tale centralità al dovere. Risulta, quindi, inevitabile, per attuare realmente una vita libera e di potenza, quella che, per Evola, sarà dell’individuo assoluto, integrare in uno le prospettive dei due giovani “divini”.
In realtà, a noi pare che, nonostante qualche ambiguità teorica, legata alla trattazione del dovere da perseguire risolutamente, che rischiava di vincolare l’Io, non rendendolo assoluto, libero, Braun rimanga, a proposito del daimon, all’interno della prospettiva ellenica della trascendenza immanente, propria anche della visione evoliana. Stante la lezione di Gian Franco Lami, vivere “al servizio di un dio”, non implica l’abbandono mistico al Principio, ma risulta momento essenziale del percorso virtuoso, anagogico, del filo-sofo che, riconoscendo i propri limiti, non ha pretesa: «di raggiungere e di possedere definitivamente “vera sapienza”». Nell’accettazione dell’esito aporetico del filosofare, nel riconoscimento del “sapere di non sapere socratico”, l’uomo assume contezza che il processo ordinante, in sé e nella comunità, è sempre in fieri, come la vita.
Inoltre, proprio Lami ha chiarito come il daimon pitagorico-socratico: «si qualifica a livello terreno, come funzione naturalmente umana, esplicantesi nell’accompagnare l’individuo, quale agente pensante, lungo il suo specifico percorso esistenziale». In queste parole si mostra il senso del destino personale di Braun, fedele al demone, alla via realizzativa di trascendenza immanente sempre in fieri, pienamente in linea con l’idealismo magico evoliano. Il filosofo romano sa che l’Io, come chiarito da Massimo Donà: «in quanto incondizionato, non può venire identificato con alcuna forma», deve negare ogni norma inconfutabile, sottrarsi ad ogni imperativo, anche quando a vincolarlo: «dovesse essere la stessa incondizionata libertà». L’individuo assoluto, incapace di trovar pace in un positum, pur non essendo limitato, non manca del non-io, non esclude il limite. Tale situazione lo induce a ri-fare, ri-fondare, alla luce della infondatezza del principio, la libertà, sé stesso ed il mondo. Una ragione in più per tornare a leggere, Io terrò duro, qualunque cosa accada.
(estratto dalla prefazione di Giovanni Sessa, Destino e posterità. La primavera sacra di Otto Braun, al volume di Otto Braun, Io terrò duro, qualunque cosa accada”. Diario e lettere di un giovane volontario di guerra, nelle librerie per OAKS editrice a partire dal 19 gennaio – pp. 255, euro 20,00).