Inno alla Voce (RV X 125) – Rosa Ronzitti
- Nulla è attestato di specificamente indiano (1) prima del Veda, il cui membro più illustre e antico, il cosiddetto Rgveda (‘Veda delle strofe’), già appare intessuto di riflessioni, lodi e °miti relativi alla parola. In quanto dea la parola è Vāc (vā́ c-, nom. vā́ k), un sostantivo femminile che corrisponde a lat. vōx e gr. ὄψ, laddove il neutro vácas- (gr. ἔπος) esprime invece la parola o la voce concretamente emessa, specialmente in forma di inno (2). Dei 1028 componimenti del Rgveda, pochissimi sono proferiti in prima persona, le cosiddette ātm° astuti (lett. ‘autopreghiere’): tra questi ne spicca uno assai famoso, RV X 125, in cui Vāc elogia se stessa con toni di vanto ed orgoglio (3). Qui la dea non viene mai nominata direttamente, ma piuttosto attraverso la disseminazione del nome (vásubhiś carāmi e simili, vd. infra) e attraverso l’intitolazione dell’inno, attribuito fittiziamente alla poetessa Vāg Āmbhṛṇi. A parte tale sūkta, Vāc è celebrata an- cora in I 164 e in X 71. Non esiste una vera e propria mitologia della Voce e su di essa emergono tratti contraddittorî: talora divinità primordiale, antecedente agli altri esseri, data da sempre, talora generata dagli dèi o dai saggi per mezzo del pensiero (4).
Forniamo ora il testo vedico con la nostra traduzione italiana (5):
125. 1a aháṃ rudrébhir vásubhiś carāmi
125. 1b ahám ādityaír utá viśvádevaiḥ
125. 1c ahám mitrā́váruṇobhā́ bibharmi
125. 1d ahám indrāgnī́ ahám aśvínobhā́
125. 2a aháṃ sómam āhanásam bibharmi
125. 2b aháṃ tváṣṭāram utá pūṣáṇam bhágam
125. 2c aháṃ dadhāmi dráviṇaṃ havíṣmate
125. 2d suprāvyè yájamānāya sunvaté
125. 3a aháṃ rā́ṣṭrī saṃgámanī vásūnāṃ
125. 3b cikitúṣī prathamā́ yajñíyānām
125. 3c tā́m mā devā́ ví adadhuḥ purutrā́
125. 3d bhū́riṣṭhātrām bhū́ri āveśáyantīm
125. 4a máyā só ánnam atti yó vipáśyati
125. 4b yáḥ prā́ṇiti yá īṃ śr̥ṇóti uktám
125. 4c amantávo mā́ṃ tá úpa kṣiyanti
125. 4d śrudhí śruta śraddhiváṃ te vadāmi
125. 5a ahám evá svayám idáṃ vadāmi
125. 5b júṣṭaṃ devébhir utá mā́nuṣebhiḥ
125. 5c yáṃ kāmáye táṃ-tam ugráṃ kr̥ṇomi
125. 5d tám brahmā́ṇaṃ tám ŕ̥ ṣiṃ táṃ sumedhā́m
125. 6a aháṃ rudrā́ya dhánur ā́ tanomi
125. 6b brahmadvíṣe śárave hántavā́ u
125. 6c aháṃ jánāya samádaṃ kr̥ṇomi
125. 6d aháṃ dyā́vāpr̥thivī́ ā́ viveśa
125.7a aháṃ suve pitáram asya mūrdhán
125. 7b máma yónir apsú antáḥ samudré
125. 7c táto ví tiṣṭhe bhúvanā́nu víśvā
125. 7d utā́mū́ṃ dyā́ṃ varṣmáṇópa spr̥śāmi
125. 8a ahám evá vā́ta iva prá vāmi
125. 8b ārábhamāṇā bhúvanāni víśvā
125. 8c paró divā́ pará enā́ pr̥thivyā́
125. 8d etāvatī mahinā́ sám babhūva
- Io (ahám) vado con i Rudra e con i Vasu, io con gli Āditya e con tutti gli dèi.Io porto entrambi Mitra e Varuṇa, io Indra e Agni, io entrambi gli Aśvin.
- Io porto il soma spumeggiante, io Tvaṣṭar, Pūṣan e Bhaga. Io produco la ricchezza per l’uomo che offre l’oblazione, che compie (i doveri rituali) a modo, che sacrifica e che spreme (il soma).
- Io sono la regina, l’accumulatrice di beni, colei che comprende, prima fra coloro che meritano il sacrificio. Gli dèi mi hanno distribuito in molti luoghi, cosicché ho molte sedi e faccio entrare molte cose (in me) (6).
- Grazie a me (máyā) mangia cibo colui che vede, colui che respira, colui che ascolta l’inno (7).
Senza saperlo, essi dipendono da me (mā́m). Ascolta, o famoso, ti dico una cosa degna di fede! (8)
- Io davvero in persona dico ciò che è gradito a uomini e dèi. Colui che io amo lo rendo forte, lo rendo un brāhmaṇa, un veggente, un sapiente.
- Tendo l’arco per Rudra, perché la freccia colpisca colui che odia (la parola sacra). Io combatto per il popolo, io sono entrata nel cielo e nella terra.
- Io genero il padre9 sulla cima del mondo. Di me (máma) il grembo è nelle acque in mezzo all’oceano. Da lì mi diffondo in tutti gli esseri e tocco il cielo lassù con la mia sommità.
- Io davvero soffio come il vento, afferrando tutte le
Oltre il cielo e oltre questa terra, tale mi sono accresciuta in grandezza. L’aspetto che più colpisce è la ripetizione del pronome di prima persona, che annovera 18 occorrenze, di cui 15 nominativi, un genitivo, uno strumentale e due accusativi (tonico e atono). Il poliptoto del nome o pronome (a referente) divino è una tecnica compositiva e stilistica molto sfruttata, specie in principio di strofe10. In tutte le ātmastuti ahám ricorre in abbondanza ed è legato a un sentimento di orgoglio ed autoesaltazione. I titoli che la dea si attribuisce sono importanti: ella domina su tutti gli immortali (elencati in str. 1 e 2, secondo un ordine probabilmente pre-indiano e quindi ereditario11), ha i tratti della regalità, della ricchezza, della primazia nel culto (str. 3ab), ma “subisce” una distribuzione (3c):
tā́ m mā devā́ vy àdadhuḥ purutrā́
‘Gli dèi mi hanno distribuito in molti luoghi’.
Un concetto quasi identico era già stato espresso nell’inno sacer- dotale X 71 3:
tā́ m ābhŕ̥tyā vy àdadhuḥ purutrā́
‘[I poeti], avendo raccolto lei [Vāc], l’hanno suddivisa in molti luoghi’.
Cosa vuol dire che la parola è suddivisa (vi dhā–) in molti luoghi? Naturalmente, a un primo livello, che ciascun uomo proferisce in- dividualmente un solo e unico codice linguistico identico per tutti e impiegato da una comunità di parlanti, secondo una concezione che può riflettere il contrasto langue-parole di Ferdinand de Saussure. La parola è un “pezzo”; si frammenta negli individui a partire da un principio unico, immanifesto, nascosto e divino e in X 71 i poeti si riconoscono come coloro che mediano la parola (sacra) fra gli dèi e gli uomini. La ‘frammentazione’ è però anche un fatto fonico-fisico: sebbene la sillaba Vāc non sia mai presente, l’eco del suo corpo si moltiplica lungo tutto l’inno (12).
Si potrebbe anche avanzare l’idea che ‘distribuire la parola’ sia un modo per indicarne la flessione e in tal caso l’inno X 125, grazie alla molteplice presenza di ahám, che riecheggia declinato di stanza in stanza, mostrerebbe concretamente quanto enuncia. Il termine tecnico per la declinazione è, del resto, vibhakti ‘distribuzione’ (13), ovvero ripartizione delle forme nominali secondo il paradigma. Non si tratta tuttavia di un processo passivo: suddividendosi, Vāc arriva a tutti gli uomini e per questo nell’excipit, fittamente punteggiato dai fonemi evocativi /v/ e /ā̆ /, dichiara:
ahám evá vā́ ta iva prá vāmi ārábhamāṇā bhúvanāni víśvā
‘Io davvero soffio come il vento, afferrando tutte le creature’.
Se nella distribuzione vediamo un atto “eucaristico”, nel vento della parola che spira potente cogliamo quasi un afflato pentecostale (Atti 2,1 ss.):
‘Il giorno della Pentecoste volgeva al suo termine, ed essi stavano riuniti nello stesso luogo. D’improvviso vi fu dal cielo un rumore, come l’irrompere di un vento impetuoso (ἦχος ὥσπερ φερομένης πνοῆς βιαίας), che riempì tutta la casa in cui si trovavano. Apparvero ad essi lingue di fuoco che si dividevano e che andavano a posarsi su ciascuno di essi’.
Il paragone tra voce e fuoco, che ha come medium comparationis la ‘lingua’ (ved. jihvā́ )14, si trova a nostro avviso tanto in questo celeberrimo passo degli Atti, che pure non ha alcuna relazione storica con l’India, quanto nella cultura vedica. Il Rgveda individua infatti una costante simmetria fra la ripartizione della voce negli individui e la distribuzione del fuoco (Agni) sugli altari sacrificali:
RV VII 1 9:
ví yé te agne bhejiré ánīkam mártā náraḥ pítryāsaḥ purutrā́ / utό na ebhíḥ sumánā ihá syāḥ //
‘O Agni, quei mortali, gli uomini che stanno tra i padri, si sono suddivisi il tuo volto in molti luoghi;
anche attraverso quelli possa tu qui essere benevolente verso di noi!’.
RV VIII 58 2:
éka evā́ gnír bahudhā́ sámiddhaḥ
‘Unico di certo è Agni, per quanto acceso in molti luoghi’.
RV X 80 4:
agnér dhā́ māni víbhr̥tā purutrā́
‘Le sedi di Agni sono suddivise in molti luoghi’.
Dal momento che, una volta diviso, il fuoco si moltiplica, assume grande rilevanza l’avverbio purutrā́ , indicatore di ubiquità e molteplicità. Anche l’avverbio bahudhā́ ‘in molte forme’, lett. ‘che si pone in molti modi’, affine a purutrā́ , possiede ugualmente un valore lin-guistico: rappresenta l’aspetto espressivo del linguaggio che viene scisso in quattro parti (15). Una di queste, l’unica posseduta dagli uo- mini, pur essendo appunto ‘unica’, viene detta attraverso la pluralità dei nomi divini. Ciò sostiene Dīrghatamas Aucathya, uno degli rṣi più audaci e speculativi di tutta la raccolta, in RV I 164 45-46:
catvā́ ri vā́ k párimitā padā́ ni
tā́ ni vidur brāhmaṇā́ yé manīṣíṇaḥ / gúhā trī́ṇi níhitā néṅgayanti turī́yaṃ vācó manuṣyā̀ vadanti //
índram mitráṃ váruṇam agním āhur átho divyáḥ sá suparnó garútmān / ékaṃ sád víprā bahudhā́ vadanty agníṃ yamám mātaríśvānam āhuḥ //
‘Il linguaggio è misurato in quattro impronte:
queste conoscono i brāhmaṇi, che sono provvisti della visione. Tre, impresse di nascosto, non le scindono,
la quarta [impronta] del linguaggio la dicono gli uomini. Dicono «Indra, Mitra, Varuṇa e Agni»;
e così pure «Questo è Garutman, l’uccello divino». Pur essendo unica, i sapienti la dicono in molte forme: dicono «Agni, Yama e Matariśvan»’ (16).
E in parallelo, un altro ṛṣi, Vatsaprī Bhālandana, dice del fuoco (X 45 2):
vidmā́ te agne tredhā́ trayā́ ṇi vidmā́ te dhā́ ma víbhr̥tā purutrā́ / vidmā́ te nā́ ma paramáṃ gúhā yád vidmā́ tám útsaṃ yáta ājagántha //
‘Conosciamo le tue tre parti divise in tre, o Agni; conosciamo le tue sedi/forme, divise in molti modi, conosciamo il tuo nome più alto, che è segreto, conosciamo la fonte da cui nascesti’ (17).
Come l’essere unico e molteplice di Agni non modifica l’essenza del fuoco, così la quarta impronta della lingua, ‘pur essendo unica, i sapienti la dicono in molte forme’, ovvero essi esprimono l’essenza del divino attraverso una pluralità di nomi. Cosa significa, però, che solo un quarto della voce è pronunciato dagli uomini? Probabilmente che di essa conosciamo solo la parte manifesta, mentre il resto rimane ce- lato e inconoscibile. Si tratta, anche qui, di considerazioni scientifiche espresse, secondo lo stile dei sapienti indiani, in forme enigmatiche
– in particolare attraverso il rapporto fra il tre e il quattro (18).
- L’idea che il suono abbia un effetto sui corpi solidi e liquidi non è certo moderna: l’uomo preistorico doveva da tempo aver intuito la natura concreta delle onde sonore. Su tale intuizione si basano diversi miti e racconti, fra i quali il più noto è quello relativo alle mura di Gerico, distrutte da un grido chiamato in ebraico terûʽâ (Giosuè 6,5 e 20). Il contesto biblico è estremamente interessante anche per gettar luce su quello vedico: nei testi preesilici dell’Antico Testamento è descritta una società tribale in cui il potere militare e quello religioso possono collaborare per rafforzarsi. Quando Giosuè intende distruggere le mura della città di Gerico, egli si allea con il collegio sacerdotale, che, dopo un complesso rituale di circumdeambulazione, suona i corni d’ariete a cui risponde il grido del popolo; così potenziato, il grido fa crollare le mura e permette l’irruzione nella città. Cercando una corrispondenza a tale vicenda nella cultura indiana, entriamo nel cuore del più antico e genuino spirito che anima i cosiddetti “libri familiari” del Rgveda (II-VII), opera di sacerdoti appartenenti a clan bellicosi in l°otta contro popolazioni prearie, oppure (se non si aderisce all’ipotesi invasionistica), in lotta tra di loro o con altre etnìe parlanti lingue indoeuropee (19).
Ora, negli inni che appartengono a questo antichissimo strato della raccolta, la divinità guerriera Indra è spesso impegnata nella distruzione di mura e città fortificate, tanto da ricevere gli epiteti di puraṃdará- ‘distruttore di rocche’ o pūrbhíd- ‘id.’, da tempo comparati al greco πτολίπορθος (20). Sul piano prettamente mitico, Indra compie un’opera simile distruggendo il demone Vala, immaginato come un recinto di pietra che racchiude le vacche luminose (le aurore) e tiene nel buio la terra (21). L’arma che Indra usa per frantumare Vala è la parola (vácas-), cfr. RV VI 39 2:
rujád árugṇaṃ ví valásya sā́ num paṇī́m̐r vácobhir abhí yodhad índraḥ ‘Spezzò il dorso infrangibile di Vala, Indra con le parole combatté i Paṇi’.
Un secondo termine, che compare assai di frequente nel medesimo contesto, è ráva- ‘grido, muggito’ (RV IV 50 5):
sá suṣṭúbhā sá ŕ̥ kvatā gaṇéna valáṃ ruroja phaligáṃ ráveṇa
‘Egli con la schiera dalla bella preghiera, ricca di strofe ha spaccato Vala, il phaliga (22), con il grido’.
Soggetto dell’azione è questa volta Brhaspati ‘il signore della formula’: antico epiteto di Indra, esso dà luogo a una divinità separata, un alter ego sacerdotale del dio-guerriero, quasi un doppio (23), che compie le stesse imprese, anche con l’aiuto di una schiera canora che rafforza la potenza del suo grido (il parallelismo con Giosuè è evidentissimo); si veda un esempio tra molti in RV VII 79 4
yā́ m tvā jajñur vrṣabhásyā ráveṇa ví drl̥̄ ̱hásya dúro ádrer aurṇoḥ
‘Tu sei colei che [i cantori] hanno generato grazie al muggito del toro (Br̥haspati),
tu [o Aurora] apristi le porte della chiusa fortezza’.
Per tale motivo Br̥haspati viene detto adribhíd- ‘colui che spacca la roccia’ o la ‘nuvola’ (hapax, RV VI 73 1): l’epiteto è parziale ana- gramma del nome divino, secondo il fondamentale principio che la parola rivela l’essenza di ciò che designa (24). Notiamo che ráva- ‘grido’, nel succitato RV IV 50 5, è posto in relazione con la radice ruj- ‘fare a pezzi’, pur derivando etimologicamente da ru- ‘muggire, gridare’. La sequenza allitterante ruroja … ráveṇa rivela dunque la natura del grido divino, un grido che spezza il demone, permetten- do a Indra o Br̥haspati di liberare la luce. Essa ricorre diverse volte, a testimonianza di una formularità condivisa da autori provenienti da diverse famiglie sacerdotali che ricordano le azioni degli dèi e dei propri antenati mitici (RV I 71 2):
vīl̥ú cid dr̥̄ḻhā́ pitáro na ukthaír ádriṃ rujann áṅgiraso ráveṇa
‘I nostri padri Aṅgiras, grazie alle loro preghiere,
spezzarono i saldi bastioni con le preghiere e la roccia con il grido’.
Nei Brāhmaṇa un’eco dell’episodio di Vala prende forma nell’u- parava, il rituale della ‘buca che risuona sottoterra’, descritto in Śatapatabrāhmaṇa III 5 4: il sacrificante scava nel terreno una serie di buche per seppellirvi degli incantesimi che potranno fuoriuscire per decapitare i demoni (25). A tale scopo è prescritto che l’officiante dell’uparava afferri una spada pronunciando formule propiziatorie in cui la voce è chiamata rakṣohanām ‘abbattitrice del rakṣas’(26) e valagahanām ‘abbattitrice del Valagaʼ. Si tratta di epiteti bellici che non lasciano dubbi sul fatto che funzione sacerdotale e funzione guerriera potessero coabitare nella rappresentazione della parola rituale.
- Torniamo quindi al nostro inno X I due versi 6ab alludo- no sicuramente alla violenza della voce:
aháṃ rudrā́ya dhánur ā́ tanomi brahmadvíṣe śárave hántavā́ u ‘Io tendo l’arco per Rudra,
perché la freccia colpisca colui che odia la formula’.
Pare del tutto chiaro che la freccia tesa contro l’odiatore sia la parola, foggiata in forma di arma penetrante e, nel contempo, arciera che scaglia se stessa. La metafora della parola-freccia è ben presente in varie culture e, per quanto riguarda il parallelismo greco-vedico, Marcello Durante ha trattato a fondo la questione occupandosi della formula omerica ἔπεα πτερόεντα ‒ ‘parole alate’ (come frecce piumate) ovvero parole ben dirette, aderenti alla situazione, ben imbroccate (27). Negli studi più recenti di Patrizia Laspia (1996, 67 ss. e 2002) è stato posto l’accento sul fatto che gli ἔπεα πτερόεντα partono dal petto del parlante e si dirigono verso l’ascoltatore viaggiando nell’aria come frecce: sarebbe in tal modo rappresentato lo schema comunicativo di base ‘emittente – mezzo – ricevente’. A differenza del Durante, la Laspia dà perciò al sintagma omerico un significato più ampio: è indifferente (lo si capisce dal contesto) che la comunicazione sia o meno ben diretta. Piuttosto, il tertium comparationis della metafora è costituito dal modo in cui viene concepito il processo articolatorio: le parole, fatte di voce, partono dall’interno del petto e vengono scagliate in direzione di un ascoltatore, esattamente come un dardo scagliato dall’arco.
L’immaginario bellico indiano appare esteso dalla singola meta- fora all’intero contesto dell’enunciazione, che diviene una “batta- glia” nella quale il sacerdote che tira parole-frecce è rappresentato come un arciere. Trascegliamo alcuni esempi dall’Atharvaveda, la raccolta a carattere magico che, pur contenendo materiali di grande antichità, non è inserita nel canone ordinario dai rami sacerdotali di più stretta osservanza. Nelle strofe seguenti i brāhmaṇi appaiono quali “guerrieri della parola”, pronti a combattere chi mette in discussione i loro poteri e chi prova ad appropriarsi delle loro vacche, cfr. V 18 8-9 (la vacca stessa è trasfigurata in arma) (28):
jihvā́ jyā́ bhávati kúlmalaṃ vā́ ṅ nāḍīkā́ dántās tápasābhídigdhāḥ / tébhir brahmā́ vidhyati devapīyū́ n hrdbalaír dhánurbhir devájūtaiḥ // tīkṣṇéṣavo brāhmaṇā́ hetimánto yā́ m ásyanti śaravyā̀ ṃ ná sā́ mṛ´ṣā / anuhā́ ya tápasā manyúnā cotá durā́ d áva bhindanty enam //
‘La lingua della vacca diventa un arco; la voce diventa un collo (di freccia), i denti aste unte dal calore.
Con questi archi che colpiscono il cuore, mossi dagli dèi, il brāhmaṇo trafigge gli odiatori degli dèi//
I brāhmaṇi hanno frecce affilate, sono provvisti di dardi; la freccia che scagliano non è invano.
Inseguendo con fervente furore (il nemico) lo fanno a pezzi anche da lontano’.
E ancora (str. 15):
íṣur iva digdhā́ nr̥pate pr̥dākū́ r iva gopate /
sā́ brāhmaṇásyéṣur ghorā́ táyā vidhyati pī́yataḥ
‘Come una freccia avvelenata (lett. ‘unta, intinta’)29, o signore degli uomini, come una vipera, o pastore,
terribile è la freccia del brāhmaṇo; con questa trafigge gli odiatori’.
Se ora confrontiamo i tre passi con il succitato RV X 125 6, notia- mo l’identità delle metafore e del lessico. In X 125 la freccia-parola è scagliata dall’arco di Rudra (divinità feroce) e diretta contro chi odia il mondo dell’ortodossia e della rettitudine; solo i brāhmaṇi hanno la certezza di possedere e poter usare la parola efficace, la parola-arma, la formula (brahma) appuntita contro il brahmadvíṣ–. In AV V 18 la voce-freccia parte dall’apparato boccale delle vacca, viene scagliata dall’arco-lingua, è cosparsa di veleno come i denti di una vipera – indubbiamente l’effetto della maledizione. La voce, in particolare, diventa kúlmala-, ovvero la parte allungata del dardo (30), e il suo colpo non fallisce mai: yā́ m ásyanti śaravyā̀ ṃ ná sā́ mŕ̥ ṣā. Doveva trattarsi di una metafora diffusa e valida sia dal lato di chi colpisce sia dal lato di chi deve respingere l’assalto. In effetti, la ma- ledizione è una parola tossica scagliata e un ago avvelenato che deve essere tirato fuori dal corpo offeso attraverso formule di guarigione, cfr. AV IV 6 5:
śalyā́ d viṣáṃ nír avocaṃ prā́ ñjanād utá parṇadhéḥ / apāṣṭhā́ c chṛṅgāt kúlmalān nír avocam aháṃ viṣám
‘From the tip [of the arrow] I have spoken out the poison, from the [poisonous] smear and from the feather-socket; from the barb, the horn, and the neck [of the arrow] I have spoken out the poison’.
Come nota Paolo Visigalli (2017: 105), di cui abbiamo riportato la traduzione inglese, il verbo nir vac-, lett. ‘parlare fuori’, indica l’atto di espellere qualcosa di dannoso per mezzo di un esorcismo. Il veleno (viṣám) allude probabilmente a un demone maligno e/o a un incantesimo che viene estratto completamente dall’operatore magi- co attraverso parole di guarigione. Leggendo i passi indiani non si può fare a meno di pensare al rapporto fra gr. τόξον ‘arco’ (al plura- le ‘arco e frecce’) e τοξικός ‘avvelenato’, che compare per la prima volta in Aristotele (o Pseudo-Aristotele) in Mir. 837a 13 nel sintag- ma τοξικὸν φάρμακον ‘veleno da mettere sulla punta delle freccia’, da cui per ellissi il semplice τοξικóν (lat. toxicum) ‘veleno’ (31).
Alcuni autori greci usano invece la parola τόξευμα. In Pindaro si tratta di inni adatti a celebrare le vittorie nelle gare: πολλὰ μὲν ἀρτιεπής / γλῶσσά μοι τοξεύματ’ ἔχει (Isth. V 48-49) ‘La lingua spe- dita (veritiera?) ha per me molte frecce’ (32); ῥίμφα παιδείους ἐτόξευον μελιγάρυας ὕμνους ‘Agilmente scagliarono per giovani uomini inni dalla voce di miele’ (Isth. II 3). Sofocle custodisce forse l’esempio più interessante; collocato in un contesto di maledizione sacerdotale simile a quelli vedici, esso si estende all’intero contesto, Ant. 1084- 1086 (Tiresia parla contro Creonte):
τοιαῦτά σου, λυπεῖς γάρ, ὥστε τοξότης ἀφῆκα θυμῷ, καρδίας τοξεύματα βέβαια, τῶν σὺ θάλπος οὐχ ὑπεκδραμεῖ.
‘Tali dardi, poiché offendi, come un arciere ho scagliato con ira, saldi contro il tuo cuore; tu non sfuggirai al loro bruciore’.
Tiresia riprende le parole usate poco prima da Creonte (1033- 1035):
ὦ πρέσβυ, πάντες ὥστε τοξόται σκοποῦ τοξεύετ᾽ ἀνδρὸς τοῦδε, κοὐδὲ μαντικῆς ἄπρακτος ὑμῖν εἰμι … .
‘O vecchio, tutti, come arcieri, a bersaglio
saettate contro quest’uomo. Né dalla vostra arte divinatoria sono risparmiato …’.
Nelle Coefore di Eschilo Clitemnestra si figura la maledizio- ne (ἀρά) come un’arciera che bersaglia di tiri infallibili (τόξοις … εὐσκόποις) la casa degli Atrìdi (962-985).
Tornando al vedico, osserviamo che il poeta instaura senz’altro un rapporto tra veleno e odio: la prima parola, viṣám, è contenu- ta nella seconda, dvíṣ– (sost. f., accusativo dvíṣam), a loro volta en- trambe incorporano íṣ– ‘scagliare’, che è la radice di ‘freccia’ (íṣu-). Chiaramente il rapporto si ripropone, tanto in praesentia quanto in absentia, ogni volta che torna il paradigma della parola d’odio rap- presentata come freccia avvelenata (33).
- Possiamo affermare, in conclusione, che l’inno X 125 tratteg- gia Vāc come regina, divinità suprema, dominatrice degli esseri. Sono accennati alle strofe 3 e 6 due grandi momenti della cultura vedica: quello speculativo, tutto percorso da intuizioni filosofiche e scientifiche di altissimo livello che, come è noto, fecondarono a partire dai primi dell’Ottocento la scienza linguistica occidentale permettendole di passare da un orientamento grammatico-retorico tradizionale a un’attitudine più astratta e formalizzante nell’analisi fonetica e morfologica, e quello, invece, intessuto della cultura tribale che animava i clan Ārya discesi nei territori indiani in epoca preistorica, i quali coglievano nella parola una forza distruttrice, annientante, potente come un’arma. Dei due ambiti, il secondo è ritenuto più antico, mentre il primo apparterrebbe a uno strato di riflessioni sistematicamente seriori, la maggior parte della quali si trova in effetti raccolta nel primo e nel decimo maṇḍala, libri recenti del Rgveda. Caratterizza tali riflessioni lo stile allegorico, spesso esposto in forma di enigma e pertanto diretto a un uditorio iniziatico. Il loro contenuto allude al fatto che la voce nasce da una realtà mentale, concettuale, cui l’uomo può attingere in modi e forme sensibili solo per una piccola parte. Il ruolo di Vāc risulta fondamentale perché essa rappresenta il principio divino senza il quale la ‘rivelazione’, śruti (che è nozione uditiva), non potrebbe nemmeno darsi. Mentre gli uomini passano e muoiono, la parola sacra, inalterabilmente tramandata di gene- razione in generazione da gruppi sacerdotali preposti, sopravvive all’individuo, continua a trasmettere il suo messaggio di verità a coloro che sanno, essendo la sua vera essenza imperitura, eterna e trascendente.
Note:
1 Con sanscrito si intende una lingua che è attestata nell’India centro-settentrionale dal VI sec. a.C. e che, sebbene presto non più parlata, diviene lingua classica grazie alla teorizzazione grammaticale di Pāṇini e a una ricchissima produzione letteraria che copre pressoché ogni ramo del sapere. Con vedico si intende invece una varietà del II millennio a.C., più antica della precedente e di localizzazione nord-occidentale (Pakistan setten- trionale, Punjab, Kashmir): il corpus vedico è chiuso e limitato, nel senso che, dopo una produzione costituita da inni religiosi e da loro commentarî, esso si esaurisce nella prima metà del I millennio a.C. I testi vedici sono stati tramandati oralmente da cerchie sacerdotali e messi per iscritto solo nell’èra cristiana; ancora oggi la loro memorizzazione è richiesta ai brāhmaṇi, soprattutto in alcune zone dell’India meridionale.
2 Cfr. Chantraine (1984: II 845): vedico e latino, a differenza del greco, presentano vocale lunga generalizzata in tutti i casi. Per vácas- abbiamo il significato di ‘parola, Lied, preghiera’, spesso al plurale; vā́ c- è invece attestato quasi solo al singolare e può indicare, oltre che la dea Voce, qualsiasi tipo di emissione sonora, compresi i versi di animali, il crepitio del fuoco e lo scorrere del soma. In parte, l’opposizione vā́ c- (animato, f.) ~ vácas- (inanimato, n.) può ricalcare il tipo ā́paḥ ‘Acque’ (divine, f.) ~ udán– ‘acqua’ (elemento, n.), di cui a lungo ha trattato Romano Lazzeroni (p. es. Lazzeroni 1998: 34 ss.).
3 Si tratta di un vero e proprio stile in “prima persona”, detto ahaṃkāra, che im- plica un autoelogio da parte dello stesso dio cui l’inno è dedicato: inni in prima persona sono IV 42 (Indra), X 48 e 49 (vanto di Indra), X 159 (vanto di una donna chiamata Śacī Paulomī). Su questa rara tipologia testuale cfr. Thomson (1997). Il grammatico indiano Yāska (VI a.C.?) aveva già perfettamente individuato la categoria delle autoinvocazioni divine nel suo commentario Nirukta (VII 1-2), su cui Ronzitti (2014: 141-143).
4 Per un commento generale a X 125 segnaliamo almeno Renou (1955), Brown (1968) e Pellegrini Sannino (2000).
5 Abbiamo consultato Geldner (1951: III 355-356), Sani (2000: 106-107), Jamison- Brereton (2014: III 1601-1604). Nel recente Ronzitti (2021) abbiamo affrontato in partico- lare il celebre enigma della voce-bufala che divide le onde del mare primordiale in RV I 164 41-42, di cui qui invece non tratteremo (ma si veda Viti 2000 per un’introduzione al passo).
6 L’epiteto āveśáyantīm (participio presente attivo causativo di ā viś–) è stato va- riamente inteso: alcuni commentatori lo rendono con ‘che assume molti aspetti’, mentre la traduzione che abbiamo scelto, sulla scorta di Jamison e Brereton (‘and cause many things to enter (me))’, valorizza la forma causativa della parola.
7 La relazione tra la dea e il cibo è stata a nostro avviso ben spiegata da Jamison-Brereton (2014: III 1602): «In the first three pādas of verse 4 she depicts speech as that on which the other operations of life depend, but in a curiously oblique way – not through speech directly but through eating. […] What can she mean by this odd statement? If we are right, (at least) two different things. On the one hand, she is laying claim to the mouth, the organ that engages in both eating and speaking. The other sense organs – eyes (sight), nose (breathing), ears (hearing) – are not involved with either operation. Eating is essential to life: one can’t see, breathe, or hear without being alive, which requires food, and so, by their joint location in the mouth, Speech can assert her primary role in eating and thus in staying alive. By this argument, all other sense activities depend on Speech. But we think there is also another, more pointed message here, about the poet, whom she is about to address. The poet makes his livelihood (“eats his food”) by producing poetic speech from the inspiration of the goddess Speech, and his sense activity, including the ways in which he receives inspiration, by seeing and hearing especially, as well as his life depends on her».
8 Il verbo śravati ‘ascoltare’ corrisponde al gr. κλύω e al lat. cluo, dalla protoforma *klew-. Cfr. Mayrhofer (1996: 666-667). La triplice figura etimologica è difficile da rende- re in italiano.
9 Si tratta di un non meglio specificato “padre cosmico”, che viene evocato attra- verso l’immagine paradossale di una figlia che genera il proprio genitore, secondo il prin- cipio della cosiddetta “parentela reversibile” presente anche in altri inni che contengono riflessioni sulle origini dell’universo (X 72, X 90, X 129). Per Jamison-Brereton si tratta di Agni, il fuoco rituale deificato.
10 Cfr. Ronzitti (2014: 15-101).
11 La sequenza mitrā́váruṇobhā́ … indrāgnī́ ahám aśvínobhā è la stessa che compare nel famoso trattato dei Mitanni KBo I 3 (cfr. Thieme 1960: 303). Gli dèi nominati rico- prono con sistematicità tutte le funzioni duméziliane: sacerdotale, guerriera, riproduttiva.
12 È la tecnica anagrammatica e ipogrammatica messa in luce dal Saussure stesso nei famosi scritti “esoterici” pubblicati da Starobinski (1982 [1971]). Si vedano anche Toporov (1981), Bader (1993) e Watkins (2002) per l’applicazione di tale principio agli inni vedici e ad altri esempi di poesia indoeuropea.
13 Nomen actionis di vi bhaj- ‘suddividere’, ha già pienamente il senso di ‘desinenza’, ‘declinazione’ nella grammatica di Pāṇini.
14 Il termine è polivalente (come del resto in italiano), indicando sia le fiamme sia l’organo fonatorio che articola la voce.
15 Cfr. Maggi (2001: 315).
16 Per tutto il passo si vedano Maggi (1989: 88-90) e (2001: 315 e ss.), ove è motivata la traduzione di íṅgayanti con ‘scindono’.
17 Agni è triplice perché nasce dal cielo, dagli uomini e dalle acque. Nel ‘nome segre- to’ (guhyaṃ nāma), espressione studiata da Sani (1974), sta riposta la più intima essenza del divino.
18 Come è noto, anche l’uomo primigenio (Puruṣa) celebrato in X 90 è formato da quattro parti: tre stanno in cielo e sono immortali, la quarta è il mondo visibile che comprende tutte le creature (str. 3c: pā́ do ’sya víśvā bhūtā́ ni tripā́ d asyāmŕ̥ taṃ diví). Giu- stamente osserva il Sani (2000: 255) che nel Veda il concetto di ‘quarto’ rappresenta uno scarto rispetto alla struttura triadica dell’Ordine e quindi è imperfetto piuttosto che perfetto, umano piuttosto che divino.
19 Per questi argomenti, con particolare riferimento alla forza d’urto del suono e alle sue trasposizioni immaginifiche, cfr. Ronzitti (2001: 13-29, 2007 e 2021).
20 Tali episodi ricordano, verosimilmente, attacchi delle tribù arie a civiltà urbane (o almeno provviste di mura fortificate), che potrebbero però risalire al periodo prevedico e a una collocazione geografica anteriore alla discesa degli Ārya attraverso i valichi del Hindukush. Sul tutto cfr. Costa (1987).
21 Il mito di Vala fu accostato a quello di Ercole e Caco, narrato nel libro VIII dell’Eneide, già da Michel Bréal (1863), uno dei padri della mitologia comparata. Vi sono peraltro molti segnali che autorizzano un’interpretazione plurisemica di questa impresa. Marcello Meli (1998), per esempio, ha argomentato in modo molto convincente che l’in- gresso di Indra in Vala ha le caratteristiche di una discesa nel labirinto. Nell’Ottocento e sporadicamente in autori più moderni è preferita una lettura atmosferica (Vala rappre- senterebbe in origine la nube di tempesta).
22 Epiteto di significato incerto, che potrebbe contenere la parola phála- ‘frutto’ e quindi indicare l’involucro del demone-recinto-nuvola (vd. alla nota precedente). Da tempo il termine è stato confrontato con il nome greco del centauro Folo (i Centauri nascono dall’unione di Issione con una nuvola). Su questo cfr. Ronzitti (2014: 229).
23 Cfr. Schmitt (1968).
24 Cfr. Gonda (1955) e Deeg (1995) per un’ampia trattazione del rapporto fra etimo- logia e verità nella speculazione vedica.
25 Il tutto ricorda la storia del barbiere del re Mida, che confidò il segreto delle orec- chie asinine alla terra scavata, dalla quale le parole si propagarono attraverso un canneto (cfr. Ovidio, Met. XI 85-193).
26 Ovvero ‘demone, creatura maligna’.
27 Cfr. Durante (1976: 126-128). Si tratta di pagine fondamentali, dalle quali traiamo alcuni degli esempi citati nel séguito. Per un aggiornamento bibliografico sulla formula, oggetto di moltissimi lavori, cfr. Dell’Oro (2005-2006).
28 Il bovino femmina (vacca o bufala) rappresenta più volte la dea-Parola, come nel- le famose strofe RV I 164 41-42, in cui il muggito primordiale segmenta il mare indistinto dei foni (vd. alla nota 5).
29 Il participio passato passivo digdhá- si forma dalla radice dih- ‘ungere’ (*dhei̯gh́ –), che è la stessa di gr. τεῖχος ‘muro’, lat. fingo etc. e dunque indica in origine l’azione di impastare. Il veleno veniva ovviamente spalmato sulla punta della freccia.
30 Poiché il corpo della parola si protende fra emittente e destinatario attraverso il canale (vd. supra nel testo), allungarsi rappresenta l’estensione della voce nello spazio aereo al fine di raggiungere l’interlocutore. Per questo, in altri passi, le preghiere sono raffigurate come dita che si avvicinano agli dèi e li toccano (cfr. Ronzitti 2001: 74-96).
31 L’argomento è noto, vasta la bibliografia. Ci piace almeno ricordare Novari- ni (1990), con particolare riferimento a p. 220, ove si ricostruisce la storia lessicale di τοξικóν. Un rapporto tra ‘freccia’ e ‘veleno’ si crea giocoforza nel greco, dato che le due rispettive basi indoeuropee *is- e *uī̆ s- esitano nell’omofono ἰός (*isϝós e *ϝīsós).
32 Massetti (2020), che esamina il composto ἀρτιεπής in relazione a ved. r̥tvíya- vā́k-, av. rec. raϑβiia- vacah-, rettifica l’interpretazione tradizionale (‘lingua spedita’) per avvici- narla a quella dei composti indoiranici (‘lingua veritiera’).
33 Si vedano in proposito le importanti notazioni del recentissimo Ferrara (2021), con specifico riferimento al nostro tema alle pp. 103-104. Per un rapporto diretto tra odio e freccia cfr. anche la triplice figura fonica di RV I 39 10cd: r̥ṣidvíṣe marutaḥ parimanyáva íṣuṃ ná sr̥jata dvíṣam ‘O Marut, scagliate il vostro odio come freccia a colui che, avvolto dalla furia, odia il veggente’.
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Prof.ssa Rosa Ronzitti,
glottologa e linguista dell’Università di Genova