Il talismano di Fedro: Davide Susanetti e la mania sacra – Giovanni Sessa
Noi, uomini della società liquida, post-moderna, viviamo la situazione di crisi che attraversa in profondità le nostre vite, come se fosse naturale, destinata a perpetuarsi per l’eternità. Viviamo una vita chiusa nell’endiadi produzione-consumo: in essa il desiderio si è plebeizzato, involgarito, è divenuto, come rilevò il “fanciullo divino” Carlo Michelstaedter, “rettorico”. Del resto, la merce, deus ex machina della contemporaneità, non può, per il tratto limitato che la connota, che rinviare sempre a se stessa, a nuovi consumi. Abbiamo obliato il senso profondo del de-siderio, della tensione alle stelle che, in quanto uomini, ci connota ontologicamente. Coglie nel segno, pertanto, Davide Susanetti, grecista dell’Università di Padova, nel sostenere che: «abbiamo bisogno di trovare nuove sintesi che ci rendano capaci di vedere, desiderare e immaginare un orizzonte diverso da quello che le ceneri della post-modernità ci pongono davanti agli occhi» (p. 11). Lo scrive in un volume non solo speculativo, ma caratterizzato da evocatività poetica, Il talismano di Fedro. Desiderare, vedere, essere, di recente comparso nel catalogo di Carocci editore (pp. 150, euro 15,00).
Un volume dal ritmo coinvolgente, che cattura l’interesse del lettore conducendolo all’interno di un complesso percorso di conoscenza, il cui incipit muove dall’esegesi delle pagine del Fedro di Platone e giunge, negli altri due capitoli, ad attraversare la Sapienza sufica e le memorabili pagine di, Morte a Venezia, di Thomas Mann. Sappia il lettore, Susanetti presenta un iter che lo ha coinvolto e lo coinvolge in prima persona, in cui non è in gioco il sapere astratto, l’intellettualismo fine a se stesso, proprio di tanta Accademia contemporanea, ma la vita stessa, nelle sue profondità. Viene così narrato l’incontro di Fedro, il Luminoso, giovane dalle belle fattezze, con Socrate. Un incontro che ha al proprio centro i lógoi e soprattutto, attraverso il dialogo che i due intrattengono su un testo dedicato da Lisia all’amore, la potenza di Eros. I due si incamminano, superate le mura di Atene, verso la campagna, verso la pianura dove scorre il fiume Ilisso. Cosa, questa, inusuale per il “cittadino” Socrate, aduso intrattenersi in colloqui stringenti con i giovani rampolli dell’aristocrazia. Infatti: «Le parole e i discorsi esigono la libertà di un altro modo di abitare il tempo: un agio e un indugio in cui il tempo apparentemente si spreca» (p. 16). Ma, in questa occasione, la polifonia civica viene meno. I due, giunti nella piana, in un mattino estivo di pieno lucore, si dirigono verso un platano frondoso, per godere dell’ombra ristoratrice.
Socrate è stupito dalla bellezza del paesaggio, si meraviglia, quasi fosse uno straniero inconsapevole della grazia del luogo. E’átopos, senza luogo, un uomo “strano”, in ascolto della voce del daimon. L’estraneità è una: «condizione privilegiata per chi voglia sentire e vedere diversamente, per chi intenda percepire ciò che d’abitudine sfugge e resta nascosto» (p. 20). La natura parla. Nei pressi del platano sorgono dei piccoli agálmata, statuette raffiguranti le Ninfe: «spiriti silenti del verde […] palpito che agita il crescere dell’erba, il boccio dei fiori e il viluppo dei rami» (p. 21). Queste si insediamo al fondo degli specchi d’acqua, sulle rocce ricoperte dal muschio, ai lati dei ruscelli. Fluide, rapide e inafferrabili come l’acqua, talora sfiorano la mente dei mortali, se ne impossessano. E’ lo stato che Roberto Calasso ha definito delle “acque mentali”. Esse permettono di vedere il mondo nella sua totalità, al di là di ogni dualismo, oltre l’individuazione apollinea. In tal caso, le Ninfe danno luogo alla sacra manía. La campagna ateniese, oltre che dalle Ninfe, era abitata da Pan.
Questi si manifesta in: «un improvviso fremito di piacere che attraversa un corpo, in un accesso di paura […] l’esplodere di un’erezione inconsulta» (p. 21). Pan indica l’energia che anima ogni cosa e circola in ogni luogo. E’ un “tutto”: «dalla duplice natura» (p. 21), liscio e levigato in alto, il cielo, aspro e ruvido in basso, la terra. Egli è, in quanto figlio di Ermes, dio del linguaggio, della potenza del dire. Per tale ragione, Socrate intrattiene Fedro difendendo il mito, contro i “ragionamenti duplici” dei Sofisti. Egli sostiene che bisogna liberarsi della verosimiglianza, al fine di cogliere ciò che nel mondo sempre è, vale a dire Pan, Anima. Il visibile, infatti, affonda nell’invisibile. E, contro Lisia, esalta la funzione dell’Amore, forza simpatetica primigenia, suscitata dalla bellezza, strumento che, qualora opportunamente vissuto, può smuovere la nostra natura cosale, statica, la “pietra grezza” che pare costituirci, e far emergere il Sé, puro cristallo di rocca.
La manía è intensità, entusiasmo, espansione senza confini della coscienza: «per manía gli uomini divengono capaci di parole e musica che celebrano l’essere e l’ordine dell’universo […] scoprono i riti e le celebrazioni misteriche che li avvicinano agli arcani della divinità» (p. 39). Socrate parla dell’Anima e della sua sorte, ricordando le tesi del pitagorico Timeo: solo attraverso i misteri, la visione dischiusa dall’epopteia, è possibile il transito all’origine, al luogo: «dove brillano immote le idee» (p. 43). Eppure, in giornate e in luoghi come quelli descritti nel Fedro, nei momenti di “follia d’amore”, per chi sappia, è dato vivere la physis quale epifania divina, è concesso superare le distinzioni di essere-nulla, uno-molti, dio-uomo. Tale sapere ninfale, ricorda Susanetti, ritorna prepotente nella Persia dei Sufi, a cavallo tra XII e XIII secolo. Anche essi praticarono una Via d’amore, una Via: «del cuore ebbro e ardente, che eccede tanto la logica della razionalità discorsiva quanto la lettera della legge coranica» (p. 95). L’anima che tende all’Uno: «è come un uccello di platonica memoria che tenti di spiccare il volo al di là del velo delle illusioni e dei vani simulacri» (p. 95).
Nel terzo capitolo, In riva al mare, analizzando il racconto di Mann, Morte a Venezia, l’autore mostra che il protagonista, Gustav von Aschenbach, perdutamente innamorato di un giovinetto polacco incontrato in un albergo della città lagunare, all’inizio tenta vanamente di sottrarsi alla potenza di Eros, delle “acque mentali”, ma alla fine soccombe ad essa, la subisce. Egli è, quindi, sulla propria pelle, testimone di quella metamorfizzazione della vita, che ha sempre per protagonista la potestas di Dioniso. Questi, la sua ebbrezza, sciolgono la pesantezza, la gravità e le cristallizzazioni, che incombono perfino sul meriggio della campagna ateniese del Fedro, in quanto tale dio testimonia che tutto è Uno, il meriggio è già oscurità e viceversa. Mann, in tal modo, mostra che l’atto dello scrivere, quando ha valore, ha tratto “magico-ermetico”, vale a dire funge da: «mediazione tra mondo superiore e inferiore, tra idea e fenomeno, tra spirito e sensualità» (p. 134). Tale carattere emerge anche dalle pagine di Susanetti, la cui lettura vivamente consigliamo.
Giovanni Sessa