Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
“Il sogno nella Tarda Antichità” di Patricia Cox Miller: Omero, Platone e Aristotele; Virgilio, Ovidio e Cicerone; Gregorio Nisseno e Gregorio Nazianzeno – 1^ parte – Piervittorio Formichetti
Omero, Platone e Aristotele; Virgilio, Ovidio e Cicerone; Gregorio Nisseno e Gregorio Nazianzeno
Per la società mediterranea tardo-antica, caratterizzata dalla complessa interazione tra le credenze mitologiche e religiose greco-romane, mediorientali e giudaico-cristiane, era fondamentale lʼindagine teoretica sulle presenze metafisiche e intangibili – gli dèi e le dee, i dèmoni, gli angeli, le anime dei trapassati e i sogni – che si riteneva accompagnassero la vita degli esseri umani. Le teorie sulla natura, sulle forme e sul significato dei sogni diedero luogo a unʼestesa letteratura – che coinvolgeva psicologia, teologia, medicina, filosofia – della quale la storica delle religioni statunitense Patricia Cox Miller (1947) nel suo studio Il sogno nella Tarda Antichità (Jouvence, Roma 2003, ed. or. Dreams in Late Antiquity, Princeton 1994) ha analizzato alcuni esempi.
Secondo lʼAutrice, «nellʼantichità […] i modi di concettualizzare la “meccanica” di produzione dei sogni erano sostanzialmente due. Il primo era psico-biologico, e si studiava spiegare in termini naturalistici la fenomenologia del sonno e i fantasmi che lʼaccompagnano; lʼaltro era teologico, e ricollegava lʼanima sognante a un mondo invisibile (ma ben reale) di esseri spirituali, angeli, demoni e dèi». NellʼOdissea di Omero, ad esempio, il «popolo dei sogni» (démos onèiron), includeva anche i fantasmi, ed era immaginato come uno spazio attiguo allʼAde (la dimora sotterranea dei morti) al di là dellʼimmenso fiume Oceano che circondava tutte le terre conosciute. I sogni potevano cioè essere figure (éidola) viventi di dèi, fantasmi, messaggi divini sotto forma di unʼimmagine archetipica: in ogni caso, il sogno era «dotato di unʼesistenza oggettiva nello spazio, e indipendente dalla persona che sogna. In quanto “popolo”, dunque, i sogni erano autonomi, non erano concettualizzati come prodotti di un subconscio o di un inconscio, bensì come immagini visive che si presentano a chi sogna. Così, i “sognatori” omerici dicono di vedere un sogno, non di fare un sogno come i “sognatori” moderni». Nella tragedia Ecuba di Euripide (V secolo a. C.), i sogni sono detti stirpe dellʼ«augusta Terra, generatrice di sogni» (potnia Chthon, metér onèiron). Non si tratta, qui, della «Terra fertile e nutrice», ma di una Terra più oscura e primordiale, la «maestosa dea» Chthon. Nella Teogonia di Esiodo, i sogni sono fratelli della Morte, del Sonno e della Sventura, nati nellʼoscurità della Nyx, la Notte primordiale figlia del Caos. Il noto storico delle religioni Angelo Brelich (1913-1977) osservava al riguardo: «La Nyx della Teogonia non è la notte del nostro riposo quotidiano, [ma] uno dei poteri più formidabili che lʼimmaginazione ellenica abbia saputo creare»; i sogni appartengono quindi, per lʼantico Greco, «alle periferie spazio-temporali del cosmo, allʼanti-mondo che circonda il mondo», in uno spazio liminale tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
In età augustea, due celebri poeti latini ripresero e arricchirono queste idee. Ovidio sostenne che i sogni, di per sé, sono «vuoti», ma imitano le forme più varie (varias imitantia formas somnia vacua) delle realtà naturali e umane: «I sogni eguagliano, imitandole, le forme vere» (somnia, quae veras aequant imitamine formas), influenzando le emozioni di chi li vede. Virgilio, più vicino ai tragediografi greci, pensava che i sogni fossero presenze di origine ctonia, affini ai morti e ai fantasmi. È a lui, più che a Omero – dice Cox Miller – che si deve la famosa distinzione tra le due «porte» per le quali i sogni entrano nel nostro mondo: quella «di corno», semitrasparente, attraverso la quale passano i sogni veridici, e quella «di avorio», opaca, varco per i sogni vani e ingannatori; per Omero erano ambigui e non sempre affidabili i sogni che passavano per entrambe le porte.
(Omero)
Nel IV secolo a. C., il filosofo Platone – a differenza di Aristotele – non dedicò un saggio specifico ai sogni, ma nella sua opera lasciò diversi riferimenti accidentali ad essi. Egli non negava che alcuni sogni possano trasmettere significati e messaggi veridici, ma questi possono essere scoperti e compresi soltanto a risveglio avvenuto, quando la mente del sognatore non è più sottoposta alla «frenesia mantica del sonno». Lʼazione del sognare, per Platone, era un fenomeno dovuto alla parte irrazionale dellʼanima, quella preposta alla percezione dei phantàsmata, cioè delle «forme visionarie del sonno ispirato». Otto secoli più tardi, il vescovo egiziano Atanasio di Alessandria si servirà di una terminologia simile per sostenere lʼargomento opposto: anche per lui i sogni erano fenomeni «fantasmatici» e «mantici», ma – sosteneva – lʼanima, in sogno, può eventualmente vedere e conoscere alcune realtà che stanno «fuori di essa», poiché resta «ragionevole» (logiké) anche mentre il corpo è immerso nel sonno; e se lʼanima umana può restare attiva a prescindere dallʼattività del corpo, ciò significa che lʼanima è immortale.
Lʼ«Oscuro» Eraclito di Efeso (morto verso il 475 a. C.) affermò che lʼattenzione del sognatore si ripiega verso un mondo interiore del tutto indifferente a quello conoscibile mediante la coscienza diurna: «Per i pienamente desti, esiste un unico mondo sociale; i dormienti si ripiegano ciascuno verso un proprio mondo esclusivo». Secoli dopo, al contrario, il vescovo Agostino dʼIppona (365-430) riterrà il sogno un importante elemento di socializzazione, essendo unʼesperienza comune a tutti, sia come fenomeno in sé, sia per quanto riguarda i suoi contenuti; anche perché – scrisse – «sebbene non sia corpo, coglie la sembianza dei corpi con ammirevole prontezza»: questo riconoscimento immediato dellʼaspetto delle persone apparse nei sogni, secondo Agostino, significava che, mediante il sogno, una persona poteva farsi presente a unʼaltra senza il proprio corpo, in modo misterioso ma reale.
Aristotele sostenne e approfondì la teoria psico-biologica o «naturalistica» della genesi dei sogni. Il precettore di Alessandro il Macedone «non accettava lʼidea che i sogni siano messaggi provenienti dagli dèi o in qualche modo riconducibili alla presenza divina. Li vedeva piuttosto come immagini prodotte da processi fisiologici e psichici interconnessi, [ossia] essenzialmente prodotti del processo digestivo, durante il quale il calore del corpo aumenta e diminuisce. Nel sonno, le capacità percettive primarie dellʼanima, essendo state “raffreddate”, cessano di funzionare […], ma una qualche sorta di percezione continua nondimeno ad aver luogo». Ciò che lʼanima vede durante il sonno, secondo Aristotele, sono le «apparizioni» (phantàsmata) e i «movimenti residuali derivanti dalle impressioni sensoriali» avvenute in precedenza, quando lʼanima e il corpo erano in stato di veglia. Egli non metteva in dubbio che lʼimmaginazione (to phantàstikon) possa produrre sogni veri: ad esempio, il caso di chi sogna di incontrare un amico perché vera è la loro amicizia; ma se poi lʼavvenimento si realizza – i due amici sʼincontrano imprevedibilmente proprio dopo che uno ha sognato lʼaltro – per il filosofo non significherebbe affatto che i sogni possano essere premonitori.
(Cicerone)
Su questa linea si collocherà, al principio dellʼimpero romano, Marco Tullio Cicerone, che conosceva la teoria di Aristotele, e nel trattato De divinatione bollerà lʼoniromanzia come – riassume lʼAutrice – «unʼinattendibile pseudo-scienza che specula sulla credulità umana e su un insieme di credenze erronee relative agli dèi». Scriveva Cicerone: «Quando, per la stanchezza del corpo, lʼanima non può fare uso né delle membra né dei sensi, incorre in visioni varie e confuse, derivanti, come dice Aristotele, dalla persistenza delle tracce di ciò che ha fatto o ha pensato durante la veglia. Dal mescolarsi incoerente di questi ricordi sorgono talvolta stranissime immagini di sogni». Su questa convinzione, egli riteneva che «non esiste alcuna forza divina produttrice dei sogni», e che quindi sia stoltezza pensare che gli dèi si servano di tale mezzo per comunicare con gli esseri umani; inoltre, moltissime persone dimenticano i loro sogni: ciò non accadrebbe se i sogni fossero davvero messaggi divini. Di conseguenza, gli indovini che interpretano i sogni parlano sul nulla (spesso, infatti, gli interpreti possono fornire spiegazioni contrastanti di un medesimo sogno), millantando doti divinatorie per lucrare sulla superstizione. Lʼunica utilità che Cicerone pare riconoscere allʼattività onirica è quella sintomatologica: «[I medici] dicono che alcuni tipi di sogni possono fornire certe indicazioni sullo stato di salute, per esempio anche questa: se siamo ben pasciuti o denutriti». In ciò – commenta Patricia Cox Miller – lʼintellettuale romano sembra rivelare una conoscenza delle idee della scuola medica di Ippocrate (che del resto era ancora la più accreditata ai suoi tempi) che reputava i sogni «indicatori dello stato del corpo forniti dallʼanima».
Qualche decennio più tardi, lʼammiraglio ed enciclopedista Plinio il Vecchio, in un brano della sua estesissima Naturalis historia, definisce essenzialmente il sonno «non altro che il ritirarsi dellʼanima nel centro di se stessa», dopodiché cita lʼelenco stilato da Aristotele – nella sua Storia degli animali – dei quadrupedi capaci di sognare: «Oltre agli esseri umani, anche cavalli, cani, buoi, pecore e capre sognano»; perciò, non si deve ritenere che i sogni degli umani abbiano alcun legame con la dimensione soprannaturale. Questa concezione non ebbe comunque molto seguito in età tardo-antica; nella comunità medica greco-latina vi erano anche teorie distanti da quella «naturalistica». Lo stesso Galeno, il celebre medico del II secolo, «non si limitava a riconoscere lʼutilità diagnostica dei sogni, considerandoli bensì utili anche in altri sensi», cioè come interventi divini indiretti: «Alcuni disprezzano i sogni – affermava – i presagi e i pronostici. Ma io so di avere più volte fatto una diagnosi in base a sogni, e […] ho salvato molte persone applicando una cura prescritta in un sogno».
Nei tre secoli successivi, quindi, la concezione psico-biologica dei sogni si eclissò, riemergendo fugacemente nel IV secolo con il vescovo Gregorio di Nissa (o Nisseno), che affrontò lʼargomento nel suo trattato De hominis opificio. Come Aristotele, anche Gregorio «collega il sogno alla digestione e al suo seguito di movimenti di vapori attraverso il corpo dallʼalto verso il basso e viceversa. Mentre il corpo viene così nutrito, coi suoi ʻcavalliʼ percettivi a riposo, unʼattività ha tuttavia luogo nellʼanima. Secondo Gregorio, i sogni sono “sciocche fantasie” (phantasiòdeis phylarias) che si manifestano durante il sonno, “simulacri dellʼattività della mente […] plasmati per caso dalla parte irrazionale dellʼanima”», cosicché il sognatore, mentre sogna, «si perde nellʼimmaginazione (phantasiòutai) errando fra confuse allucinazioni». Tuttavia, la mente umana continua ad essere attiva anche nel sonno, benché la sua percezione del mondo esterno diminuisca rispetto a quando è in stato di veglia; in base a questa operatività mentale anche durante lʼincoscienza apportata dal sonno, il Nisseno accetta che i sogni possano essere portatori di prescienza (prògnosis) degli eventi futuri, non tanto come palesi anticipazioni, quanto come visioni enigmatiche il cui significato necessita di essere decifrato, come nel caso biblico dei sogni interpretati da Giuseppe figlio di Giacobbe (Genesi, 37-41). Sotto questo aspetto, Gregorio si distanzia molto dalla teoria psico-biologica, ma molto poco dalla mentalità precristiana.
LʼAutrice, nellʼultimo capitolo del suo libro, esamina alcuni sogni di Gregorio di Nissa confrontandoli con quelli dellʼomonimo Gregorio di Nazianzo (o Nazianzeno). Entrambi vissuti nel IV secolo, entrambi teologi cristiani dal linguaggio poetico, furono accomunati anche da sogni incentrati sul legame fraterno con un defunto: nel caso di Gregorio di Nissa sua sorella Macrina, nel caso del Nazianzeno suo fratello Cesario.
(Gregorio di Nazianzo o Nazianzeno)
In un discorso in lode dei Quaranta Martiri (un gruppo di soldati cristiani uccisi durante la persecuzione dellʼimperatore Diocleziano), Gregorio Nisseno ricorderà un episodio che ha anche un lato umoristico: in una fase iniziale della sua vita religiosa, egli si era addormentato proprio durante una celebrazione religiosa dedicata ai Quaranta Martiri; li sognò quindi nellʼatto di rimproverarlo, minacciandolo coi loro bastoni, per una tale negligenza. Anni dopo, nel 379 o nel 380, egli partì per la città di Annesi (lʼodierna Amasya), dove sua sorella Macrina risiedeva con una comunità di cristiane nubili da lei riunita nella proprietà di famiglia. Non si vedevano da molti anni, e ad un solo giorno di viaggio dalla destinazione, Gregorio ebbe un sogno inquietante. Racconterà nella biografia di lei (Vita sanctae Macrinae): «Mi sembrava di avere in mano delle reliquie di martiri, e che da esse uscisse un raggio di sole come da uno specchio ben pulito quando viene posto di fronte al sole […]. E quella visione si ripeté tre volte nella notte, e io non ero in grado di congetturare con esattezza il significato di quel sogno, ma prevedevo un dolore per la mia anima». Il giorno seguente, Gregorio seppe che Macrina era gravemente ammalata, tanto che, entrando nella casa-convento, la trovò sul pavimento moribonda. Scriverà quindi: «Quanto avevo visto, mi sembrava che sciogliesse lʼenigma del sogno». Commenta lʼAutrice: «Egli comprese che il sogno si riferiva a lei. Le reliquie erano le sue ossa raggianti. Il sogno, quindi, per quanto frammentario, non solo prediceva la morte della sorella, ma ne mostrava anche la traslazione verso lo stato celestiale».
Gregorio ricordava che anche la loro madre, Emmelia, aveva avuto un sogno premonitore della santità di Macrina: poco prima delle doglie del parto, aveva sognato un angelo che chiamava tre volte una neonata col nome «Tecla»: questo, nella famiglia di Gregorio, fu il «nome segreto» di Macrina. Ciò perché, secondo la tradizione locale, una donna di nome Tecla si era convertita al Cristianesimo ascoltando Paolo di Tarso; Tecla divenne poi una santa protettrice dellʼascetismo femminile, e in età tardo-antica, a Seleucia, sulla costa meridionale dellʼAnatolia, le fu dedicata una chiesa, nella quale i pellegrini dormivano sperando di vederla apparire in sogno e ricevere i suoi consigli e i suoi farmaci onirici: proprio come nel caso dellʼincubazione presso i templi greci dedicati al dio taumaturgo Asclepio, sul cui culto – come si vedrà – Cox Miller si sofferma con molta attenzione.
Lʼomonimo e omologo Gregorio di Nazianzo, nel 369, scrisse unʼorazione funebre per il fratello minore Cesario, nella quale ricorda di averlo visto in sogno «risplendente, glorioso, elevato […] sia che il mio desiderio ti rappresentasse così, sia che questa fosse la verità»; dunque – nota Patricia Cox Miller – «i suoi sogni rispecchiavano lʼesistenza paradisiaca di cui crede che il fratello stia ora godendo, e che anchʼegli desidera ardentemente per sé». Gregorio era ben cosciente del fatto che ciò che vedeva in sogno «non era il corpo reale del suo defunto fratello, bensì un corpo fantasma, un corpo onirico costruito dal desiderio […], unʼimmagine che colma un vuoto nella sua vita», ma, come si evince dalla sua frase possibilista, non escludeva che alcuni sogni particolari potessero essere manifestazioni della dimensione trascendente.
In uno suo brano autobiografico, il Nazianzeno ricordava che a indurlo alla vita consacrata fu proprio un sogno: «Mi sembrava che due fanciulle in vesti lucenti rifulgessero accostandosi a me: erano belle e simili nellʼaspetto. […] Una cintura stringeva loro il bel peplo, che arrivava fino ai piedi; la testa e le guance erano nascoste sotto un ampio velo e lo guardo si volgeva verso terra […], le labbra di tutte e due erano sigillate dal silenzio […]. Io le guardavo e gioivo: certo – dicevo – sono esseri superiori, e di molto, ai mortali. Ed esse mi baciavano […] come si esprime lʼaffetto per il proprio figlio. E quando domandai chi fossero e donde venissero, una mi disse “La Castità”, e lʼaltra “La Temperanza”. […] “Suvvia, o figlio, unisci la tua mente alle nostre […] perché possiamo sollevare te, inondato di luce, su per lʼetere e collocarti presso il fulgore della Trinità Eterna”. Così dissero, e si mossero per lʼetere, e il mio sguardo seguì il loro volo». Come si vedrà anche nei sogni significativi di altri autori cristiani esaminati dalla Cox Miller, in questo sogno sembrano intrecciarsi inconsciamente immagini pagane (forse misteriche: le donne velate, il silenzio ermetico) e significati cristiani.
Anche sua madre, di nome Nonna, aveva ricevuto sogni profetici inviati da Dio, concernenti soprattutto la vocazione del figlio; Gregorio ricordava che lei, prima che lui nascesse, aveva visto in sogno il viso chʼegli avrebbe poi avuto. Anni più tardi, durante una malattia, Nonna sognò il figlio che le portava «un canestro con dei pani splendentissimi» da mangiare, «e così le sembrò di recuperare le forze»; e il giorno successivo, effettivamente, la donna si sentì meglio. Gregorio era dunque convinto che i sogni, in casi straordinari, potessero avere un reale effetto terapeutico: «In linea con generazioni di sognatori e teorici dei sogni che lʼavevano preceduto – nota Patricia Cox Miller – egli accettava senza discussione quella concezione dei sogni, tipica della sua cultura, che ne sottolineava il valore premonitore e terapeutico»; non a caso, anche il Nazianzeno aveva trascorso del tempo presso il santuario di Santa Tecla a Seleucia, dove – come già visto – i malati praticavano quella che potremmo definire incubazione cristiana.
Nella parte precedente al sogno dellʼorazione funebre per Cesario, Gregorio aveva definito la vita terrena «un piccolo riflesso della vita celeste, quale sʼintravede negli specchi e negli enigmi». I lettori del suo tempo e del nostro, di fronte ai sogni dei «due Gregori» – e degli altri autori politeisti e cristiani – sono perciò stimolati a domandarsi, come lʼAutrice: «Questi sogni facevano parte di quei “piccoli riflessi” di luce che in qualche modo brillano attraverso lʼenigmatico specchio della conoscenza umana ordinaria, o erano anchʼessi solo vaghe impressioni di una verità che non può mai essere completamente svelata a una persona vivente?».
Piervittorio Formichetti
(continua…)