Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
“Il sogno nella tarda antichità” di Patricia Cox Miller: I sogni di Perpetua, martire “eretica” – 6^ ed ultima parte – Piervittorio Formichetti
Lʼimmagine del Pastore come figura sacrale e legata a dinamiche psicologiche di evoluzione religiosa espresse in sogno è presente anche nella Passio sanctarum Perpetuae et Felicitatis (Il patimento delle sante Perpetua e Felicita), del primo decennio del III secolo. Questo testo riunisce: il diario che Vibia Perpetua scrisse durante la prigionia in attesa della condanna, in quanto cristiana pubblicamente dichiarata; il racconto di un sogno di Saturo (o Satiro), un cristiano che fece da guida religiosa alla sua famiglia e si unì volontariamente ai cinque correligionari (parenti fra loro) quando furono arrestati; e il resoconto anonimo del loro martirio, avvenuto il 7 marzo del 203 in occasione delle celebrazioni indette dal governatore romano Ilariano per il compleanno di Geta, figlio minore dellʼimperatore Settimio Severo. Per il gruppo, accusato di ateismo e minaccia allʼordine pubblico, dopo gli arresti domiciliari (durante i quali tutti furono battezzati) e il trasferimento in carcere, fu decretata la damnatio ad bestias, lʼaffronto di belve che li avrebbero sbranati, ma ciò non avvenne; i soldati dovettero ucciderli trafiggendoli con la spada.
Vibia Perpetua aveva tra i 22 e i 23 anni ed era liberaliter instituta, cioè «di educazione aristocratica»; non è da escludere che la sua famiglia appartenesse al ceto senatorio, era sposata e madre di un figlio lattante: la preoccupazione per il figlioletto, il caldo e lʼoscurità della prigione riappaiono trasfigurate nei quattro sogni che Perpetua durante la prigionia ebbe, trascrisse nel diario e interpretò alla luce della fede cristiana. Patricia Cox Miller li esamina come esempio di psicologia femminile in un contesto di predominanza maschile e come prodotti psichici in cui immagini e simboli mitologici greco-romani sʼintrecciano inconsciamente a significati cristiani.
La sera precedente il primo sogno (nel quale appare il Pastore), un fratello di Perpetua le disse: «Signora sorella, tu sei già in stato di grande degnazione, così grande da poter chiedere [a Dio] una visione (visionem) affinché ti si mostri (ostendatur) se questo è un martirio o un commiato [temporaneo]». Ricordava Perpetua: «E io, che sapevo di parlare familiarmente col Signore (Ego, quae me sciebam fabulari cum Domino), […] con fiducia glielo promisi dicendogli: “Domani ti darò la risposta”. E chiesi ed ebbi questa visione». Il fratello le si rivolge dunque come a una donna che ha unʼautorità carismatica, e lei risponde fiduciosa in se stessa e nel fatto che Dio le farà comprendere il loro destino mediante una visione notturna, cioè un sogno profetico. «Dichiarandosi in grado di “parlare con il Signore” (fabulari cum Domino) – commenta Cox Miller – Perpetua lascia trasparire la sua appartenenza alla sua cultura, che concepiva i sogni come una forma di comunicazione con figure celestiali. Il suo contemporaneo cartaginese Tertulliano avrebbe ben potuto includere Perpetua in quella maggioranza di persone che, come egli afferma, traggono la loro conoscenza di Dio dai loro sogni». A questo proposito, lʼAutrice pone una questione interessante: il carisma di Perpetua era legato a una delle prime «eresie» cristiane?
«Non è da escludersi – scrive – che Perpetua avesse partecipato a un movimento revivalista interno al Cristianesimo, la “Nuova Profezia” di Montano, che offriva alle donne allettanti promesse di “liberazione”. Il Montanismo, come più tardi fu chiamato dal nome del suo fondatore, ebbe origine in Frigia, in Asia Minore, negli anni intorno al 160, quando Montano cominciò a cadere in trances estatiche, dichiarando che le sue parole erano la voce dello Spirito Santo che parlava attraverso di lui. A lui si unirono due profetesse, Priscilla e Massimilla. Al cuore del messaggio di questo movimento vi era la convinzione che lo Spirito potesse parlare direttamente alla comunità cristiana attraverso individui ispirati, fossero maschi o femmine. […] Questo movimento era degno di nota per i ruoli di guida che accordava alle donne, come i suoi oppositori non mancarono di rilevare. […] Della massima importanza ai fini di una visione della Nuova Profezia come movimento che offriva più ampie opportunità alle donne è la sua rivendicazione dello status sacerdotale, almeno in Asia Minore, per i martiri-confessori che fossero stati rilasciati dalla prigione. Al centro di questa rivendicazione era lʼopinione che i martiri potessero esercitare “il potere sacerdotale delle chiavi”, cioè il potere di perdonare i peccatori restituendoli così alla fede. […] Nonostante la condanna di Montano e dei suoi seguaci da parte dei vescovi asiatici e alla fine anche da parte del vescovo di Roma, la Nuova Profezia si diffuse rapidamente in occidente, prendendo piede soprattutto a Cartagine», dove proprio lʼintransigente Tertulliano, nella seconda fase della sua vita, divenne «un convinto seguace del movimento».
Perpetua era dunque una adepta della Nuova Profezia? E se sì, ne fu attratta per lʼimportanza che questo movimento attribuiva alle donne? Non ne abbiamo la certezza, ma «gli indizi sono suggestivi. La fermezza con cui andò incontro al martirio, come pure le sue capacità visionarie oniriche, sono in consonanza con le credenze e le pratiche della Nuova Profezia. […] Per giunta, lʼautore della Passio richiama due volte lʼattenzione sul ruolo di guida del gruppo di martiri imprigionati assunto da Perpetua», e inoltre, «un rispetto per le donne di ispirazione montanista potrebbe essere indicato dal titolo dellʼopera, che nomina esclusivamente le martiri, nonostante le storie dei loro compagni maschi facciano parte anchʼesse del documento, oltre che dalla più estesa attenzione narrativa accordata alla descrizione delle morti delle due donne». Tutto ciò indica comunque – conclude la Cox Miller – che «vi era un dibattito, nella Chiesa cartaginese, intorno allʼautorità delle donne e alla loro attitudine al comando».
È dunque nel primo sogno che Perpetua vede il Pastore. Dopo aver calcato la testa di un «serpente di mirabile grandezza» (draco mirae magnitudinis) e salito una scala di bronzo irta di armi e di attrezzi taglienti, la giovane madre giunge a una «immensa distesa di giardino, e in mezzo al giardino stava a sedere un uomo canuto in abito di pastore, grande, che mungeva le pecore, e attorno a lui stavano molte migliaia di uomini dalle vesti candide. Sollevò la testa e mi guardò e mi disse: “Hai fatto bene a venire, mia creatura” [la frase originale è mista di latino e di greco: Bene venisti, teghnon]. E mi chiamò, e del cacio che egli preparava mungendo mi diede quasi un boccone [buccellam], e io lo presi a mani giunte e lo mangiai, e tutti i circostanti dissero “Così sia” [amen]». Le scene del sogno sembrano un intreccio tra reminiscenze bibliche e greco-romane. Il serpente-drago a cui Perpetua pesta il capo sembra unire la frase profetica di Dio rivolta al serpente (cioè al diavolo) nel Genesi («vi sarà inimicizia tra te e la donna, essa ti schiaccerà il capo») e il drago dellʼApocalisse (cap. 12), al quale la «donna vestita del sole» – che, proprio come Perpetua, ha partorito da poco un figlio maschio – sfugge salvando sé e il neonato; la scala di bronzo dotata di armi è stata interpretata come espressione della paura di Perpetua di essere dilaniata dalle bestie, ma anche come ricordo della scala, vista appunto in sogno, da Giacobbe (Genesi, 28), che sembra fosse molto utilizzata nella predicazione cristiana africana come metafora del percorso verso la salvezza ultraterrena.
Riguardo al pastore canuto, Patricia Cox Miller scrive: «Lo scenario in cui il sogno colloca il pastore, lʼ“immensa distesa di giardino”, sembra ricalcare il topos del locus amoenus caratteristico della letteratura latina a partire da Virgilio e Ovidio. Il pastore che presiede a questʼidillio è stato accostato alle analoghe figure che compaiono nel Pastore di Erma e nel trattato ermetico Poimandres, ed è stato così assimilato ad una tipologia culturale, trasversale ai confini dellʼaffiliazione religiosa, che immaginava le figure cosmiche dellʼilluminazione e della redenzione in vesti pastorali. Inoltre, il pastore di Perpetua, descritto come un uomo canuto (hominem canum) non corrisponde alle più antiche raffigurazioni cristiane del Cristo come “buon pastore” […]. Lʼiconografia delle catacombe contemporanea allʼepoca di Perpetua mostrava un Cristo-pastore giovane e bello, difficilmente paragonabile alla figura che compare nel sogno». Lʼaspetto del pastore, canuto e grande, potrebbe anche essere una reminiscenza delle immagini di Dio presentate nel Libro di Daniele e nellʼApocalisse: «così il Pastore, Dio come “lʼAntico di giorni” e il Cristo sarebbero stati trasposti insieme nel sogno». Analogamente, il bocconcino di formaggio fatto di latte appena munto è stato associato allʼostia eucaristica (appena Perpetua lo ha mangiato, tutti i presenti, che indossano una veste candida come i martiri dellʼApocalisse, dicono «amen»), ma cʼè chi ha ritenuto di vedervi «lʼanalogia tra il formaggio e il concepimento, che si ritrova in Aristotele come pure nelle credenze popolari greco-romane, [cosicché] “ciò che Perpetua riceve col suo boccone di formaggio è il suo destino, la sua nascita celestiale”».
Dal secondo sogno si apprende che Perpetua ebbe un fratello, Dinòcrate, morto a soli sette anni con un cancro alla mascella. Durante un momento di preghiera, il bambino le torna alla memoria, e la giovane prega anche per la salvezza ultraterrena di lui: «Intesi chiaramente di essere degna e di dover pregare per lui […], e subito, nella stessa notte, mi si presentò questa visione: vedo Dinocrate mentre usciva da un luogo tenebroso, dove vi erano molti altri che soffocavano dal caldo e dalla sete, in veste squallida e coperto di pallore, e nella sua faccia la piaga che ebbe mentre moriva […]. Vi era poi in quel luogo dove si trovava Dinocrate una vasca piena dʼacqua con il margine più alto della statura del fanciullo; Dinocrate si alzava sulla punta dei piedi come per bere. Io mi dolevo, perché quantunque quella vasca avesse dellʼacqua, tuttavia per lʼaltezza egli non avrebbe potuto berne». Alcuni giorni dopo, in un terzo sogno, il bambino le appare risanato e felice: «Il giorno in cui rimanemmo in ceppi mi si offerse questa visione: vedo il luogo che avevo visto prima, e Dinocrate col corpo pulito, ben vestito […] e dove cʼera la piaga, la cicatrice, e quella vasca che avevo visto prima, abbassatosi il margine arrivava fino allʼombelico del fanciullo, e scorreva acqua da essa, senza cessare. E sul margine cʼera una coppa dʼoro piena dʼacqua, e Dinocrate sʼaccostò e cominciò a berne, né la coppa si esauriva. Essendosi dissetato, si scostò dallʼacqua per giocare allegramente […]. E mi svegliai, e compresi che egli era stato liberato dalla pena».
Perpetua stessa, dunque, interpretava i suoi sogni del fratello come segno del potere della preghiera cristiana dʼintercessione per i defunti non solo da parte dei sacerdoti, ma anche dei laici e delle donne. Il Tertulliano non ancora «montanista» non sarebbe stato dʼaccordo: per lui i morti apparsi in sogno potevano essere solo false immagini prodotte dallʼintrusione di un demonio. Il luogo oscuro dal quale si affaccia Dinocrate è stato visto come unʼimmagine del Limbo, nel quale si credeva fossero confinate le anime di tutti i non battezzati, oppure del Purgatorio, dato che mediante la preghiera dei viventi unʼanima può uscirne e accedere al Paradiso. Agostino dʼIppona, due secoli più tardi, sostenne che Dinocrate doveva esser stato battezzato, altrimenti le preghiere di Perpetua per lui non avrebbero potuto avere buon esito. La maggior parte degli studiosi moderni ritiene che in questi due sogni emerga «il sostrato pagano dellʼimmaginazione della neo-convertita Perpetua» intrecciatosi alle acquisizioni teologiche cristiane, poiché «il primo sogno si conforma allʼidea che i morti siano assetati e che si presentino sotto forma di apparizioni con le stesse caratteristiche fisiche che avevano quando morirono. Il secondo sogno sarebbe invece conforme alla credenza nellʼefficacia delle preghiere dʼintercessione per coloro che morirono prematuramente». Patricia Cox Miller cita anche la nota autrice junghiana Louise Marie von Franz, secondo la quale Dinocrate «incarna un aspetto dellʼinteriorità spirituale di Perpetua stessa», nel senso che «questo fratellino […] rappresenta indubbiamente un pezzo del suo passato […], una parte di lei non ancora battezzata, per la quale la verità redentrice, simboleggiata dallʼacqua, è letteralmente ʻtroppo altaʼ». Il Dinocrate risanato, perciò, rappresenterebbe il «venire a patti» di Perpetua con il conflitto interiore tra il suo bagaglio mentale precristiano e la nuova fede per la quale stava affrontando la morte.
La compresenza, nellʼinconscio di Perpetua, di immagini greco-romane e di significati cristiani emerge anche dal suo quarto e ultimo sogno. Il giorno precedente il martirio, la giovane sogna di essere incoraggiata e condotta nellʼarena dellʼanfiteatro dal diacono Pomponio. Contro di lei però non si presentano le bestie feroci, ma un lottatore, «un Egiziano brutto dʼaspetto […] insieme ai suoi ausiliari». Perpetua vede quindi se stessa spogliarsi e acquisire un corpo maschile: «E mi spogliai e fui fatta maschio»; un gruppo di «giovani belli, miei sostenitori e fautori» ne ungono il corpo «con lʼolio come si suol fare per la lotta». Appare quindi lʼarbitro, che Perpetua definisce in latino lanista (addestratore di gladiatori), di tali dimensioni che la sua altezza oltrepassa quella dellʼanfiteatro, ma di aspetto storicamente verosimile: indossa una veste con tre bande verticali di cui quella centrale in porpora, ha una verga in una mano e un ramo con mele dʼoro nellʼaltra, tutte caratteristiche che, secondo lo studioso Louis Robert, si riconoscono nelle immagini sui bassorilievi e sulle monete dellʼepoca. Lʼarbitro-lanista annuncia che se lʼEgiziano vincerà, ucciderà la donna con la spada (Perpetua verrà uccisa proprio così), mentre se lo sconfitto sarà lui, la donna avrà guadagnato il ramo con le mele dʼoro. La lotta tra Perpetua e lʼEgiziano, più che a uno scontro fra gladiatori, appare simile a una sfida tra lottatori di pancration (pancrazio), un misto di pugilato e di lotta libera che secondo Louis Robert rispecchierebbe una manifestazione agonistica fra quelle che facevano parte dei «giochi ecumenici che si tennero a Cartagine in onore di Apollo Pìtico, i Pythia Carthaginis».
Perpetua, alla fine, sconfigge lʼavversario riuscendo a calpestargli la testa con i piedi – così come aveva calpestato il capo del grande serpente nel primo sogno – riceve il ramo con le mele dʼoro dallʼarbitro (che le dice: «Figlia, la pace sia con te») e si avvia verso una porta del teatro fra lʼesultanza del pubblico. «E mi svegliai – scrive nelle penultime righe del diario – e compresi che stavo per combattere non contro le fiere ma contro il demonio (et intellexi me non ad bestias, sed contra diabolum esse pugnaturam), ma sapevo che mi era riserbata la vittoria». Nel primo sogno, Perpetua pestava la testa al diavolo in forma di drago-serpente; nellʼultimo, ripete il gesto sulla testa dellʼEgiziano, simbolo biblico dei poteri nemici di Dio e del «popolo eletto». Perpetua narrava anche i concitati dialoghi tra lei e suo padre, che facendo leva sia sullʼamore paterno sia sulla propria autorità, per salvarla aveva cercato di convincerla a rinunciare alla fede in Cristo; ma di fronte alla sua fermezza, lʼuomo – racconta sua figlia – «se ne partì vinto, con gli argomenti del diavolo» (profectus est victus cum argumentis diaboli). Alcuni studiosi ritengono quindi che Perpetua, in modo semi-conscio, includesse anche suo padre tra le figure diaboliche; nei suoi sogni avrebbe quindi espresso anche una rivendicazione di indipendenza dalla figura paterna.
Eric R. Dodds, sostenendo che «questo ciclo di sogni è autentico e non il prodotto della propaganda cristiana», evidenzia quello che Cox Miller definisce «il debito dellʼimmaginazione di Perpetua nei confronti di elementi della cultura “pagana” nella quale era stata educata»: osserva che lʼarbitro della lotta nellʼarena non ha le sembianze del Cristo, e che il simbolo della vittoria spirituale non è la corona del martirio (metafora cristiana che trae origine dalla corona dʼalloro con cui si onoravano gli atleti greco-romani), ma le mele dʼoro, collegate al mito delle Esperidi e a una delle dodici fatiche di Eracle; secondo unʼantica tradizione greca, le mele erano ritenute il solo frutto che potesse alleviare le doglie in una partoriente: ciò si collegherebbe al concetto religioso della morte come «nascita alla vita eterna», inoltre Perpetua aveva un figlio appena svezzato e senza dubbio ricordava lʼesperienza del parto come prova fisica e «soglia» esistenziale. «Questo immaginario pagano», afferma Dodds, «è del tutto naturale nei sogni di una neo-convertita» al Cristianesimo. Tuttavia, altri commentatori ricordano che gli alberi di mele erano raffigurati nella pittura paleocristiana come immagine del Paradiso, il giardino (paradèisos) ultraterreno. LʼAutrice afferma quindi che «al di là dei dibattiti sulla derivazione socio-culturale o religiosa dei singoli elementi di questo sogno, i commentatori concordano che il suo tema principale è la coraggiosa determinazione della martire a rimanere fedele allʼimpegno religioso da lei recentemente assunto».
In conclusione – sostiene Patricia Cox Miller – da tutto questo materiale onirico pagano, ebraico e cristiano, emerge che «i sognatori tardo-antichi utilizzavano i sogni per trovare un senso e un ordine nei loro mondi»; qualsiasi fossero la loro classe sociale, la lingua, la cultura e la religione, per essi «i sogni funzionavano come occasioni per formulare interpretazioni coerenti, oltre che per fornire espressioni articolate alle percezioni dellʼio e del mondo. […] Generalmente, nellʼantichità i sogni non erano sentiti come semplici specchi che riflettevano i pensieri e le preoccupazioni della vita di tutti i giorni. Anzi, quel genere di sogni era relegato nella pattumiera delle banalità psichiche […]. Il più delle volte, le immagini offerte dai sogni erano enigmatiche, ed era precisamente la loro enigmaticità che richiedeva un tipo dʼimpegno riflessivo foriero di nuove intuizioni». Tutto questo ci indica che «quando i sognatori tardo-antichi sʼimpegnavano in quello che [è stato] definito “una proiezione notturna degli dèi su uno schermo”, non stavano evadendo da se stessi o dal mondo, bensì vi stavano scavando più in profondità».
Piervittorio Formichetti