“Il sogno nella Tarda Antichità” di Patricia Cox Miller: Artemidoro, Origene, Macrobio, il culto di Asclepio – 3^ parte – Piervittorio Formichetti
Tra gli antichi interpreti dei sogni, forse il più conosciuto ai nostri giorni insieme a Sinesio di Cirene è Artemidoro di Efeso, autore nel II secolo del trattato intitolato Oneirokritikà. Patricia Cox Miller, citando altri studiosi, lo definisce «un “osservatore partecipante”, un “ricercatore sul terreno le cui teorie avevano un gran bisogno di prove”. Di se stesso, egli diceva di avere non solo consultato la letteratura onirologica, ma anche conversato personalmente con altri professionisti, inclusi “gli indovini della piazza del mercato” (che alcuni liquidavano come ciarlatani di seconda categoria, ma Artemidoro era avido di dati, da qualunque fonte provenissero). Viaggiando in Asia Minore, Italia e Grecia (isole maggiori comprese) per ludi e festività religiose, Artemidoro attraversò unʼestensione geografica a cui corrispose la varietà delle genti presso le quali raccolse sogni. […] Così, “ascoltando pazientemente vecchi sogni e i loro esiti”, Artemidoro fondò il suo sistema di classificazione sulla convinzione che le connessioni significative tra un sogno e il suo significato per chi lʼha sognato siano conoscibili soltanto post eventum, sulla base dellʼesperienza e dellʼosservazione».
Lʼautore greco sviluppò quindi una classificazione dei sogni in due macro-categorie: il sogno insignificante (enupnion) e quello significativo (onèiros). Ogni sogno del primo tipo «è privo di significato e non preannuncia alcun evento futuro, bensì ha efficacia soltanto nel sonno e avviene in seguito a un desiderio irrazionale, o a un violento timore, oppure per soverchio peso del ventre o per mancanza di nutrimento»: si tratta cioè dei sogni «naturalistici», ossia di origine psico-biologica. Il sogno significativo (onèiros), invece, «richiama lʼattenzione sul preavviso degli avvenimenti futuri; e dopo il sonno, promuovendo concrete attività, ha la prerogativa naturale di risvegliare e sollecitare lʼanima (egeirein te kai oreinein ten psychen)». Artemidoro definisce lʼonèiros caratterizzato – a differenza dellʼenupnion – da qualità attive: il sogno significativo è «un movimento o unʼinvenzione (kinesis e plasis) multiforme dellʼanima, che segnala i beni o i mali futuri […] per mezzo di immagini proprie e naturali (diʼ eikonon idion physikon)». Anche Artemidoro, dunque, pensava che lʼanima avesse per natura facoltà profetiche – cioè che potesse produrre le immagini-metafora caratteristiche dei sogni – con le quali può colmare la distanza tra le decisioni e le azioni prese nel presente e le loro conseguenze nel futuro.
Artemidoro suddivideva quindi gli onèiroi in sogni theoremàtikoi (teorematici), «il cui effetto corrisponde esattamente allʼimmagine», perciò non necessitano di decifrazione; e sogni allegòrikoi (allegorici), caratterizzati da immagini allusive, che rappresentano una cosa per mezzo di unʼaltra; essi trasmettono il loro messaggio «mediante enigmi» (diʼ ainìgmaton), perciò richiedono lʼintervento di un interprete specializzato. I sogni allegorici sono quindi quelli che più si prestano a favorire lo sviluppo di un sistema di decifrazione che tenga conto di un numero enorme di fattori, relativi al sognatore (la classe sociale, la salute, le persone con cui ha varie relazioni, eccetera), alle immagini presenti nel sogno, ai nomi delle cose delle quali in sogno si sono viste le immagini, alle assonanze tra questi nomi ed altri, e così via. Artemidoro nella sua opera si servì di molti di questi casi, pur essendo consapevole di non poter estendere allʼinfinito le possibilità allegoriche di ogni sogno, per evitare fraintendimenti ed errori. Ma sovente cedette lui stesso alla tentazione di spiegare unʼallegoria mediante un gioco di parole, unʼassonanza o una pseudo-etimologia: ad esempio, sognare un asino (onos) predice profitto (onosthai); egli citava il caso, relativamente noto, di Alessandro Magno che durante lʼassedio di Tiro sognò un satiro danzante: lʼindovino Aristandro interpretò il sogno scomponendo la parola satyros in «sa Tyros» («è tua Tiro»), predicendo così la conquista della città siriana. Il che fa pensare che, in alcuni casi, Artemidoro si preoccupasse del successo dellʼinterprete più che della comprensione del sogno. Egli consigliava comunque di attenersi al principio base della similitudine: «Lʼinterpretazione dei sogni non è altro che accostamento di simili (homoiou paràthesis)»; ad esempio: «Spine e aculei indicano dolori perché sono appuntiti», «le cimici sono simbolo di afflizioni e pensieri: come le preoccupazioni, anchʼesse non lasciano dormire».
(Artemidoro di Efeso)
Lʼidea che i sogni significativi fossero essenzialmente allegorici è anche alla base delle teorie onirologiche di tre autori giudaico-cristiani: lʼebreo Filone di Alessandria, lʼapologeta cristiano Origene, suo concittadino, e il vescovo Agostino dʼIppona. Essi, a differenza dei pensatori pagani, affrontarono la questione tenendo sempre presenti i casi di sogni e visioni tramandati dalla Bibbia. Per Filone, la visione ricevuta in sogno è di per sé amudros, indistinta, non chiara, come una pietra intravista sottʼacqua; la visione, come le parole del testo biblico, cela il suo autentico significato nellʼ“ombra” del senso letterale. Secondo Agostino, lʼanima, durante il sogno, va errando fra varie immagini allusive così come la mente del lettore si muove tra le lettere del testo, che di per sé sono solo segni di qualcosʼaltro (il suono); riguardo al testo della Bibbia, egli riteneva che le immagini dei sogni e delle visioni avessero un legame con il patrimonio mentale di allegorie proprio di chi le vedeva: «Queste visioni sono di certo simili a quelle contenute nei brani allegorici […]; i santi giudicavano le loro visioni come le avrebbero giudicate se le avessero lette o udite descritte dallʼispirazione divina in un linguaggio figurato».
Origene riteneva che ogni persona possieda, in stato latente, la facoltà di conoscere il significato sotteso alle parole letterali della Sacra Scrittura, la quale – secondo lui – è composta in grandissima parte da parole e scene che celano un significato allegorico. Allo stesso modo egli affrontava lʼargomento delle immagini e dei messaggi veicolati nel, e dal, sogno. In una lettera al suo ex allievo Giulio Africano (scrittore cristiano anchʼegli), Origene ricordava che, secondo la Bibbia, Daniele e alcuni altri profeti ricevettero immagini intangibili (phantasiai), visioni e sogni da interpretare, e anche apparizioni di angeli che fungevano sia da latori, sia da ermeneuti di queste immagini: queste fantasie angeliche sono «ciò che colpisce lʼanimo in sogno» (to typoun to hegemònikon en onèiro) in quanto espressione della «sensibilità divina» (thèias àistheseos) che stimola nel sognatore o nel visionario unʼattitudine per la decifrazione dei significati dei testi sacri.
In ambito politeistico, a sviluppare una teoria dei sogni basandosi su un testo interpretabile allegoricamente fu Macrobio, che assunse come riferimento il brano finale del De republica di Cicerone (libro VI), conosciuto poi come Somnium Scipionis (Sogno di Scipione), in cui il protagonista, Scipione Emiliano (nipote dellʼAfricano), in un sogno allegorico sullʼimmortalità dellʼanima viene portato nelle più elevate regioni del cosmo, oltre le stelle. Nei suoi Commentarii in Somnium Scipionis, Macrobio distingue due caratteristiche di questo racconto: il sogno come espediente letterario (diremmo noi) per introdurre un contenuto filosofico in immagini simboliche, e il significato di queste ultime. Riguardo a questo secondo aspetto, Macrobio afferma che esistono tre tipi di sogni affidabili: quello oracolare, in cui un antenato o unʼaltra figura onorata rivela il futuro; quello profetico, che si avvera così come è stato visto; quello enigmatico, le cui immagini sono ambigue e misteriose. Macrobio riteneva che il Sogno di Scipione rientrasse in tutte e tre queste categorie, caricando quindi il testo ciceroniano di una pluralità di significati non necessariamente presenti nelle intenzioni di Cicerone (è stato notato che il commento di Macrobio risulta esteso per circa sedici volte il brano del De republica).
(Origene)
Lʼelemento in comune fra tutti questi allegoristi dei sogni, politeisti, ebrei e cristiani – nota Patricia Cox Miller – era che essi «operavano a partire da unʼaspettativa di polisemia testuale, compiacendosi della convergenza delle infinite relazioni innescate dalle immagini oniriche. Ma in realtà tali relazioni non sono così infinite, [in quanto] vi era un controllo sul gioco semiotico delle immagini testuali, e quel controllo era dato dal contesto ideazionale dellʼinterprete»; in sostanza, ogni interpretazione risentiva della mentalità, della cultura e del contesto ideologico di riferimento dellʼinterprete.
Un esempio di questa complessa interrelazione tra i sogni, le immagini presenti in essi e lʼinterpretazione degli uni e delle altre, il contesto sociale e la Weltanschauung comune ai sognatori e agli interpreti, si trova in uno dei capisaldi dellʼonirologia di Artemidoro. Secondo lui, gli dèi e le dee, quando compaiano nei sogni, devono presentare le stesse caratteristiche dʼaspetto e gli stessi attributi riconoscibili da tutti nelle loro statue; nel caso siano visti sotto forma di statua, questa devʼessere composta degli stessi materiali con cui sono formate le statue presenti nello spazio oggettivo: «Sono favorevoli le immagini di materia solida e incorruttibile – scriveva – come lʼoro, lʼargento, il bronzo, lʼavorio, la pietra, lʼambra, lʼebano; mentre sono meno favorevoli, e talvolta pure dannose, le immagini fatte dʼaltro materiale, come quelle di terra di cotto, di argilla, di cera […]. Inoltre, gli dèi e le relative immagini di significato favorevole riescono propizie se si sogna che le immagini non sono né spezzate, né distrutte, ma è buon segno se si vedono annientare le immagini degli dèi che hanno significato funesto»; «inoltre – continuava – pure gli dèi, quando non hanno lʼabbigliamento né si trovano nel luogo che sono a loro propri, e non stanno nellʼatteggiamento conveniente, qualsiasi cosa dicano, dicono menzogne e ingannano. Si deve dunque prestare attenzione insieme ad ogni cosa: alla persona che parla, alle parole dette, al luogo, allʼatteggiamento e allʼabito ci colui che parla». Artemidoro definiva tutti questi attributi parasema, «segni particolari accessori», cioè emblemi che possono essere autentici o contraffatti: se sono alterati o assenti, il sognatore e lʼinterprete devono sospettare fortemente che lʼapparizione divina nel sogno non sia autentica.
Questo approccio interpretativo era condiviso da moltissime persone nel contesto greco-romano, perché, secondo la concezione platonica e neoplatonica dellʼopera dʼarte come mimesis – cioè imitazione materiale di un archetipo metafisico – quanto più la statua sarebbe stata fedele al modello immateriale, tanto più avrebbe facilitato lʼentrata nel nostro mondo del nume che essa rappresentava, e quindi il suo contatto con gli esseri umani. Cox Miller a questo proposito fa un confronto con un testo incluso nel Corpus Hermeticum secondo cui le statue sono oggetto di culto «perché contengono le forme (ideas) del mondo intelligibile (ton nòetou kosmou)»: le immagini percepibili dai sensi, cioè, possono “contenere” tali forme perché le cose incorporee (asòmata) si riflettono nelle corporee (sòmata). Apparendo nei sogni, senza il greve involucro dellʼelemento materiale (marmo, oro, ecc.), le immagini degli dèi comunicano quindi in modo più diretto con la persona scelta.
Per la stragrande maggioranza della popolazione, tale comunicazione con la dimensione divina era particolarmente importante nel caso dei problemi di salute fisica e psichica, affrontati con un approccio misto di conoscenze mediche, credenze religiose, riferimenti mitologici e superstiziosi: «In occasione di crisi provocate da malessere fisico o da afflizione morale, molti, nellʼetà greco-romana, ricorrevano ai sogni per curare i loro disturbi. I malati potevano cercare rimedi onirici presso le istituzioni religiose in quei templi e santuari provvisti di stanze riservate allʼ“incubazione”, per pernottamenti durante i quali i dormienti cercavano di provocare sogni terapeutici; oppure, in maniera meno ufficiale, potevano consultare individui esperti nellʼinviare o indurre sogni curativi mediante pratiche o pozioni magiche. In entrambi i casi, una terapia del corpo e della mente era comunque il risultato auspicato». Due divinità molto ricercate per queste esigenze provenivano dal culto egizio: la dea Iside, sorella e sposa di Osiride, e Serapide, una figura divina sincretica che riuniva caratteristiche proprie di Osiride, Apis (il famoso bue sacro), Zeus, Dioniso e forse anche del YHWH ebraico (in loro onore venivano infatti create aree di culto chiamate rispettivamente «isei» e «serapei»). Più richiesto di loro, però, era senza dubbio Asclepio – lʼEsculapio dei Romani – il «benefattore panellenico di prima scelta» al quale numerosissimi templi erano eretti in ogni parte del mondo grecofono: «I supplici dei suoi numerosi santuari e templi vedevano regolarmente sogni di questo guaritore sotto forma di statue che lo raffiguravano. Il culto di questa divinità era una sorta di terapia onirica, e la guarigione era esteticamente provocata».
Il centro principale del culto di Asclepio nellʼantichità classica e in età tardo-antica era Epidauro, nella regione greca dellʼArgolide; altre città che assunsero grande importanza furono Atene e Roma rispettivamente nei secoli V e III a. C., nonché Pergamo, in Asia Minore, nel II secolo d. C.. In questʼepoca lo scrittore Pausania visitò il centro cultuale di Epidauro – fiorente fin dal IV secolo a. C. e il più frequentato insieme a quello di Pergamo – e nella sua Guida della Grecia scrisse che lʼarea interna del recinto sacro era caratterizzata da alcune stele (Pausania ne contò sei, ma fece notare che in passato erano molte di più) su cui erano incisi molti nomi di persone guarite tramite un contatto onirico con Asclepio. Da tali stele si evince che «la terapia onirica era ricercata per unʼampia gamma di disturbi fisici: tra gli altri, sterilità, cecità, infestazione da vermi e pidocchi, paralisi, epilessia, piaghe purulente, cefalee e calvizie». Il sito era provvisto di statue del dio in pietra e crisoelefantine (cioè in oro e avorio), talvolta con i suoi attributi tipici: la verga, il cane, il serpente e la pigna: «Rinnovandosi annualmente attraverso la muta della sua pelle, il serpente divenne emblematico della capacità di Asclepio di rinnovare il corpo umano facendogli mutare la “pelle” dellʼinfermità. A Epidauro, infatti, lʼabaton, lʼedificio riservato alle incubazioni dei supplici, era pieno di serpenti sacri al dio (oltre che di cani, poiché, secondo la leggenda, Asclepio infante era stato allevato da un cane)». A chi necessitava di una cura medica – ad Asclepio ricorse anche lʼ«imperatore filosofo» Marco Aurelio – il dio taumaturgo sarebbe apparso in sogno, prescrivendo farmaci o cure, o eseguendo addirittura interventi chirurgici onirici; alcune testimonianze, fra le quali quelle incise sulle stele e gli ex voto a forma dellʼorgano malato o risanato lasciati sul sito dalle persone guarite, indicherebbero che lʼincubatio e la terapia onirica avevano effetti reali.
Comʼè naturale, ci si chiede: ma avevano davvero effetti reali? Patricia Cox Miller riassume la questione dicendo che «lʼefficacia dei sogni asclepiani come mezzi terapeutici è stata oggetto di dibattito dallʼantichità ai giorni nostri. [Nel] dibattito accademico contemporaneo, […] lo scetticismo ha continuato a essere lʼatteggiamento prevalente. Alcuni hanno considerato la redazione delle stele di Epidauro una contraffazione intenzionale ad opera dei sacerdoti del dio, finalizzata a promuovere il prestigio e massimizzare le entrate del centro, altri hanno suggerito che i malati fossero drogati o ipnotizzati, quindi trattati da dipendenti (umani!) del tempio camuffati da Asclepio». Eric R. Dodds, che sostiene che le esperienze dei devoti ad Asclepio siano state di natura religiosa, osserva come in alcuni casi le terapie suggerite dal dio ai pazienti fossero «del tutto razionali, per quanto non proprio originali, come quando la divina sapienza prescrive gargarismi per il mal di gola o verdure per la stitichezza», e riconduce le loro esperienze al modello della dinamica circolare elaborato dal noto antropologo Edward Burnett Tylor: «Ciò a cui crede, il sognatore lo vede, e a ciò che vede, egli crede». (Tra parentesi, ne Il sogno nella Tarda Antichità manca lʼipotesi, di solito messa in campo facilmente da chi affronta la questione delle guarigioni miracolose, della presunta potenza guaritrice dellʼ«autosuggestione»). Cox Miller tenta di concludere: «Ciò che possiamo dire comunque è che, nel culto di Asclepio come altrove, i sogni continuavano a funzionare come un modo di produzione di senso profondamente radicato in sentimenti personalissimi di speranza e disperazione»; il culto di Asclepio sopravvisse a lungo probabilmente «proprio a causa dellʼattenzione da esso prestata allʼindividuo, ed anche perché la prospettiva, incoraggiata dal culto, secondo cui i sogni potevano essere terapeutici, forniva ai supplici il coraggio di affrontare le loro sofferenze con speranza».
Piervittorio Formichetti
(continua…)