Il mito dell’età dell’oro nel Rāmāyaṇa e nella cultura indoeuropea – Rosa Ronzitti
- L’età dell’oro è un tema mitico presente in diverse culture, tra cui quella indiana antica. Nel settimo e ultimo libro del Rāmāyaṇa, l’Uttarakāṇḍa, ne compare una versione piuttosto eccentrica e marginale rispetto a quelle ampiamente documentate dal Mahābhārata e dai Purāṇa.
Gli Indiani dividevano il mondo in quattro Yuga ‘ère’ (Satya o Kr̥ta, Tretā, Dvāpara e Kali), corrispondenti alle quattro età esiodee dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro: il loro nome sanscrito ha origine dal gioco dei dadi e indica tiri di valore progressivamente inferiore[1]. Nel Mahābhārata la catastrofica battaglia di Kurukṣetra segna la fine dello Dvāpara Yuga; per questo, come ha scritto Georges Dumézil, il poema indiano è, fra le altre cose, la “trasposizione epica di una crisi escatologica”. Gli studi del comparatista francese, che trae molto materiale dallo svedese Stig Wikander, hanno permesso di rinvenire centinaia di corrispondenze fra le escatologie indiana, iranica e scandinava e di individuare quindi le tracce di un’epica preistoria, continuata in alcuni rami indoeuropei con adattamenti che la resero aderente alle realtà delle singole tradizioni culturali. L’argomentazione del Dumézil, nel primo volume di Mito ed Epopea[2], si fa particolarmente convincente quando egli dimostra l’insufficienza di un approccio non ereditario alla mitologia germanica, per la quale il ciclo cosmico termina con il Ragnarǫk. Scrive lo studioso:
“Da mezzo secolo i critici sono inclini ad attribuirla [l’escatologia scandinava] ad un prestito: o all’Occidente cristiano o, attraverso il Caucaso, all’Iran … Questo dibattito[3] è d’altronde collegato a quello che riguarda Loki, per i cui atti demoniaci si è anche ricercato un prestito dal cristianesimo e dall’Iran, senza maggior successo … Guardando senza pregiudizi la mitologia dell’Edda, la tragedia di Baldr e … il «destino degli dèi» vi svolgono un ruolo così grande che non è immaginabile che vi siano stati aggiunti nel momento in cui stava per sparire la vecchia religione”.
Inserito nel quadro duméziliano l’episodio che ora esamineremo sarà da attribuire con buona probabilità a una mitologia (almeno) protoindoeuropea. Precisiamo che non si tratta di una attribuzione “generica” basata su somiglianze contenutistiche, ma della ricostruzione di un modulo narrativo scandito da uno stile, una sintassi e un lessico comuni alle varie tradizioni monoglottiche.
- Il settimo libro del Rāmāyaṇa, concordemente ritenuto spurio e tardo, contiene in realtà echi di epica antica, come nel brano seguente[4]:
Adhyāya 75
a tathoktavati rāme tu bharate ca mahātmani
c lakṣmaṇo ’pi śubhaṃ vākyam uvāca raghunandanam //1//
a aśvamedho mahāyajñaḥ pāvanaḥ sarvapāpmanām
c pāvanas tava durdharṣo rocatāṃ kratupuṃgavaḥ //2//
a śrūyate hi purāvr̥ttaṃ vāsave sumahātmani
c brahmahatyāvr̥taḥ śakro hayamedhena pāvitaḥ //3//
a purā kila mahābāho devāsurasamāgame
c vr̥tro nāma mahān āsīd daiteyo lokasaṃmataḥ //4//
a vistīrṇā yojanaśatam ucchritas triguṇaṃ tataḥ
c anurāgeṇa lokāṃs trīn snehāt paśyati sarvataḥ //5//
a dharmajñaś ca kr̥tajñaś ca buddhyā ca pariniṣṭhitaḥ
c śaśāsa pr̥thivīṃ sarvāṃ dharmeṇa susamāhitaḥ //6//
a tasmin praśāsati tadā sarvakāmadughā mahī
c rasavanti prasūtāni mūlāni ca phalāni ca //7//
a akr̥ṣṭapacyā pr̥thivī susaṃpannā mahātmanaḥ
c sa rājyaṃ tādr̥śaṃ bhuṅkte sphītam adbhutadarśanam //8//
‘Dopo che la conversazione fra Rāma e Bhārata magnanimo ebbe termine,
Lakṣmaṇa rivolse spedita parola a colui che accresce la felicità dei Raghu[5]:
«L’Aśvamedha è il grande sacrificio che purifica tutti i mali;
quale infallibile mezzo di purificazione possa risplendere per te il toro del rito[6]!
È detta una storia antica su Vāsava magnanimo,
che Śakra (Indra), colpevole di aver ucciso un brahmano, fu purificato dal sacrificio del cavallo.
O guerriero dalle lunghe braccia, nei tempi antichi, quando Deva e Asura erano uniti,
viveva un grande Daitya di nome Vr̥tra, universalmente onorato.
Era ampio cento yojana e alto tre volte tanto.
Con devozione e affetto guardava i tre mondi in ogni parte.
Conoscitore del dharma, conoscitore del giusto[7] e sorretto dalla sapienza
governava la terra intera con senso della giustizia.
Mentre era lui a governare, allora la terra generava tutto ciò che si voleva:
prodotti succosi, frutti e radici.
La terra, fortunata per essere governata da quel magnanimo, portava a maturazione [i frutti] senza essere arata;
egli godeva di un tal regno, prospero straordinario a vedersi»’.
Lakṣmaṇa sta raccontando a Rāma gli antefatti del ‘brahmanicidio’ (brahmahatyā, v. 3), ovvero l’uccisione di Vr̥tra. Con essa viene sancita la fine di un’età meravigliosa, ma destinata a concludersi: l’eccessiva austerità del ‘grande Daitya’, infatti, provocando paura negli dèi, induce Indra all’omicidio, che egli riuscirà a perpetrare solo dopo aver ricevuto un accrescimento di forza da Viṣṇu. Questa versione del mito non suona affatto nuova, poiché, già a partire dal vedismo tardo, Vr̥tra non appare più come il mostro serpentiforme e terribile del R̥gveda, bensì come un pio sacerdote; perciò Indra, eliminandolo, commette una colpa gravissima, che deve essere espiata con riti opportuni. Il prevalere dell’ideologia brahmanica su quella guerriera ha fatto mutare radicalmente lo scenario della vicenda rispetto alla letteratura più antica. Tuttavia, a ben vedere, già nel R̥gveda si diceva che Indra, dopo aver colpito Vr̥tra, fuggiva in preda alla paura di una vendetta (I,32,14). Per spiegare la stranezza di tale elemento in un’opera che di norma esalta e celebra più volte l’uccisione del serpente come fatto cosmogonico, il Sani ha ipotizzato uno schema molto convincente secondo il quale Indra ha paura e fugge perché Vr̥tra sarebbe suo padre[8]. Accenni al parricidio sono contenuti in RV IV,18, allorché si dice (str. 12):
kás te mātáraṃ vidhávām acakrac chayúṃ kás tvā́m ajighāṃsac cárantam/
kas te devó ádhi mārḍīká āsīd yát prā́kṣiṇāḥ pitáram pādagŕ̥hya//
‘Chi ha reso vedova tua madre? Chi ti volle colpire mentre stavi fermo e ti muovevi?
Quale dio ti aiutò quando uccidesti il padre afferrandolo per i piedi?’[9].
Sappiamo ancora, dalla strofe immediatamente precedente, che Indra aveva chiesto l’aiuto di Viṣṇu perché lo aiutasse a colpire Vr̥tra (str. 11):
utá mātā́ mahiṣám ánv avenad amī́ tvā jahati putra devā́ḥ
áthābravīd vr̥trám índro haniṣyán sákhe viṣṇo vitarám ví kramasva
‘E la madre si rivolse al bufalo: Figlio, questi dèi ti lasciano solo!
Allora disse Indra, mentre stava per colpire Vr̥tra: O amico Viṣṇu, avanza per uno spazio più ampio!’.
Se ne deduce che il padre di Indra è Vr̥tra stesso ed è interessante notare che anche qui, come nell’Uttarakāṇḍa, sia Viṣṇu a fornire un aiuto decisivo per il compimento del misfatto. Interpretato in questa chiave, l’episodio si inserisce allora tra i grandi miti di successione, come quelli di “Urano-Crono-Zeus” nella mitologia greca e “Anu-Kumarbi-Dio della tempesta” nei testi ittiti. Confortano tale ipotesi anche alcune analogie sussistenti tra Vr̥tra e Varuṇa, il dio che Indra spodesta tirando dalla sua parte Agni (secondo il famoso inno del “tradimento” RV X,124). I tratti di Varuṇa appartengono a quelli di una divinità propriamente titanica, un antico dio celeste annientato dal figlio, suo giovane e rampante rivale assetato di potere: Vr̥tra e Varuṇa condividono perciò alcune caratteristiche e anche l’etimologia dei due nomi può provenire dalla stessa radice, come vedremo in séguito[10].
- Ma torniamo al passo del Rāmāyaṇa: qui Vr̥tra non è solo (come già sappiamo) un brahmano perfetto, campione di eccezionale austerità; egli è addirittura presentato come il re dell’età dell’oro. Tale particolare non risulta dal R̥gveda e si potrebbe perciò ritenere un inserimento recente, ma, a ben vedere, esso non ha nulla di rielaborato e posticcio e fornisce anzi un tassello importante per completare il mitologema di successione: se Vr̥tra è il padre di Indra, allora deve essere anche il re dell’età dell’oro. Così risulta infatti dalle varie mitologie che trattano il tema. Per Esiodo l’età dell’oro (o, più precisamente, la ‘stirpe’ – γένος – aurea) si svolge sotto Crono, padre di Zeus (Opere e Giorni, v. 111 ss.):
οἳ μὲν ἐπὶ Κρόνου ἦσαν, ὅτ᾽ οὐρανῷ ἐμβασίλευεν:
ὥστε θεοὶ δ᾽ ἔζωον ἀκηδέα θυμὸν ἔχοντες
νόσφιν ἄτερ τε πόνων καὶ ὀιζύος …
‘Era l’epoca di Crono, quando egli regnava sul cielo.
[Gli uomini] vivevano come dèi, avendo il cuore privo di preoccupazioni,
liberi da fatiche e sventure …’.
Nella tradizione latina, magnificamente narrata da almeno quattro autori (Lucrezio, Virgilio, Tibullo e Ovidio)[11] e in buona parte autoctona, il ruolo di Crono è svolto da Saturno, in origine divinità pacifica dei campi e dei raccolti; cfr. Ovidio, Met. I,89 ss:
Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo,
sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat …
Mox etiam fruges tellus inarata ferebat …
Il dio propizia la giustizia e l’abbondanza e ciò ha riscontro, a livello linguistico, nello scoperto gioco paretimologico fra il suo nome e săta est ‘fu seminata/ germinò’[12]. Quando però egli viene scacciato da Giove (I,113: Saturno tenebrosa in Tartara misso), subentra l’età argentea insieme con un lento peggioramento delle condizioni di vita per gli uomini.
Nella mitologia nordica l’età aurea coincide notoriamente con la ‘pace di Froði’, collocata sotto Augusto, al tempo della nascita di Cristo, per influsso degli autori latini penetrati grazie alla progressiva avanzata del Cristianesimo e della cultura classica nell’Europa settentrionale[13]. Così l’Edda in prosa, nell’antefatto al carme noto come Grǫttasngr, narra:
Skjǫldr átti þann son, er Friðleifr hét, er lǫndum réð eftir hann. Sonr Friðleifs hét Fróði. Hann tók konungdóm eftir fǫður sinn í þann tíð, er Ágústus keisari lagði frið of heim allan. Þá var Kristr borinn. En fyrir því at Fróði var allra konunga ríkastr á Norðlǫndum, þá var honum kendr friðrinn um alla danska tungu, ok kalla Norðmenn það Fróðafrið. Engi maðr grandaði ǫðrum, þótt hann hitti fyrir sér fǫðurbana eða bróðurbana lausan eða bundinn. Þá var ok engi þjófr eða ránsmaðr, svá at gullhringr einn lá á Jalangrsheiði lengi.
‘Skjǫldr aveva quel figlio che si chiamava Friðleifr, il quale regnò dopo di lui. Il figlio di Friðleifr si chiamava Fróði. Questi ereditò il regno dal padre all’epoca in cui l’imperatore Augusto impose la pace a tutto il mondo e in cui nacque Cristo. Ma poiché Fróði era il re più potente di tutte le terre del nord, la pace venne chiamata con il suo nome in tutte le lingue danesi e gli uomini del Nord la chiamarono dunque «Pace di Fróði». Nessun uomo nuoceva all’altro, anche se avesse incontrato l’assassino del proprio padre o fratello, sia libero sia imprigionato. Non c’erano ladri o briganti, tanto che un anello d’oro da tempo giaceva, intatto, sulla piana di Jalangr’.
La storicizzazione del mito non deve però trarre in inganno, secondo quanto il Dumézil stesso insegna: se pure i dotti locali adattarono la loro mitologia a quella grecolatina, creando punti di raccordo e armonie cronologiche, tracce di versioni indigene si trovano in testi fondanti della tradizione germanica, per esempio nella Vǫluspá, che apre l’Edda poetica e che nulla ha di cristiano. Dopo la grande catastrofe in cui la terra sarà inghiottita e uomini e dèi soccomberanno fra stragi e discordie, si ricreeranno condizioni ideali e un nuovo ciclo comincerà (str. 62):
Munu ósánir akrar vaxa;
bǫls mun alls batna
mun Baldr koma;
búa Hǫðr ok Baldr
Hropts sigtoptir
vel valtívar,
vituð ér enn eða hvat?
‘I campi cresceranno inarati,
guarirà ogni male,
Baldr farà ritorno.
Hoðr e Baldr abiteranno
le vittoriose rovine di Hoptr,
felicità dei guerrieri.
Volete saperne ancora?’.
3.1 Mettendo insieme i particolari forniti dalle diverse tradizioni, notiamo due motivi ricorrenti: il trionfo della giustizia, sia essa rettamente esercitata da qualcuno o naturalmente presente fra gli uomini[14], e la produzione spontanea della terra. Entrambi cooccorrono nel passo sanscrito. Il secondo motivo, in particolare, è sintetizzabile con la formula ‘terra inarata’ (akr̥ṣṭapacyā pr̥thivī, tellus inarata, ósánir akrar). Tutti gli aggettivi sono determinanti del sostantivo ‘terra’/‘campi’ e mostrano lo stesso modulo formativo: il prefisso negativo *n̥- seguito da un participio in *-to-/-no– di un verbo che significa ‘arare’ o ‘seminare’.
Ovidio insiste molto sul concetto della ahiṃsā, che egli esprime anche con il sintagma rastroque intacta ‘non violata dal rastrello’ (Met. I,101). Il sanscrito, invece, che ha maggiori potenzialità composizionali, presenta una formazione arricchita da un terzo elemento, la radice pac- ‘cuocere’ (al medio ‘maturare’), e dunque, con strategia quasi polisintetica, condensa un intero periodo in una singola parola: i frutti maturano senza che il suolo venga arato. Dal punto di vista linguistico, l’impiego del prefisso privativo *n̥- (anche nell’aggettivo esiodeo ἀκηδέα) riflette una più generale modalità di rappresentazione dell’età aurea e un’importante chiave di lettura dei relativi testi. L’età dell’oro si configura come quella in cui sono assenti tutti i tratti che nelle età successive caratterizzano sfavorevolmente la natura, l’uomo, la società. Da questo punto di vista il racconto ovidiano è davvero esemplare, perché inanella una catena di negazioni grammaticalmente variate, con sfruttamento a tutto campo di possibilità sinonimiche (nondum … nullaque … non … non … non … non … sine … immunis … intacta): Ovidio potenzia e moltiplica una struttura narrativa già presente nella IV Ecloga virgiliana (vv. 40-42: non rastros patietur humus, non vinea falcem … nec varios discet mentiri lana colores) e nel primo libro delle Georgiche (I,125-154), dove le negazioni si limitano però a un ne … quidem e nullo poscente (vv. 126-128). Anche Tibullo (Elegia I,3,37 ss.) aderisce strettamente a tale architettura discorsiva allorché, malato e solo in un’isola lontana, indulge alla nostalgica rievocazione della Saturnia Tellus (Nondum caeruleas pinus contempserat undas,/ effusum ventis praebueratque sinum,/ nec vagus ignotis repetens conpendia terris/ presserat externa navita merce ratem./ Illo non validus subiit iuga tempore taurus,/ non domito frenos ore momordit equus,/ non domus ulla fores habuit, non fixus in agris,/ qui regeret certis finibus arva, lapis).
Il discorso potrebbe esaurirsi nel constatare una serie di richiami intertestuali fra autori latini, senonché, nel famoso capitolo del Vīdēvdād iranico che descrive il regno “edenico” del saggio Yima, proprio l’anafora della congiunzione negativa serve a definire uno scenario analogo. In II,5 Yima proclama: “Non ci sarà sotto il mio regno né vento freddo né vento caldo né malattia né morte” (nōit̰ mana xṣ̌aϑre buuat̰ aotō vātō nōit̰ garəmō nōit̰ axtiš nōit̰ mahrkō). Nel Vara, il recinto dei privilegiati che scamperanno al terribile inverno del mondo (II,29), solo alcuni si salveranno: “Non ci saranno qui gobbi davanti e dietro, né impotenti né pazzi; nessuna povertà, nessuna bugia; nessuno squallore, nessuna gelosia; non denti cariati, non la lebbra che isola gli uomini, né alcuno di quei marchi con cui Angra Mainyu bolla i corpi dei mortali” (mā aϑra frakauuō mā apakauuō mā apāuuaiiō mā harəδiš mā driβiš mā daiβiš mā kasuuīš mā vīzbāriš mā vīmītō.daṇtārō mā paēsō yō vītərətō.tanuš māδa cim aniiąm daxštanąm yōi həṇti aŋrahe mainiiə̄uš daxštəm maš́āišca paitiniδātəm). La “pulizia” in effetti riesce a puntino, come viene detto in II,37, e tutti i bacati rimangono fuori dal Vara, ben abitato, sigillato e illuminato ‘da una finestra che si dava luce da sé’.
3.2. Una seconda variante descrittiva, complementare alla prima, è poi quella che fa riferimento allo “spontaneismo”, cioè al fatto che durante l’età aurea la terra produce da sola i frutti e le messi che l’uomo dovrà in seguito procurarsi a prezzo di enormi fatiche. Qui è comune a varie tradizioni l’uso del pronome/aggettivo indoeuropeo a base *s(w)e-. Partiamo dal testo antico islandese dello Upphaf (Danakonunga sǫgur, ed. Guðnason 1982, 40), in cui del tempo felice di Frǫði si dice:
var ár svá mikit, at akrar urðu sjálfsáðir, ok þurfti eigi við vetri at buásk
‘Il raccolto era così copioso che i campi si seminavano da sé e non c’era bisogno di prepararli per l’inverno’.
Caratterizzazione negativa e caratterizzazione spontaneistica convivono: il þurfti eigi (‘non c’era bisogno’) è preceduto dal sjálfsáðir ‘autoseminati’.
Sjálfsáðir è composto, nel primo elemento, con la forma islandese antica del pronome riflessivo *s(w)elbho-, protogermanico *selbaz. Nel secondo elemento (-sáðir) si individua la radice del verbo sá ‘seminare’, che già compariva nell’aggettivo negativo ó-sá-nir[15] e nell’incipit ovidiano, quasi anagrammatico, sata est aetas.
Il contesto semantico forza anche il valore del pronome ipse verso questa interpretazione. Lo riconosce lo stesso Servio, chiosandolo con “sponte, ultro” in Georg. I,127-128: ipsaque tellus/ omnia liberius, nullo poscente, ferebat. Così ci sembra anche in Ecl. IV,23 (Ipsa tibi blandos fundent cunabola flores) e nell’elegia tibulliana I,3,45 (Ipsae mella dabant quercus). Ovidio, per parte sua, rincara la dose con il distico (già accennato) Met. I,101-102:
Ipsa quoque immunis rastroque intacta nec ullis
saucia vomeribus per se dabat omnia tellus.
Di nuovo attraverso una tecnica allitterante e parzialmente anagrammatica ipsa e per se si specchiano l’uno dentro l’altro. Allitterante è anche il sintagma ablativale sponte sua, che contiene *swe- e allittera ulteriormente con sine lege (v. 90): sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat.
Abbiamo lasciato al margine la trattazione lucreziana di De rerum natura V,925 ss., che interpreta in maniera del tutto eccentrica il topos mitico in esame. Essa, pur precedendo Virgilio e Ovidio, offre un’immagine radicalmente diversa (materialistica e razionalistica) del cammino umano. Anche il cantore di Epicuro ricorre due volte al sintagma sponte sua (vv. 938 e 961), la seconda rafforzandolo in un sponte sua sibi quisque. Il brano esibisce negazioni a catena (933: nec robustus erat … 935: nec nova defodere … 953: necdum res igni scibant tractare …) per descrivere l’evoluzione dell’uomo da una fase di incapacità (e non “assenza di male”) ad un progresso che lo agevola ma lo rende fiacco, quando non pericoloso per se stesso e per gli altri. A noi sembra che Lucrezio dia un’interpretazione consapevolmente polemica e sui generis di un topos preesistente. Virgilio (soprattutto nella quarta ecloga) e Ovidio (quest’ultimo anche attraverso la fonte virgiliana), hanno sicuramente sotto gli occhi il De rerum natura, ma trasmettono una versione del mito più aderente alle origini.
In greco l’elemento lessicale che equivale a *s(w)e- è αὐτο-; nelle Opere e i Giorni è proprio il composto αὐτόματος a rendere l’idea dello spontaneismo, vv. 117-118:
… καρπὸν δ’ἔφερε ζείδωρος ἄρουρα
αὐτόματος πολλόν τε καὶ ἄφθονον
‘La terra che dona le messi portava frutto
da sé (automaticamente), molto e abbondante’.
- Torniamo dunque all’India. Se abbiamo interpretato correttamente il mitologema che soggiace al brano epico, allora anche particolari a prima vista esornativi assumono una valenza semantica e storica piena. Le gigantesche dimensioni di Vr̥tra, che sono date nella prima metà del quinto śloka, potrebbero alludere alla sua natura celeste, ovvero al suo coincidere con l’intera volta del cielo. Sia Vr̥tra sia Varuṇa sono dèi che ‘coprono, ostruiscono, avvolgono’ (PIE *wer-‘coprire’). Il carattere celeste di Varuṇa è indubbio e una sua identificazione esplicita con il cielo si trova in RV X,132,4. Il cielo propriamente detto, Dyau, divinità assai sbiadita fin dal principio della letteratura indiana, è ritenuto ‘padre di Indra’ nel mantra RV IV,17,4. Anche l’artigiano mitico Tvaṣṭar figura in questo ruolo e può assumere i tratti di un dio creatore, da cui discende l’universo intero, in VS XXIX,9[16].
Alla descrizione fisica di Vr̥tra, (il corpo sproporzionato) il distico rāmayaṇico aggiunge nella seconda parte le qualità morali: proprio come un padre premuroso e attento, il grande Daitya guarda le creature con affetto, governa la terra con giustizia e nulla sfugge alla sua attenzione. Seppure attraverso concetti tipicamente indiani quali dharma- e buddhi-, si celebra in questi versi la probità esemplare attribuita dall’Occidente classico ai regni di Crono e Saturno. Vr̥tra, come in tutte le tradizioni di regalità indoeuropea, favorisce l’abbondanza e la prosperità dei suoi dominî grazie a doti etiche e ascetiche fuori dal comune[17].
- Per concludere questi brevi note, che sono solo alcuni dei possibili spunti offerti dal tema dell’età dell’oro e dalle sue splendide modulazioni poetiche nelle culture indoeuropee antiche, riteniamo opportuno ritornare su alcuni dei problemi sollevati all’inizio del lavoro.
Abbiamo visto che il gran dibattito della germanistica è consistito, e tutt’ora consiste, nel discernere l’indigeno dall’importato. Le tradizioni indoeuropee più recenti presentano mutuazioni dalla cultura classica e così, se qualcosa coincide tra l’Edda e Ovidio, può essere che gli estensori dell’Edda abbiamo copiato e ripreso, per mediazione del clero e dei dotti, autori latini. Ma fino a che punto va spinto il ragionamento? Fino ad annullare l’identità culturale germanica come era uso fra Otto e Novecento? E forse persino quella latina rispetto a quella greca, rendendo la prima totalmente dipendente dal racconto esiodeo?
La tradizione indiana si inserisce allora come terzo incomodo (o “comodo”) perché offre numerosissime congruenze con la poesia germanica più antica laddove le letterature greca e latina tacciono del tutto. È vero che per spiegare tali congruenze si potrebbero postulare ad hoc, ogni volta che serve, fonti classiche perdute oppure non noti contatti preistorici tra l’India e l’Europa settentrionale, questi ultimi forse a loro volta indiretti (per esempio le lunghe trafile di mutuazione attraverso le steppe centroasiatiche o il Caucaso di cui parlano gli “avversari” del Dumézil): i temi favolistici, si sa, viaggiano e superano i confini tra le lingue e le culture, come il caso delle Mille e una notte dimostra in modo esemplare.
Tale quadro esplicativo, sicuramente vero in qualche circostanza e quindi mai escludibile a priori, ci sembra però del tutto insufficiente nella sua globalità: già le ricerche sulla lingua poetica indoeuropea di Rüdiger Schmitt e di Enrico Campanile hanno in gran parte superato l’espediente dell’intermediario scomparso, individuando precise formule i cui recostrutti o i cui moduli concettuali e linguistici presuppongono un capostipite unitario. In seguito si è anche precisata sempre più, ancora inevitabilmente su base indiana, la presenza di un modello trasmissivo del sapere a carattere familiare o di gruppo ad accesso chiuso, secondo il quale un patrimonio testuale veniva memorizzato e trasmesso oralmente di generazione in generazione sul territorio euroasiatico[18]: i mutamenti di lingua, gli apporti individuali e l’ingresso di nuove tradizioni non impediscono perciò di riconoscere un nucleo ereditario che passa di strato in strato e può emergere anche in opere di composizione relativamente tarda, quale appunto è l’Uttarakāṇḍa. Il principio filologico recentiores non deteriores vale allora anche per i contenuti dei testi, dal momento che i contenuti possono precedere le opere che li contengono.
Nel caso specifico, il tema antichissimo dell’età aurea emerge tramite descrizioni linguisticamente e stilisticamente ben caratterizzate (formulari) e inserite in schema del tutto coerente con quello dei miti di successione. Il che induce a ritenere l’inserto narrativo di R VII,75 non una creazione del momento e della tradizione indigena, bensì una “capsula del tempo”. Il Rāmāyaṇa nulla innova; conserva e dice anzi ben più del R̥gveda, nel quale si sa che Indra scappa dopo aver ucciso Vr̥tra, ma non capiamo il perché della fuga: si parla di un evento capitale le cui cause sono rimosse, forse per una censura ideologica che impedisce di attribuire a Indra azioni negative. Una volta caduta tale censura (con il tramonto dell’indraismo e della società in esso riflessa l’agire violento del dio-guerriero non è più indiscriminatamente giustificato e richiede anzi espiazione), anche le cause taciute possono venire alla luce: Indra ha ammazzato suo padre, provocando la fine di un ciclo cosmico a aprendone un altro peggiore. L’ideologia filosacerdotale che l’Uttarakāṇḍa del Rāmāyaṇa in quel punto veicola rimuove il “tappo” di un canale sotterraneo preesistente al brahmanesimo stesso. Così torna a sgorgare, ancora limpida e riconoscibile, la voce preistorica che celebra quell’aurea prima aetas da molti rimpianta.
NOTE
[1] Cfr. González-Reimann, Luis, “The Ancient Vedic Dice Game and the Names of the Four World Ages in Hinduism”, in A. F. Aveni (ed.), Selected Papers from the 2nd Oxford International Conference of Archaeoastronomy, Cambridge, Cambridge University Press 1989, pp. 195-202 e González-Reimann, Luis, voce “Cosmic Cycles, Cosmology, and Cosmography”, in Knut A. Jacobsen, Brill’s Encyclopedia of Hinduism 2009, Vol. I, Leiden, Brill, pp. 411-428.
[2] L’edizione francese è del 1968, ma citiamo dalla traduzione italiana del 1982 (Torino, Einaudi, pp. 214-215).
[3] Dumézil si oppone alle tesi antiindigeniste del filologo germanico Axel Olrik e dell’orientalista Richard Reitzenstein.
[4] Cfr. Saverio Sani, “Echi epici del mito ṛgvedico di Indra”, in Roberto Ajello et alii (a cura di), Quae omnia bella devoratis. Scritti in memoria di Edoardo Vineis, Pisa, Edizioni ETS 2010, pp. 519-530.
[5] Epiteto per indicare Rāma stesso.
[6] Epiteto per indicare l’Aśvamedha.
[7] Il termine kr̥ta- ‘giusto’, in quanto ‘fatto, eseguito’, allude all’età aurea (Kr̥ta Yuga).
[8] Cfr. Saverio Sani, “Il padre di Indra”, Studi e Saggi Linguistici 40-41 (2003-2004), pp. 317-324
[9] Tratto inusuale, che conferma la rappresentazione alternativa e presumibilmente antropomorfica di Vr̥tra: infatti egli è un serpente e quindi apā́d ‘senza piedi’, come si dice in I,32,7a.
[10] Cfr. Heinrich Lüders, Varuṇa. Aus dem Nachlaß herausgegeben von Ludwig Alsdorf. I. Varuṇa und die Wasser, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1951 e F[ranciscus] B. J. Kuiper, Varuṇa and Viduṣaka, On the Origin of the Sanskrit Drama, Amsterdam – Oxford – New York, North Holland Publishing Company 1979.
[11] Cfr. Emilio Pianezzola, “Forma narrativa e funzione paradigmatica di un mito: l’età dell’oro latina”, in AA. VV., Studi di poesia latina in onore di Antonio Traglia, Vol. II, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1979, pp. 573-592.
[12] Il participio sătus viene dal grado zero di *sē- ‘seminare’, mentre il nome Sāturnus è collegato a sā– ‘saziare’.
[13] Su tutti i passi germanici si veda ora, estesamente, Rosa Ronzitti, Il gallo contro il mulino. Due epigrammi di Antipatro di Tessalonica a confronto con testi latini, iranici, norreni e vedici, Tivoli, TORED 2015, p. 35 ss.
[14] Secondo la tradizione classica le leggi non sono necessarie e l’uomo vive secondo natura. La pax germanica, al contrario, si realizza proprio perché le leggi regolano armoniosamente la vita dell’uomo, mettendo fine al tempo delle faide e dei furti, sicché nessuno ruba l’anello incustodito sulla piana (cfr. Clive Tolley, Grottasǫngr. The Song of Grotti, London, Viking Society for Northern Research 2008, p. 11).
[15] Cfr. Richard Cleasby – Gudbrand Vigfusson, An Icelandic-English Dictionary, Oxford, Clarendon Press 1957, p. 664, s.v. úsáinn).
[16] Cfr. Saverio Sani, “Il padre di Indra”, cit., p. 321.
[17] L’aggettivo sphītam (v. 8), riferito al regno aureo, deriva da sphā- ‘ingrassare’ ed è corradicale di lat. prosper.
[18] Cfr. Gabriele Costa, La sirena di Archimede. Etnolinguistica comparata e tradizione preplatonica, Alessandria, dell’Orso 2008.
Rosa Ronzitti,
glottologa e linguista dell’Università di Genova.