Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Il Mito del Significato: intervista ad Alessandro Bulgarini – a cura di Luca Valentini
Dal 23 Giugno al 14 luglio, la città marchigiana di Urbino ospiterà una sua imminente mostra personale: può fornisci qualche indicazione in merito?
“La mostra Il Mito del Significato che si terrà dal 23 giugno al 14 luglio presso il Palazzo del Collegio Raffaello di Urbino, con il patrocinio del Legato Albani e della Città di Urbino si inserisce tra gli eventi promossi nella 2° edizione del Festival Ideale, dedicato quest’anno al tema del Viaggio Interiore. Presenterò al pubblico una serie di nuovi dipinti ad olio su tela realizzati nel corso degli ultimi due anni appartenenti alle serie intitolata Mitogonie con la quale ho voluto dare una mia personale interpretazione ad alcune delle più note iconografie dei miti della Tradizione greca, accanto ad altre figurazioni emblematiche di mia invenzione che proseguono e si ricollegano alla mia ricerca complessiva; in aggiunta alla suddetta serie saranno infatti esposte anche alcune delle opere più significative del mio lavoro dell’ultimo decennio, tratte nello specifico dalla serie pittorica Iconosophia e dalla serie grafica Indagine sugli esseri immaginari in omaggio a J.L. Borges per un totale di più di 30 quadri. Il Mito del Significato, da approcciare in continuità con le mostre precedenti propone dunque una nuova ed ulteriore lettura critica di tutta la mia ricerca pittorica”.
In una postmodernità ove l’arte è confinata in una sterile espressione di mode o di istinti personali, ha un senso ancora richiamarci al mito? E quale mito in particolare? Ci accenni a qualche opera?
“Risponderò con le parole di Elémire Zolla, oggi più che mai profetiche di fronte a talune dinamiche sociali e mediatiche manifestatesi a tutti in maniera eloquente negli ultimi anni: “Oggi le storie sacre e anagogiche (le Fiabe, i Miti), come indecifrabili, le rifiuta la gente stessa che quotidianamente si lascia beffare dai fabbricanti di immagini politiche, dai produttori di pubblicità. Chi disdegna la storia sacra è soggiogato dalle fantasticherie predigerite che gli schermi gli risputano nella mente inerte, e chiama realtà concreta le fantasticherie che assorbe e riproietta sul mondo esterno inconsciamente. […] L’immaginazione anagogica è oggi ignota, eppure nell’immaginazione tutto è radicato. Chi non sappia usare le immagini secondo anagogia è alla mercé di chi gliele fabbrica, fantoccio nelle mani del burattinaio“. I miti, connaturati appunto al pensiero anagogico -strettamente connesso con lo sviluppo delle facoltà intuitive – hanno un valore universale che trascende epoche e contesti storici e sociali specifici, in quanto racconti archetipici evocativi di alcune dinamiche sovrapersonali della natura e della psiche; si pensi ad esempio al ben noto “complesso di Edipo”. Non a caso ne è stata enfatizzata l’importanza da autori – per me di grande ispirazione – come Carl Jung e James Hillman anche nello sviluppo delle loro teorizzazioni sulla psicanalisi. Inoltre attraverso la lente del mito si possono anche interpretare alcune importanti dinamiche storiche e sociali. E’ il caso per esempio del titanismo economico delle multinazionali della tecnologia e del marketing, che contrassegna in maniera inquietante l’epoca presente; la mitologia ci dice che i titani possono fare ritorno sulla terra solo quando sono assenti gli dèi: ed ecco allora che alla perdita del sacro conseguente al disinteresse delle masse verso le tradizioni morali e spirituali ha fatto seguito una fede incondizionata e generalizzata verso l’infallibilità della tecnologia e della scienza, sostituendo spesso il dogmatismo ideologico al metodo scientifico. E ancora, che dire del titanismo delle lobbies che impongono decisioni e normative spesso invasive della libertà individuale, senza passare per il vaglio dei meccanismi democratici della politica?
Restando nell’ambito delle tematiche sociali d’attualità e della connessione con le opere presenti in mostra, il mito di Icaro ci ricorda che la presunzione dell’uomo di poter raggiungere il sole, senza un’adeguata preparazione lo porta a schiantarsi: dovremmo chiederci se non possa essere questo il destino di un approccio frettoloso e fanatico all’intelligenza artificiale, senza prima aver fissato i principi di un’etica universalmente valida a tutela dell’uomo.
E infine, tra tanti altri ancora, un mio personale omaggio al Prometeico Julian Assange, punito per aver donato agli uomini non il fuoco ma bensì alcune scomode verità, nell’impotenza del mondo che sta a guardare. Non è a un mito specifico che dobbiamo richiamarci ma al recupero di una prospettiva mitica sempre più assente oggi nel modo di pensare occidentale impantanato in un iper-razionalismo e un rigido letteralismo privo della componente intuitiva necessaria a far fronte a qualsiasi sfida per il futuro. E allora la figurazione del mito può avere ancora un senso quale processo di evocazione di significati tramite le immagini, nell’ambito di un progetto più vasto di risveglio dell’interesse verso il pensiero immaginale”.
Le tonalità nella pittura, come le antiche figurazioni parietali, esprimono sempre il carattere interno del suo esecutore: l’uso di certi colori nella sua pittura non reputiamo sia casuale, vero?
“La scelta cromatica è mutata molto negli anni in corrispondenza anche dell’evoluzione del mio senso estetico e con la maturazione della sensibilità al colore. Se inizialmente la predisposizione innata riguardava soprattutto il disegno, il chiaroscuro e la figura umana, con gli anni e le interminabili ore di pratica e sperimentazione ho sviluppatouna certa consapevolezza anche nell’uso dei colori. Le opere più recenti a cui la mostra è dedicata sono caratterizzate da una vivida scelta cromatica finalizzata ad ottenere un certo impatto visivo tramite un imprevedibile accostamento dei complementari. Più che nella Pop art – come potrebbe sembrare da un primo sguardo – l’origine e l’ispirazione di questa scelta in parte voluta ma in parte inconsapevole, credo siano da ricercare nell’ammirazione e lo studio dei grandi maestri della pittura del Rinascimento e del Manierismo. Non so se nel mio caso le tonalità dei vari periodi esprimano rispettivi stati d’animo o aspetti del mio carattere ma sono di certo sempre collegate ai significati o le emozioni che di volta in volta ho voluto suscitare”.
Alessandro Bulgarini, Lei è un economista con la passione dell’Arte, con un’accezione antica, cioè un Arte i cui fondamenti si possono ritrovare nel sacro e nella filosofia: come nasce questo intreccio?
La passione per la filosofia e in parallelo per la storia dell’arte sono emerse con forza negli anni universitari mentre frequentavo la facoltà di Economia, e nel giro di poco tempo è arrivata anche, sfolgorante, la vocazione alla pittura, i cui rudimenti tecnici avevo già appreso inconsapevolmente durante tutta l’infanzia, nel frequentare lo studio e le mostre di mio nonno. Così, mentre acquisivo consapevolezza della mia identità di individuo indirizzandomi verso una formazione abbastanza logico-razionale, ho portato avanti anche quelle scelte estetiche e formali che hanno contribuito a delineare anche la mia personalità pittorica. Osservando da subito in maniera critica e con un certo distacco la superficialità e il nichilismo di una certa parte dell’arte contemporanea (e della società), ho deciso di coniugare l’esigenza espressiva del fare pittura con quelli che erano i miei interessi verso le tematiche filosofiche, antropologiche ed esoteriche che andavo approfondendo. Ho applicato quella che nel marketing si chiama strategia di diversificazione per arrivare a delineare, per quanto riguarda le tecniche e i contenuti, uno stile pittorico peculiare che mi caratterizzasse e rispecchiasse in maniera autentica il mio sentire.
Dal punto di vista strettamente artistico, inizialmente i riferimenti sono state le avanguardie del ‘900, in particolare Metafisica e Surrealismo, con le quali ho da sempre una particolare affinità elettiva, andando poi in un secondo momento a studiare più in profondità le iconografie, le tematiche, le tecniche ed i paradigmi del Rinascimento e, in parte, delle antiche Civiltà. Kandinsky, un pittore da me molto lontano da un punto di vista stilistico ma molto vicino probabilmente nel modo di intendere l’arte, nel suo libro fondamentale “Lo spirituale nell’arte” ci dice che “la vita spirituale, di cui l’arte è una componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza. Può assumere varie forme, ma conserva sempre lo stesso significato interiore, lo stesso fine”.
Nel definire una mia concezione di arte che fosse profonda e autenticamente vicina al mio sentire ho scelto la forma della figurazione per esprimere quei concetti della filosofia e della tradizione perenne che da sempre mi hanno interessato. Nel corso degli anni la pittura è diventata per me una Via, uno stile di vita adatto ad esplorare i territori dell’immaginazione e del pensiero immaginale e lo strumento per realizzare quel principio del Neoplatonismo emblematicamente racchiuso nel motto Ficiniano IOCARI SERIO ET STUDIOSISSIME LUDERE.
La mostra vede la curatela dello studioso di tradizioni arcaiche Giacomo Maria Prati: in cosa si esplicita questa collaborazione?
Con il curatore c’è uno scambio intellettuale e filosofico che dura da parecchi anni e nasce probabilmente da un’affinità di fondo nella curiosità verso ciò che va oltre la superficie delle cose per addentrarsi nelle profondità dei significati. Così, a partire dalla mostra Apocalyps del 2012 al Pirellone nella quale mi aveva invitato a partecipare, abbiamo proseguito in un confronto duraturo sulle tematiche estetiche e filosofiche – ma anche sociali, storiche ed economiche recenti – che ci ha portato negli anni a ideare questa mostra. Suo è il testo critico di presentazione della mostra che traccia appunto una nuova lettura critica complessiva della mia ricerca pittorica, dandole una collocazione all’interno dell’iper-frammentato panorama dell’arte contemporanea. Lo ripropongo qui di seguito:
Il ciclo inesausto. Tra apparire e vedere
La saggezza immaginale di Alessandro Bulgarini
Giacomo Maria Prati
La pittura di Alessandro Bulgarini sorprende quasi sempre proprio per la disinvolta libertà del proprio processo di configurazione tale da risultare refrattaria a facili categorizzazioni e riduzionalità di maniera. Certamente come ogni autentica arte possiede una capacità mnemo-attrattiva per cui è facile richiamare alla mente contemplandola, ed è pittura che chiede e genera con-templazione, non semplice osservazione, il fenomeno storico della surrealtà nella sua giustapposizione di elementi immaginali inattesi e razionalmente spiazzanti. Come similmente richiama il simbolismo che connota ogni fine-secolo per la ricchezza traboccante di riferimenti e allusioni rappresentative.
Ma non si è detto ancora nulla perché il daimon di Alessandro tanto emerge in intensità e intensione nelle sue opere quali “visioni partecipabili” quanto si dà quale sfuggente e sfingeo a livello sia esperienziale che ermeneutico. Non è sempre l’arte nella storia figlia dell’arte quanto travalicante il “senso comune” e diacronico dell’arte stessa? Massimamente accade per le sue opere che appaiono fulgidamente border line tra il vedere e l’apparire, fra il condensarsi di un processo ideativo in corso e la stessa forza sinestetica e relazionale di tale processo il quale nel suo apparire intesse già la grammatica del proprio vedere. Non a caso l’artista stesso inventò saggiamente alcuni anni fa la ripresa di un antico termine, “icastico” per sperimentare con più auto-evidenza la partecipabilità della propria stessa opera. Caso raro ma illuminante di auto-ermeneutica che conferma in chiarezza come qui il rapporto arte-artista sia di creazione e non di produzione in quanto si mostra linguisticamente alieno al suo stesso autore nel suo staccarsi quale visione performante, come ci conferma l’urgenza di rinnovare il linguaggio quale istanza vitale sia per chi crea l’arte che per chi è chiamato a riviverla nella ricezione. Il daimon di Alessandro danza e incede con autorevole quanto viscerale sicurezza nei fluidi interstizi fra il blepein e l’oraeincioè opera dandosi la propria materia in tensione fra le due principali polarità del vedere greco, di solito oppositive e qui dialettiche tra “l’osservare l’oggetto” e il “guardare in visione” quale linguaggio libero e originario. Alessandro riesce a trattenere e vivificare la bellezza di entrambe le dimensioni: l’istintività dell’esserci presenziale dell’immagine quale “apparire” e il travalicare immanente del “vedere” quale partecipazione ontica sussistente in ciclo prima e dopo l’opera.
Tutto questo con una pittura tanto colta quanto ricca anche di una componente naif, cioè della freschezza fanciullesca del sogno e della carnalità leggera dell’aurora. Lo vediamo senza dubbio anche dal confronto da alcune sue opere, come se solo dall’accettazione di questa lingua sia possibile il logos che si sofferma in essa.
Se avviciniamo Psyche a Homo integralis ecco comparire un arco ideale delle vaste possibilità creative dell’autore: dall’abbozzare disegnativo tra estetica e ideatività nell’incrocio di una noesi proiettiva alla configurazione di una nuova quanto antica emblematica sapienziale che ha il coraggio di affrontare la Tradizione rivivendola in massima libertà e coraggio nel pensiero associativo-simbolico dove l’occhio diventa stargate con il fiore e il cuore e l’esempio ancestrale del Mithra della Galleria Estense di Modena appare freschissimo, appena sorto dalla pietra dalla mente e dal serpente del pensare intuitivo in un nuovo ri-velare, cioè presentare sempre nuovi veli espressivi e proiettivi.
Gli stessi concetti di icona e di simbolo appaiono spiazzati e obsoleti in questa pittura-vortice così chiaramente sorgiva quanto lucida e possiamo solo richiamare quale confronto pertinente e all’altezza i “movimenti archetipali” quali strutture profonde dell’”immaginario quale processo” su cui ha scritto pagine memorabili Gilbert Durand. La forza ancestrale e aurorale dell’archetipo libero però dalla rigidità della sua mentalizzazione ermeneutica ma recuperato in integralità di vita nel suo farsi mercuriale, nella sua dinamica fisica e fisicizzante.
Simile potenza immaginale troviamo in Sophia dove la lingua dell’Egitto quale mistero si compenetra con un cuore fiammante dalla mistica cristiana e compare anche un serpente-mondo tra gnosticismo e iconografia mariana. Ma è il volto di Donna Sapienza che illumina e irradia una vivente plausibilità dei sorprendenti incroci linguistici tra senso della scultura e dell’emblematica e una pittura quale coronamento platonico del kosmos stesso.
Come emblematici in e di una nuova “araldica dello Spirito” ritornano i frequenti esseri alati, cigni o oche che siano, dove il senso greco del volo e dell’apparire, già iperboreo, ritorna nella sua freschezza imperiosa quali totem guida, amici proprio perché non rassicuranti e intimi al nostro fluire profondo proprio perché alieni e selvatici nella loro autonomia linguistica.
Alessandro come pochi riesce a ridare il senso di cosa sia un “emblema”: un qualcosa di più fluido di un’allegoria e di più fisicamente condensato e implosivo rispetto al “simbolo”, qui recuperato nella sua presenzialità performativa più che nella sua funzione di rimando e travalicazione. C’è poco da andare oltre quando l’artista ti porta già mondi interi in eloquenza immediata.
Opere come 3rD eye mostrano chiaramente la genialità compositiva e sapienziale di Alessandro proprio all’interno della sfida della semplicità e ci mostra pure il suo carisma anti-retorico e sostanzialmente libero da sovrastrutture e barocchismi. Un semplice volto, carnale quanto simbolicizzante, che reca il “terzo occhio” non in orizzontale sulla linea degli altri ma sorprendentemente declinato in verticale, e con il cielo quale pupilla. Occhio totalmente spalancato e non a caso in risonanza con l’affascinante e sfingeo “linguaggio del sorridere”. Un sorriso accennato ma profondo, metamorfico, eloquente segno dell’Illuminazione compiuta e vittoriosa.
Bulgarini restituisce alla pittura l’antica e sempre fanciulla capacità di segni-ficare, cioè la capacità dell’immagine di tendersi dall’oggetto al “farsi segno”, cioè semeion: incontro, alleanza sapienziale, seme, sogno. Cosa aspettarsi o chiedere di più?
Intervista a cura di Luca Valentini