Il Lago d’Averno, la porta degli inferi – Luigi Angelino
Credo che siano poche le persone che non abbiano mai sentito parlare del Lago d’Averno, soprattutto trasfigurato nelle tante leggende tramandate dalla ricchissima e poliedrica mitologia greca e romana. Non tutti però ne conoscono l’esatta collocazione geografica, quasi si trattasse di un luogo inventato ed adoperato soltanto nelle narrazioni fantastiche. Il lago d’Averno è uno specchio d’acqua di origine vulcanica situato nel comune di Pozzuoli e precisamente, tra la frazione di Lucrino ed il parco archeologico di Cuma, nell’ambito amministrativo della città metropolitana di Napoli. Lo spazio lacustre, dalla significativa e simbolica forma ellittica, raggiunge punte di profondità anche di 35 metri, adagiato all’interno di un vulcano spento che, secondo gli studiosi, avrebbe un’origine di 4000 anni. L’etimologia del nome è strettamente legata alla leggenda che avvolge il lago, i cui contenuti avremo modo di approfondire in seguito. La forma latinizzata Avernus deriverebbe dal termine greco aornos, traducibile con l’espressione italiana “senza uccelli” (1). Secondo la tradizione, infatti, le acque del lago sarebbero state capaci di emanare gas così nocivi da impedire il proliferare della vita animale, soprattutto quella di molte specie di uccelli così diffuse presso altri specchi d’acqua. In effetti il luogo nell’antichità si presentava insalubre ed inospitale, come lo descrive Virgilio nell’Eneide: “una spelonca profonda, protetta da un cupo lago e dalle tenebre dei boschi, sopra la quale nessun volatile poteva impunemente avventurarsi ad ali spiegate” (2). Al giorno d’oggi, tuttavia, non si può dire che le acque del lago non siano frequentate, ospitando una comunità stabile di folaghe, con l’aggiunta di un certo numero di germani reali, di svassi maggiori, di anatidi, nonché con l’oscura presenza di rane e di bisce. Sotto la superficie, oltre ai soliti gamberetti d’acqua dolce, non mancano pesci rossi, tartarughe, bavose, alborelle ed alcuni animaletti indigeni come i persici e le gambusie.
Da questa brevissima introduzione, già si può comprendere come l’atmosfera del lago abbia suggestionato l’immaginario degli antichi, fino ad essere considerato la “porta degli inferi”, attraverso la quale si raggiungeva l’Ade, il regno dell’Oltretomba. Durante l’epoca romana, tuttavia, il lago d’Averno assunse una notevole importanza militare, soprattutto nel periodo delle guerre civili contro Pompeo e nella successiva età augustea, quando la zona del lago diventò una ben strutturata base navale di notevole importanza strategica. Secondo gli storici, questo fondamentale porto militare fu costruito sotto la regia di Marco Agrippa, ribattezzato poi “Portus Iulius” in onore del princeps Ottaviano Augusto (3). L’ampia base navale comprendeva anche il vicinissimo lago Lucrino: i due specchi d’acqua erano collegati fra di loro da un avveniristico canale navigabile, nonché da numerosi tunnel interrati che consentivano alle truppe di passare comodamente da una parte all’altra, a seconda delle esigenze operative. Alla costruzione del porto è legata una curiosa leggenda che, riferendosi al culto del divus Avernus e della ninfa Calipso nei pressi del lago, racconta che le statue delle due divinità si sarebbero miracolosamente ricoperte di sudore, a causa della profanazione delle acque sacre. Nel IV secolo d.C. il porto fu quasi del tutto abbandonato, non solo per la progressiva decadenza delle istituzioni romane, ma principalmente per i continui bradisismi che tendevano ad abbassare sempre di più la linea costiera. Addirittura sembra che nel V secolo le mura, innalzate allo scopo di proteggere il porto, erano quasi del tutto crollate e di seguito la maggior parte del materiale, che era servito per edificarlo, fu portata a Roma come utile supporto di recupero per i restauri e le riparazioni. Per molti secoli il porto fu sommerso e del tutto dimenticato. Soltanto nel 1956 è venuto alla luce, grazie alle foto aeree scattate dal pilota Raimondo Bucher (4).
Cercando di procedere con ordine, considerata la copiosa letteratura classica che riguarda il lago d’Averno e la zona dei Campi Flegrei in generale, evidenzio innanzitutto come la rudezza della natura vulcanica del luogo abbia ispirato i coloni Greci ad ambientarvi il mito omerico dei Cimmeri, i giganti che vivevano nelle viscere della terra. In realtà i giganti non erano altro che le trasfigurazioni metaforiche delle eruzioni vulcaniche, continue e frequenti nell’area dei Campi Flegrei, che gli antichi percepivano come espressione del furore degli dèi.
Ulisse avrebbe qui evocato le ombre dei morti, interrogando l’anima dell’indovino Tiresia, reso famoso dalla saga edipica (5). Strabone descriveva il territorio del lago d’Averno, circondato un tempo da fitte e ombrose selve che rendevano ancora più cupo il colore azzurro scuro del suo specchio d’acqua, considerato senza fondo e spalancato verso gli abissi. L’Averno ispirava una forma di timore superstizioso che, in alcuni casi, sfociava perfino nel cieco terrore. Il solito Strabone ricordava che nessuno osava abbeverarsi alle fonti adiacenti al lago, in quanto si credeva che fossero in comunicazione con lo Stige, uno dei fiumi infernali. Nello scenario già oscuro ed inquietante del territorio circostante il lago, si aggiungeva l’esistenza di un antico “oracolo dei morti”, molto popolare tra i pellegrini che percorrevano le strade della Campania settentrionale, per interrogare la vicinissima Sibilla Cumana. Si racconta che presso questo oracolo venissero officiati rituali di sangue, organizzati da sacerdoti specializzati, per lo più in cerca di facili guadagni che millantavano di essere in contatto con le divinità infernali. Lo stesso Annibale, il condottiero cartaginese acerrimo nemico di Roma, si sarebbe recato nel 214 a.C. presso le sponde del lago con la scusa di celebrare sacrifici, anche se il suo reale scopo era quello di attaccare Puteoli, l’antica Pozzuoli, già avamposto delle truppe romane. La divinità di riferimento era per lo più Persefone, a cui l’Averno era consacrato, anche se un’iscrizione oracolare incisa su un disco bronzeo, ritrovata nel territorio flegreo e risalente al V secolo a.C., attesterebbe anche un culto ctonio nei confronti di Hera.
Come si è avuto modo di sottolineare nel recente articolo relativo alla Sibilla Cumana, una certa tradizione avrebbe identificato la sede della sacerdotessa con una crypta scavata nel Monte della Ginestra che, in realtà, si snoda come collegamento sotterraneo tra le sponde del lago Averno e quelle del lago Lucrino. La galleria presenta un aspetto rettilineo e misura una lunghezza di circa 200 metri, per una larghezza di circa 3,50 metri ed un’altezza che, inizialmente, si aggirava sui cinque metri. La volta della grotta si presenta “a botte” e risulta interamente scavata nel tufo, mentre sulle pareti sono presenti numerose fenditure, indispensabili per poter contenere le lucerne, in considerazione della completa assenza di filtro dei raggi luminosi. Di alcuni ambienti della galleria non si conosce ancora l’utilizzo, anche se la sua origine, con ragionevole certezza, può essere ricercata nel complesso delle opere militari realizzate da Agrippa a scopo difensivo, durante la già citata guerra civile tra Ottaviano e Pompeo (6).
Nella mitologia greco-romana, il lago d’Averno veniva identificato come l’ingresso degli “inferi”, intendendo detto termine come espressione del sotterraneo “regno dei morti”, governato dal dio Ade (Plutone per i Romani) e dalla dea Persefone (Proserpina per i Romani), legata al culto di Demetra ed ai “misteri eleusini”. Ad un certo punto, parallelamente allo sviluppo del costume socio-culturale, si passò ad identificare il regno dei morti con il suo stesso re, denominandolo appunto “Ade”(7). E’ molto importante sottolineare come il regno dei morti, nell’accezione concettuale del mondo greco-romano, fosse un vero e proprio luogo geografico, nel quale si poteva entrare mediante accessi segreti e conosciuti soltanto da pochissimi mortali privilegiati. Un’altra osservazione significativa da fare riguarda l’aspetto ontologico, cioè che, nella mitologia greco-romana arcaica, il regno delle ombre era precluso ai viventi, ma al suo interno non vi era alcuna distinzione tra anime buone e malvagie. Solo in epoca ellenistica, quando si diffuse anche in Occidente l’influenza dei culti orientali, si andò a delineare la distinzione tra “Tartaro”, ovvero il tenebroso luogo dove per l’eternità si provvedeva a punire le anime dei malvagi, ed i “Campi Elisi” dove, invece, conducevano la propria esistenza, felici e beate, le anime pie e virtuose dei giusti. La topografia del regno degli inferi raggiunse la sua descrizione più completa nell’Eneide del grande Virgilio che, oltre alla distinzione tra il Tartaro ed i Campi Elisi, aggiunse il Vestibolo, una sorta di anticamera popolata da mostri e da demoni vari. Ed, in più, Virgilio introdusse la “città di Dite”, dedicata al re degli inferi, da cui trasse spunto Dante nella “Divina Commedia” per descrivere la città del re dell’inferno, Lucifero (8). Le pene da espiare nel Tartaro o i premi da elargire nei Campi Elisi non erano stabiliti dagli dèi, ma erano pronunciati da tre severi giudici: Minosse, suo fratello Radamanto ed Eaco. Il cane a tre teste Cerbero sorvegliava il luogo dove si emetteva il giudizio, prima che si procedesse ad attraversare il fiume Acheronte, consegnando una moneta fra le mani di Caronte, affinchè i defunti fossero traghettati dalla parte opposta.
Da questa narrazione fantastica, nacque l’usanza di mettere una moneta nelle orbite oculari dei defunti, in modo che avessero la possibilità di pagare il prezzo della morte.
A differenza dell’ambiente greco-romano, gli Orientali si avviarono verso un progressivo, ma marcato, processo di spiritualizzazione dei luoghi infernali. Satana, pur imponendosi come il principale attore delle azioni malvagie, non fu concepito inizialmente come divinità opposta a Dio, ma come una creatura proveniente da Dio stesso, un suo servitore che si trasforma poi nel suo principale antagonista (Satàn, oppositore). Nel contesto ebraico, profondamente influenzato dal dualismo iranico, l’inferno, in origine denominato Sheol (il posto dei morti sotto terra), verrà poi chiamato Hinnom (Gehenna) che era il nome della valle dove, come testimoniano alcuni passi dell’Antico Testamento, si adorava il dio Moloch, rappresentato come un idolo di bronzo contenente una fornace dove venivano gettate le sue vittime, molto spesso bambini e giovani, destinati ad orrendi quanto cruenti rituali sacrificali. Inizia, pertanto, a formarsi l’idea di inferno che si svilupperà in ambiente cristiano, come quel luogo dove i malvagi bruciano, subendo i tormenti di una creatura sommamente malvagia e della sua schiera di demoni. Di carattere, più o meno simile, sarà l’immagine dell’inferno che si andrà progressivamente ad elaborare nella religione islamica.
La teologia cristiana si riallacciò a quella ebraica, intrisa tuttavia di molteplici elementi mutuati dalla cultura ellenistica, delineando l’inferno come un luogo di tormenti, dominato dal fuoco eterno e dalle tenebre, dove la luce divina non poteva essere ammessa. Da questo luogo i dannati, come supplizio aggiuntivo, avrebbero potuto perfino scorgere i santi ed i beati che godono dell’estasi divina in Paradiso, senza però ricavarne alcun sollievo. La corrente teologica moderna ha ammesso con più convinzione che l’inferno non costituisce un vero e proprio luogo di torture, popolato da demoni che perseguitano le anime dannate, ma si identifica con un luogo ideale di definitivo allontanamento dalla vera felicità che solo Dio può dare. A questo proposito osservo che alcuni filosofi antichi come Origene, nonché qualche illustre pensatore moderno come Ugo Urs Von Balthasar, sostenevano l’interessante dottrina dell’apocatastasi (9), secondo la quale, alla fine dei tempi, vi sarebbe stato il ristabilimento dell’ordine cosmico, con il ritorno di tutte le creature nella grazia di Dio, perfino Satana (10). Secondo tale concezione, dichiarata eretica nel Concilio di Costantinopoli nel 553, tuttavia, mai condannata definitivamente dalla Chiesa, l’inferno non sarebbe destinato a durare in eterno, in quanto non potrebbero coesistere due regni per sempre, quello di Dio e quello di Satana, quello del Bene e quello del Male. Per i teologi della Scolastica, in primis per Tommaso d’Aquino, l’inferno si traduce nella definitiva lontananza da Dio. L’anima avrebbe sempre una naturale tensione verso il divino, l’Assoluto e, pertanto, la privazione di questo suo supremo obiettivo la porterebbe in una condizione ontologica di perenne sofferenza. Secondo i dettami della Scolastica non sarebbe imputabile a Dio la dannazione dell’anima, ma ad essa stessa che, rifiutando la via della salvezza, costruita e fondata sul mistero dell’Incarnazione di Gesù, si auto-infliggerebbe il supplizio eterno.
La Divina Commedia di Dante, profondo ammiratore di Virgilio, scelto non a caso come suo accompagnatore, ci fornisce il paradigma più famoso per pensare all’inferno, in considerazione dell’enorme successo letterario del testo. Dante riassume l’intero pensiero classico e cristiano sull’inferno, cercando di narrarne anche la storia e la sua formazione. Possiamo immaginare che la “selva oscura”, da cui ha inizio la sua discesa verso l’inferno, circondi il lago d’Averno, in continuità con la tradizione classica, in particolare con le vicende descritte nell’Eneide. E non si può dimenticare che, a pochi chilometri dal lago d’Averno, sempre nel comune di Pozzuoli, vi è la famosa “Solfatara”, che da sempre ha ispirato la fantasia di artisti e letterati come luogo infestato dalle forze del male. L’inferno di Dante sarebbe costituito da un enorme abisso, scavato da Lucifero/Satana (si tratta di due figure diverse confluite nelle mitologia cristiana) (11) dopo la sua caduta dal Cielo, trovandosi nel sottosuolo delle terre emerse, secondo le conoscenze geografiche del Medioevo. Questo abisso è concepito dal sommo poeta come un luogo sensibile, suddiviso in nove cerchi, ordinati a seconda della gravità delle colpe commesse, fino ad arrivare al mostruoso Lucifero che maciulla direttamente con le sue fauci Giuda, Bruto e Cassio, indicati da Dante in maniera emblematica, perchè esponenti sia del tradimento verso la Chiesa, potere spirituale (Giuda) che verso l’impero, potere temporale (Bruto e Cassio) (12). Dante intravede nella distribuzione delle pene la legge del contrappasso, cioè la giustizia divina, che non può sbagliare, imponendo una pena simmetrica ed opposta al peccato commesso.
I miti classici del lago d’Averno si intrecciano con un racconto nordico, riguardante uno dei più evocati personaggi della tradizione celtica, la fata Morgana, la sorellastra di re Artù, da alcune fonti descritta come perfida, da altre sofferente per una passione non corrisposta. La leggenda narra che Morgana avrebbe per dimora fantastiche costruzioni a forma di torre che sembrerebbero materializzarsi agli occhi di chi assiste al miraggio. Il fenomeno prenderebbe il nome di “effetto Morgana” e si manifesterebbe soprattutto agli uomini di mare che, attratti dalla prospettiva di raggiungere questi fantastici castelli, andrebbero incontro alla deriva. Nel diciannovesimo secolo, in particolare, vi sono state testimonianze letterarie di personaggi che, profondamente suggestionati dall’ambiente del territorio flegreo, hanno giurato di aver assistito a fenomeni riconducibili a quello appena descritto. Tra queste, una delle più conosciute, è quella del marchese Giuseppe Ruffo che, nel corso di una spedizione di caccia, avrebbe giurato che davanti ai suoi occhi, al posto del lago d’Averno, un luogo peraltro da lui ben conosciuto, sarebbero apparsi “prati di fresca verdura , alberi belli e dritti, colline dolcemente chinate” (13). La scienza, al giorno d’oggi, cerca di spiegare il cosiddetto “fenomeno della fata Morgana” come un’illusione conseguente alla sovrapposizione di diversi strati termici che, in determinate condizioni, sarebbero in grado di distorcere l’effetto visivo immediato. E’ innegabile, tuttavia, che il lago d’Averno continui a rappresentare un mistero ed un simbolo affascinante di confronto con il mondo dell’ignoto. La discesa agli inferi, tramite un oscuro specchio lacustre, può essere letta anche dal punto di vista psicologico ed iniziatico, come il viaggio che ognuno di noi deve compiere per conoscere le profondità della propria anima, in modo da poter riemergere con un altro grado di consapevolezza.
Non è necessario compiere voli pindarici per poter inquadrare i poteri di Morgana, il cui termine bretone/celtico è traducibile come “fata delle acque” (14), al pari di quelli attribuiti alle sacerdotesse (vedasi la Sibilla Cumana) o alle ninfe preposte alla celebrazione ed alla custodia dei culti greco-romani. Con molta fantasia possiamo immaginare che la sua influenza si dispieghi anche tra i colori vivaci e cangianti del lago d’ Averno, il fulcro dell’affascinante e misterioso territorio dei Campi Flegrei, uno dei luoghi più esoterici d’Italia e di Europa.
Note:
1 – Cfr. Pierluigi Musto, Lucrino-Averno-Montenuovo, Ed. Il mio libro self publishing, 2015;
2 . Cfr. Libro VI, Eneide;
3 – Cfr. Raffaele Adinolfi, Cuma, il lago d’Averno e la Solfatara di Pozzuoli, Editore Azienda Turismo Pozzuoli, Napoli 1975;
4 – Raimondo Bucher (1912-2008), di origine ungherese, ma naturalizzato italiano, è stato uno dei più grandi pionieri della foto cinematografia subacquea ed aerea;
5 – Nell’Edipo re l’indovino Tiresia predice il tragico destino del sovrano;
6 – Cfr. David Armitage, Guerre civili. Una storia attraverso le idee, traduttore David Scaffei, Editore Donzelli, Roma 2017;
7 – Cfr. Rosalba Panvini/Lavinia Sole (Curatrici), Nel mondo di Ade. Ideologie, spazi e rituali funerari per l’eterno banchetto, Edizioni Sciascia, Caltanissetta-Roma 2019;
8 – Dante segue la stessa denominazione adottata da Virgilio nel libro VI dell’Eneide, per indicare l’ultima parte dell’inferno dal sesto al nono cerchio;
9 – Cfr. Hans Urs von Balthasar, Sperare per tutti- Breve discorso sull’inferno-Apocatastasi, traduttori Luigi e Maria Frattini, Ed. Jaca Book, Milano 2017;
10 – Cfr. Luigi Angelino, La redenzione di Satana I- Apocatastasi, Ed. Cavinato international, Brescia 2019; La redenzione di Satana II, Apostasia, Ed. Cavinato international, Brescia 2021;
11 – Cfr. Luigi Angelino, L’arazzo dell’Apocalisse di Angers, una testimonianza fra Cielo e Terra, Ed. Cavinato international, Brescia 2020;
Dante descrive l’orrenda creatura di Lucifero, immaginata secondo i canoni in voga nel Medioevo, nel XXXIV Canto dell’Inferno;
12 – L’episodio risalirebbe al 1833 e fu trascritto negli “Annali del Regno delle due Sicilie”;
13 – In realtà “fata delle acque” sarebbe una traduzione traslata, perchè il nome “Morgana” deriverebbe dal termine antico “Morcant”, composto da “mor” (mare) e “cant” (circolo, cerchio). Pertanto la traduzione letterale suonerebbe come “cerchio delle acque”.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense ed un master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Con la Cavinato editore international ha pubblicato nel 2017 il romanzo “Le tenebre dell’anima”, nel 2018 la sua versione inglese “The darkness of the soul” e la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”. Nel 2019 ha pubblicato un thriller filosofico-teologico, “La redenzione di Satana I-Apocatastasi” ed una raccolta di saggi/racconti, “Ritratti Mortali” insieme ad una coautrice. Nel 2020 ha pubblicato “L’arazzo dell’apocalisse di Angers” e “Pandemia-il mondo sta cambiando”, nonché il racconto dedicato a sua madre “Anna”; nello stesso anno ha collaborato, con altri autori, al libro auralcrave sulle vicende che hanno ispirato famose pellicole cinematografiche “Il sipario strappato” e all’elaborazione della raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa”. Nei primi mesi del 2021 ha pubblicato con Cavinato “Nel braccio di Orione”, un viaggio attraverso il sistema solare, “La redenzione di Satana II-Apostasia” e “La ricerca del divino” con la CTL di Livorno. Nello stesso anno è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.