“Il ginocchio di Artemide”: uno spettacolo sulla Natura, divina e terribile – Piervittorio Formichetti
Il ginocchio di Artemide (Le génou d’Artemide) è la versione teatrale-cinematografica 1 di La belva, uno dei Dialoghi con Leucò (1947) di Cesare Pavese. Il regista francese Jean-Marie Straub (1933) lo scrisse nel 2007, pochi mesi dopo la morte di sua moglie Danièle Huillet, sposata nel 1959 e sua strettissima collaboratrice, quasi per elaborare il lutto mediante l’arte che contribuiva a unirli. L’esito di questa scelta è apparentemente minimalistico, ma molto suggestivo, denso di significati e di affinità artistico-letterarie con alcune opere di altri autori. Chi scrive ha conosciuto questo breve spettacolo qualche anno fa tramite la nota serie di Rai Tre Fuori orario – Cose (mai) viste, a cura di Enrico Ghezzi, nell’ottobre del 2008 e poi replicato a febbraio del 2009. L’ambientazione naturalistica del dialogo in un bosco (presso Buti in provincia di Pisa), in una piccola radura tra gli alberi, col costante sottofondo sonoro dei richiami degli uccelli e la luce del sole che balugina tra le foglie degli alberi mosse dal vento, si rivela appropriatissima al soggetto. I due attori, Andrea Bacci e Dario Marconcini (voce nota nel doppiaggio), sembrano recitare in modo quasi meccanico, eppure consono ai rispettivi ruoli, all’atmosfera di tempo sospeso e ai contenuti della conversazione.
Questa può ricordare i dialoghi filosofici di Socrate scritti da Platone, ma soprattutto alcuni brani del Così parlò Zarathustra di Friedrich W. Nietzsche, e i dialoghi, poco noti, di Edgar Allan Poe: Conversazione tra Eiros e Charmion, Il colloquio di Monos e Una, e Il potere delle parole 2 , che si svolgono tra personaggi (due per ogni dialogo, come nei Dialoghi con Leucò di Pavese) di un mondo ucronico e distopico dai connotati vaghi, ma in parte ispirato certamente all’antica Grecia: i primi due dialoghi menzionati hanno in apertura una citazione rispettivamente da Euripide e da Sofocle; la località di «Aidenn» sembra unire il nome inglese di Atene, Athens, con qualche toponimo celtico o gaelico; i protagonisti hanno nomi significativi grecizzanti – Monos significa il Solo, Agathos il Benevolo, Eiros somiglia a eros… – e i loro argomenti implicano l’eterna dialettica tra amore e morte. Cesare Pavese ebbe molta familiarità con la letteratura nordamericana (fin dalla sua tesi di laurea, svolta su Walt Whitman); i Dialoghi con Leucò (in uno dei quali, Il fiore, parlano proprio «Eros e Tànatos»), quindi, potrebbero aver tratto ispirazione almeno in parte proprio da quelli di Poe, sebbene la maggior parte della critica, almeno nella seconda metà del ‘900, sembri non averlo mai notato 3 , concentrandosi sul legame con le italiane Operette morali di Giacomo Leopardi, anch’esse in forma di dialogo tra due personaggi simbolici (storici, mitologici o di fantasia).
Anche i due protagonisti dell’opera di Pavese e di Straub, infatti, appartengono alla mitologia greca. Uno è Endimione (Dario Marconcini), che secondo il mito fu addormentato per l’eternità da Artemide, dea della caccia e della natura selvatica (ma secondo altre versioni, da Selene, la Luna) affinché la vecchiaia e la morte non cancellassero mai la sua bellezza; il sonno soprannaturale di Endimione è stato rappresentato, talvolta come allegoria della morte, nella pittura manieristica e barocca da Jacopo Robusti (il Tintoretto), Pier Francesco Mola, Anton van Dyck, Pieter Paul Rubens. L’altro protagonista è un viandante straniero (Andrea Bacci), il cui modo di parlare dà un’impressione di ingenuità: sembra ignaro di ciò che ascolta, ma la sua ignoranza potrebbe essere finta. «La terra è tutta piena di divino e di terribile – gli dice Endimione – Se ti parlo è perché, come viandanti e sconosciuti, anche noi siamo un poco divini»; lo Straniero ricorderà: «Il divino e il terribile corron la terra, e noi andiamo sulle strade. L’hai detto tu stesso», ed Endimione, perciò, lo chiamerà «dio viandante». Lo Straniero di passaggio nel bosco potrebbe quindi essere un dio apparso in forma umana: molto probabilmente Ermes, il dio tutelare dei viaggi 4 .
I loro movimenti corporei sono minimi: Endimione è seduto – su un tronco, un ceppo o una roccia – quasi dando le spalle al pubblico; l’anonimo «dio viandante» di fronte a lui è in piedi, quasi immobile, con la mano destra tocca il tronco di un albero, in una posa che non è quella di un camminatore stanco che si appoggi per riposarsi: potrebbe essere un gesto allusivo, forse alla propria appartenenza ai tempi lunghissimi della foresta più che a quelli brevi della vita umana. I due personaggi nel bosco possono perciò ricordare i Genii degli alberi de Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati, figure misteriose ma benevole che – sia nel romanzo, sia nel film di Ermanno Olmi (1993) – hanno aspetto umano e una uniforme verde scura, ma hanno consistenza eterea e vivono una vita di secoli, come quella degli alberi in cui abitano 5 .
La voce di Endimione, al contrario di quella dello Straniero, ha talvolta accenti rigidi e taglienti, come se esprimesse la ferita subita dalla sua mente dopo lo sconvolgente incontro di cui racconta: quello con la dea Artemide, che non è mai chiamata per nome e non è soltanto la cacciatrice casta di cui, in uno degli Inni omerici (così intitolati perché furono erroneamente attribuiti a Omero), si onorano l’indole indomita e il terrore che incute negli animali selvatici: «Dea della sonora caccia, vergine riverita, che uccide i cervi, saettatrice, sorella di Apollo dalla spada d’oro, [colei] che tra le colline ombrose e le cime ventose, godendo della caccia, tende il suo arco d’oro e scaglia dardi dolorosi. Tremano le vette delle alte montagne, la scura foresta terribilmente risuona del fragore delle belve, si scuote la terra ed il mare pescoso» 6 . L’Artemide di Pavese e di Straub è soprattutto la personificazione umana della Natura vivente, integra e integrale, in tutti i suoi aspetti simultaneamente presenti: è «una magra ragazza» dal viso dolce e insieme sospettoso, selvatico; ha molti nomi mai pronunciati; è la Natura totale, onnicomprensiva, panteistica, dotata di una forza viva (dynamis) presente in ogni sua espressione, dal più fragile elemento vegetale (un fiore, una bacca) all’animale predatore come la lupa (uno degli appellativi di Artemide era Licea, «simile al lupo») o la leonessa; è una potenza immane, capace di essere allo stesso tempo un petalo di fiore e una belva che può divorare un essere umano.
«La vidi che mi guardava con quegli occhi un poco obliqui – ricorda Endimione – Occhi fermi, trasparenti, grandi dentro. Io non lo seppi allora, non lo seppi l’indomani, ma ero già cosa sua. Preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava, della radura, del monte. […] E aggrottava le ciglia come ragazza un po’ selvatica, come avesse capito che mi stupivo. E stendendo la mano mi toccò i capelli. Mi toccò quasi esitando, e le venne un sorriso, un sorriso incredibile, mortale. Io fui per cadere prosternato; pensai tutti i suoi nomi. “Tu non dovrai svegliarti mai”, mi disse, “non dovrai fare un gesto; verrò ancora a trovarti.” […] E non toccavo la sua mano come non si tocca la leonessa, o l’acqua verde dello stagno, o la cosa che è più nostra e portiamo nel cuore. […] Mi guarda. E gli occhi grandi, trasparenti, hanno visto altre cose, e le vedono ancora: sono loro queste cose. In questi occhi c’è la bacca e la belva, c’è l’urlo, la morte, l’impetramento crudele. So il sangue sparso, la carne dilaniata, la terra vorace, la solitudine! Per Lei, la Selvaggia, è solitudine! Per Lei la belva è solitudine!».
L’esperienza di Endimione è una sorta di rapida e reiterata fusione «panica» (e panteistica) con la totalità della Natura, che è immensa, divina solitudine perché, comprendendo tutto in se stessa ed essendo presente in ogni sua forma particolare, nulla e nessuno esiste che le sia pari. Artemide-Natura è essenzialmente ambivalente: accarezza e dilania, crea e distrugge in modo apparentemente cieco al destino umano. Utilizzando le due celebri categorie di Nietzsche, si può affermare che la mente di Endimione è stata immersa in tutti gli aspetti sia «apollinei» sia «dionisiaci» della Natura. Dopo l’antica Grecia e prima di Nietzsche, l’ambivalenza della Natura è stata espressa soprattutto dal Romanticismo, ad esempio da Johann Wolfgang Goethe: al protagonista de I dolori del giovane Werther (1774) – per molti aspetti un alter ego dell’Autore – i monti coperti di alberi, il fiume, il fruscio dei canneti, le nuvole, il vento, gli uccelli del bosco, gli sciami di moscerini, lo scarabeo ronzante, il muschio, le ginestre e l’ultimo raggio di sole «rivelavano l’intima, ardente, sacra vita della natura […] mi sentivo come divinizzato in quella straripante pienezza, mentre le splendide forme del mondo infinito pulsavano vivificanti nella mia anima»; allo stesso tempo – scrive nella stessa lettera del 18 agosto all’amico Wilhelm – «quello che mi dilania il cuore è la forza distruttrice celata nel grembo della natura, la quale nulla ha creato che non distrugga ciò che le sta accanto, e se stessa. […] Cielo e terra, e il turbinio delle loro forze intorno a me. Altro non vedo che un mostro, il quale eternamente divora, eternamente rumina» 7 .
In Italia, una variazione sullo stesso tema si trova appunto in una delle Operette morali di Giacomo Leopardi, il Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), nel quale l’inquieto viaggiatore, addentratosi «per l’interiore dell’Affrica e passando sotto la linea equinoziale [l’Equatore] in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno», s’imbatte in una epifania della Natura personificata in forma di donna colossale: «Vide da lontano un busto grandissimo, che da principio immaginò doveva essere di pietra […]. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta, ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e capelli nerissimi, la quale guardavalo fissamente, e […] all’ultimo gli disse: […] “Io sono quella che tu fuggi.”».
La conoscenza di tutta la Natura, che Endimione ha acquisito in modo pressoché istantaneo, è così ampia e dettagliata da fargli sfiorare la follia. Egli prova contemporaneamente sgomento e fascinazione, paura e amore per Artemide; quel Tutto adorabile e terribile che è la dea Natura lo attrae tanto da desiderare di farne parte anche attraverso l’annientamento di sé: «Le ho chiesto che sorridesse un’altra volta; e questa volta esserle sangue sparso innanzi; essere carne nella bocca del suo cane». Ossia, di rivivere il tremendo destino di Atteone, il cacciatore che, colpevole suo malgrado di aver vista Artemide nuda in un ruscello nella foresta, fu da lei trasformato in cervo e fatto sbranare dai suoi stessi cani: «Il pastore lacerato dai cani, l’indiscreto, l’uomo-cervo», così lo ricorda il Viandante, senza mai nominarlo, come se ne conoscesse la vicenda vagamente, per sentito dire; o piuttosto, esprimendosi apposta in modo allusivo per non rievocare esplicitamente il sacrilegio.
Come Jean-Marie Straub, anche il pittore rinascimentale Girolamo Francesco Mazzola, noto come Parmigianino (1503-1540), citò il mito di Atteone poco dopo un lutto: la morte a pochi mesi di età del figlio primogenito del conte Galeazzo Sanvitale di Fontanellato; in questa rocca-residenza nel Parmense, sulla volta di una piccola stanza senza finestre (forse il bagno della contessa), nel 1524 il pittore dipinse un ciclo di affreschi a tema mitologico, tra i quali domina la storia di Atteone 8 . Rincorrendo una ninfa egli si allontana dai compagni cacciatori ed entra nella foresta dalla quale, dopo l’incontro fatale con la dea Diana (Artemide), non tornerà mai; nella scena iniziale è visibile il corno da caccia che i compagni di Atteone, impotenti di fronte alla sua morte, suoneranno in sua memoria. Forse il Parmigianino volle rappresentare così il tema della ananke, la fatalità inesorabile, che aveva colpito la famiglia Sanvitale. Al centro del soffitto, che riproduce un cielo sereno con qualche tenue nuvola bianca, vi è un tondo simile alla cornice di uno specchio con scritto in circolo l’inquietante ammonimento: Respice finem, «Osserva la fine». Ciò rimanderebbe alla fine della vicenda mitica e alla sua conclusione morale: errori come quello di Atteone, la violazione avventata (benché involontaria) di certi misteri del Divino e di certi confini della Natura, possono comportare, in un modo o in un altro, la fine di chi vi cade; tuttavia il pittore stesso vi cadde, abbandonando la sua arte per addentrarsi in una forma di conoscenza misteriosa e rischiosa, l’alchimia, fino a esserne ossessionato e impazzire (il noto critico d’arte Roberto Longhi, rifacendosi alle famose Vite degli artisti di Giorgio Vasari, scrisse: «lascia la pittura per farsi alchimista e congelar mercurio, e va giù affatto di testa» 9 ).
L’Endimione di Pavese e di Straub, dunque, scelto da Artemide-Natura, si trova automaticamente separato dal resto del genere umano: «Capii che mai più sarei vissuto tra gli uomini. Non ero più uno di loro: attendevo la notte». La sua solitudine è il prezzo della partecipazione a un’esperienza e a una conoscenza molto più ampie e profonde di quelle concesse ai comuni mortali: egli non potrà mai più dormire un sonno umano normale, riposante, e allo stesso tempo non potrà mai svegliarsi dal sonno-sogno soprannaturale in cui la Dea l’ha immerso, nel quale gli dà di sapere, più e meglio di come avverrebbe nel più lucido degli stati di veglia, «infinite cose della tua terra e del tuo cielo. E parole, ricordi, giorni andati che non saprai mai, giorni futuri, certezze. E un’altra terra e un altro cielo, che non ti è dato possedere». Per Endimione – ma in un certo senso anche per lo spettatore – i confini tra veglia e sonno, tra sonno e sogno, tra lucidità e follia, tra il mondo naturale e quello numinoso non sono più netti come si potrebbe credere, e ognuna di queste realtà si confonde in modo «panico» con le altre.
Endimione è perciò fatalmente privilegiato da Artemide-Natura: può (e deve) contemplarla e ascoltarla, può conoscerne simultaneamente gli innumerevoli volti, dal più amorevole al più terrifico; eppure, essendo un mortale, non può osare nessun gesto corporeo di amore verso la dea eternamente vergine. Può (e deve) soltanto, come la prima volta, salire ogni notte sul monte Latmo coperto di faggi, e nel buio, o sotto il velo di luce azzurra della Luna, attendere che l’intoccabile «Signora dai molti nomi» si renda visibile e gli parli ancora: «La sua dolcezza è come l’alba. È terra e cielo rivelati; ed è divina. Ma per altri, per le cose e le belve, Lei, la Selvaggia, ha un riso breve, un comando che annienta; e nessuno le ha mai toccato il ginocchio».
Note:
1. – Visibile in internet al link https://www.youtube.com/watch?v=Ke0yDGcP928.
2. – I primi due sono inclusi in Edgar Allan Poe, Racconti dell’incubo, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1956; tutti e tre sono inclusi in E. A. Poe, Racconti di fantascienza, Roma, Newton & Compton, 1995.
3. – Almeno nella bibliografia e in alcune recensioni italiane e straniere dal 1947 al 1989 riprodotte in Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi Tascabili, 1999, pp. 190-222, Edgar Allan Poe non è mai citato.
4. – Pavese stesso, in una sua tabella (datata 12 aprile 1946 e aggiornata in seguito) con i personaggi divini e umani dei Dialoghi, avrebbe scritto che il dio viandante è «Ermete» (Dialoghi con Leucò, ed. cit., p. 180; tuttavia nella tabella, riprodotta a p. 176, «Ermete» non c’è: può trattarsi di una svista editoriale?).
5. – Vedi i saggi di Riccardo Paradisi e di Piervittorio Formichetti in “Antarès – Prospettive antimoderne” n. 13 / 2018, Dino Buzzati. Nostro fantastico quotidiano.
6. – Citato in Anthony S. Mercatante, Dizionario universale dei miti e delle leggende, Roma, Newton & Compton, 1988, p. 87.
7. – Citato in S. Guglielmino, H. Grosser, Letteratura del Sette–Ottocento, a cura di Novella Gazich, Milano, Principato, 1997, pp. 922-933.
8. – Vedi ad es. www.nelparmense.biz/fontanellato/comune/pterra/parmig/index.htm; Andrea Polcri, Marcello Giappichelli, Stefano Fusi, Storia e analisi storica, vol. 1-A, Firenze, Giunti Scuola, 1998, pp. 67-68, che rimanda a Fritz Saxl, La storia delle immagini, Roma-Bari, Laterza, 1990, e a Jean Seznec, La sopravvivenza degli antichi dèi, Torino, Bollati-Boringhieri, 1990.
9. – Roberto Longhi, Ricordo dei Manieristi, in “L’Approdo”, gennaio-marzo 1953, pp. 55-59, citato in Alessandro Conti, L’evoluzione dell’artista, in Storia dell’arte italiana, vol. II, Torino, Einaudi, 1979, p. 119.
Piervittorio Formichetti