Il furor bellicus: retaggio della seconda funzione duméziliana nelle religioni indoeuropee – Giovanna Bruno
L’ Iliade, poema epico tradizionalmente attribuito a Omero, come è noto, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni dell’ultimo anno di guerra che riflette la società aristocratica e guerriera degli Achei, un popolo di origine indoeuropea che aveva occupato la Grecia nel XVI secolo a.C. e assieme all’Odissea, costituisce una sorta di “enciclopedia tribale” dei Greci, presentando aspetti delle epoche remote, tra cui il concetto di ira (μῆνις), che è il tema centrale dell’Iliade (ricordiamo che il primo verso “Canta, oh dea, dell’ira del pelide Achille” costituisce il principio del proemio, che ha proprio la funzione di specificare l’argomento trattato nell’opera) e una nozione presente anche nelle altre lingue indoeuropee. Il “rituale” del furor/μανíα, infatti , era conosciuto anche tra i popoli tra i Celti e i Germani: il furor gallicus dei Celti era diverso da quello teutonicus dei Germani, poiché i primi si propiziavano le divinità desiderando gloria ed ammirazione, mentre i secondi sperimentavano il furor teutonicus attraverso il contatto diretto con il dio, una sorta di possessione. Anche Achille, come abbiamo visto, manifesta una μανíα, pur se scatenata da origini diverse, legata alla gloria; tuttavia, un elemento comune in queste esperienze è la parziale cecità, che rappresenta l’andare oltre le apparenze e filtrare il mondo attraverso la propria interiorità; nonostante i Romani vedessero il furor come un elemento negativo, erano comunque consapevoli di tale pratica e questo suggerisce che, anche se le fonti disponibili non menzionano esplicitamente la stessa, in un’epoca remota potrebbero essersi confrontati con tale realtà. Si tenga sempre presente che il concetto di “rituale” comprende azioni compiute da un individuo all’interno di un gruppo sociale, a cui si attribuisce successivamente un significato: atto performativo che, dunque, oscilla tra la dimensione religiosa e quella magica, e l’offerta e il sacrificio sono strumenti utili per la comunicazione simbolica e la legittimazione del rituale.
Consideriamo, ora, il “furor berserkicus” (e, quindi, teutonicus): legato alla magia odinica, supportato da testimonianze storiche, come un frammento poetico riguardante la battaglia dell’Hafrsfjord1 nel 872 d.C, che fa parte della raccolta Haraldskvæði, nel quale si menzionano i berserkir, descritti come guerrieri-belva che combattevano per il re Harald Bella Chioma e il re anglo-sassone Kiotvi il Ricco. Per avere maggior chiarezza circa l’etimologia dei termini “berserkr” e “ulfheðnar” (pellicce di lupo) si farà riferimento all’opera di Vincent Samson “Les Berserkir. Les guerriers-fauves dans la Scandinavie ancienne, de l’Âge de Vendel aux Vikings (viexie siècle)”2: l’interpretazione prevalente del termine “berserkr” è “camicia d’orso“, mentre “ulfheðnar” si riferisce a guerrieri che indossano pellicce di lupo; entrambi i gruppi di guerrieri sono, dunque, associati a un comportamento animalesco durante il combattimento, suggerendo una trasformazione psico-fisica in animali: per quanto concerne i berserkir, essi sembra fossero guerrieri nobili al servizio del re, e la loro posizione era spesso ereditaria. Samson sottolinea anche il loro legame con Oðin, il dio che sceglie il destino dei guerrieri in battaglia, accogliendo i morti in Valhöll. In questo contesto, i berserkir possono essere visti come una rappresentazione terrena degli “einerjar”, i guerrieri scelti da Oðin3. Ciò non fa altro che confermare che tali guerrieri vichinghi caratterizzati danno vita ad una furia bellica estrema spesso associata a pratiche rituali e a una sorta di possessione divina da parte di Óðin: sempre nel testo di V. Samson viene descritto il “canto sotto lo scudo” (ómi)4, utilizzato per intimidire i nemici durante una battaglia, azione chiamata barditus da Tacito5, un canto che accende il coraggio dei guerrieri; altre azioni sono legate al consumo di carne cruda e sangue, e perciò essi noti per comportamenti sanguinari; ma dalle fonti risulta che, durante il rituale che si svolgeva nei dodici giorni di Yuletide, dovessero anche dar prova della loro apparente invulnerabilità a ferite e fuoco, che si ritiene sia legata a stati di trance estatica; ciò per poter restare o entrare nella schiera dei guerrieri-belva. Inoltre, il concetto di metamorfosi, associando i berserkir a poteri animali e a una forza sovrumana, in verità, lo si può confrontare con altre tradizioni culturali, come quella ellenica e celtica, dove si osservano similitudini nel comportamento guerriero e nelle trasformazioni, pratiche rituali in diverse culture, suggerendo che il furor bellicus possa manifestarsi in modi analoghi in contesti diversi, sottolineando l’importanza di questi elementi nella comprensione della guerra e della spiritualità nei popoli antichi. Il tema della metamorfosi si lega all’esternazione della violenza dei guerrieri-belva tramite i versi animali non relativo alla trasformazione fisica vera e propria, ma che comunque si traduce anche in velocità; il termine hamrammr6 nei racconti islandesi non è quasi mai ai berserkir, ma spesso serve per rappresentare il concetto di anima “mobile”7 ed è talvolta sostituito dall’espressione eigi einhamr, cioè non una sola forma. Per citare un esempio, ne La Saga di Hrólf Kraki , il campione del re Hrólf, Böðvarr, non si accontenta di andare a combattere sotto l’apparenza di orso, ma possiede la facoltà di sdoppiarsi: nel momento stesso in cui scende sul campo di battaglia sotto forma di animale, lascia il rivestimento umano riposare nel palazzo del sovrano8.
L’epopea indiana ha più volte utilizzato il teologema che invita il guerriero a desumere da una o più specie animali le qualità che i suoi mandanti si aspettano da lui, innanzitutto forza e velocità. In uno degli innumerevoli racconti del terzo canto del Mahābhārata, Brahmā9 per affrontare l’uomo-demone a dieci teste Rāvana, invia Viṣnu ad incarnarsi in Rāma, poi invita Indra e gli altri dèi a generare figli eroici unendosi non con le donne, bensì con orse, con femmine di scimmie; figli che dovevano possedere forza e capacità di trasformarsi in ogni forma a piacimento! Due aspetti che anche i berserkir mostrano e dalla descrizione appare chiaro che si manifestano, ancora una volta, durante il combattimento10. L’indoiranico, quindi, è un importante ramo delle lingue indoeuropee, soprattutto per quanto riguarda la lingua sanscrita che rappresenta una delle sue forme più antiche e classiche della cultura indiana: i popoli indoiranici, come si saprà, originariamente presenti a Babilonia e in Medio Oriente, svilupparono religioni distinte, con pantheon divini complementari. Tra le divinità indiane spiccano Indra, Varuna e gli Ashvin, ciascuna con ruoli specifici e simbolismi legati alla guerra, alla regalità e alla natura:
- Indra, divinità solare e bellica, impera sui fenomeni pluviali e sugli aliti zefirei. Il suo destriero celeste è l’elefante bianco Airavata, il suo auriga è Matali, il suo fulgido dardo prediletto è Vajra (la saetta). Indra è altresì venerato con appellativi quali Maghavan, Marutvan, Mayin, Meghavahana, Satakratu, Sayoni, Uluka, fra gli altri. La sua immagine è intrinsecamente connessa al ruolo sovrano, essendo il monarca dell’Olimpo e del dio cosmo11.
- Varuna, del firmamento celeste e successivamente, secondo le narrazioni mitologiche più tarde, divinità delle acque. Nell’arte vedica, è ritratto cavalcante una creatura marina, il makara, mentre brandisce un laccio con cui intrappola i pescatori. Durante l’era vedica risulta essere il dio che preserva l’armonia cosmica, associandosi alla dignità regale e al valore dei combattenti12;
- Ashvin (Possessori di cavalli), dèi gemelli figli di Dyaus (Cielo) e fratelli-amanti di Ushas; invocati insieme con gli appellativi di Dashra (i Miracolosi) e di Nāsatya (i Veritieri). Essi sono la per- sonificazione del Giorno e della Notte e si attribuiscono loro gesta che contengono riferimenti lunari; sotto questi aspetti figurano come figli di Surya e di Asvini13; dotati di sapienza, d’intelligenza e di generosità oltreché di immensa potenza, come i Dioscuri greci (Δıòς κουροı= figli di Zeus) adempiono a funzioni salvatrici nei riguardi dei mortali; mentre il dio iranico è Ahura Mazdah14.
I Veda, i testi sacri indiani, risultano fondamentali per comprendere la religione indiana, poiché gli inni sono dedicati a ciascuna divinità descrivendone le caratteristiche e le funzioni, come accade per Indra che rappresenta la forza e il potere ed è descritto come un dio guerriero, spesso associato a tempeste e fertilità, e la sua figura è centrale nei rituali, come l’aśvamedha, un sacrificio equestre riservato ai guerrieri Kshatriya. La società indiana era strutturata in caste (Varna), con i Brahmani come sacerdoti, i Kshatriya come guerrieri, i Vaishya come agricoltori e commercianti, e gli Shudra come servitori. I Kshatriya, inizialmente nobili guerrieri, evolsero nel tempo, trasformati in Rajput, influenzando la storia indiana. Indra è celebrato in circa 250 inni del Ṛ g Veda, rappresentando l’eroe e il combattente per eccellenza. La sua relazione con i Marut, le divinità delle tempeste, evidenzia l’idea di rinnovamento e distruzione del vecchio ordine. La figura di Indra incarna il potere e il valore, mantenendo una connessione profonda con le tradizioni guerriere e culturali dell’India.
Ed ecco che si fa necessaria l’analisi del ruolo dei berserkir come guardie reali nella società scandinava, evidenziando la loro connessione con la figura di Oðinn (come in precedenza detto) e il culto religioso ad esso connesso. I berserkir, allora. sono guerrieri di élite, guardie reale in numero simbolico di dodici, in riferimento ai sacerdoti di Oðinn. Le saghe raccontano delle loro incursioni marittime e delle celebrazioni religiose legate al culto di Oðinn15.Con l’avvento del Cristianesimo, a partire dal XII secolo, la figura dei berserkir iniziò a essere percepita come leggendaria e maligna, trasformandosi in mercenari e perdendo la loro posizione privilegiata. La metamorfosi da guerrieri eroici a figure di paura è accompagnata da una reinterpretazione delle festività, come quelle di jól, assimilate al Natale cristiano16; da qui le leggende celtiche di metamorfosi, che suggeriscono il tentativo dei cristiani di integrare antiche superstizioni13. In questo contesto, emergono elementi di culto legati alla fertilità e alla guerra, mostrando come le tradizioni pagane siano state reinterpretate nel nuovo paradigma cristiano.
Ordunque, la concezione della follia nell’antichità, in particolare in Omero ma comunque relativamente alle diverse civiltà indoeuropee sino al ricordo di tale pratica nelle leggende circa i Licantropi, la follia è vista come il risultato di forze irrazionali, le “passioni”, che l’individuo non riesce a controllare: tali passioni sono legate al concetto di anima, che in Platone17 diventa un centro coerente di pensiero e azione, distinta dal corpo; in Omero, invece, l’anima è meno definita e la follia è considerata uno stato momentaneo, non una malattia permanente. Egli, infatti, usa termini come θυμός, νόος e φρήν per descrivere diverse parti dell’esperienza umana, ma non vi è una vera integrazione tra queste istanze18. La follia può manifestarsi come una frenesia improvvisa, spesso inviata da divinità, come Ares, il dio della guerra, che rappresenta gli aspetti più violenti della battaglia; di ciò ce ne dà conferma il ruolo della società spartana nella guerra e nelle pratiche educative, suggerendo che la militarizzazione fosse connessa a riti di iniziazione19. Nel capitolo quarto di “La religion romaine archaïque“20, G. Dumézil analizza Marte, la divinità romana della guerra, confrontandola con Indra, la divinità indiana. Entrambi sono associati a guerrieri e simboli di potenza, ma con ruoli diversi: Indra controlla vento e pioggia, mentre Marte è legato principalmente al combattimento. Dumézil evidenzia affinità tra i nomi e le funzioni di Marte e i Marut indiani, suggerendo una connessione indoeuropea. Dumézil sottolinea anche l’importanza del numero dodici nei rituali legati a Marte, come i dodici scudi sacri e le lance, simili a pratiche di altri popoli indoeuropei. Marte è associato a animali sacri come il lupo e il cavallo, simboli di guerra. Il “furor” marziale è distinto da quello di Odino, con Marte che rappresenta una potenza più controllata. Il sacrarium Martis custodisce oggetti sacri e riti, e Marte è centrale nelle celebrazioni come i Lupercalia. Le festività evidenziano il legame tra guerra e agricoltura, con sacrifici rituali, tra cui quello del cavallo, che simboleggia forza e fertilità. La cerimonia dell’Equus October, con il sacrificio del cavallo, riflette la connessione tra guerra e abbondanza. Dumézil conclude che, nonostante le differenze, i Romani condividevano una comprensione del furor bellicus, simile ma distinta da quella dei popoli germanici21. Esistono diverse tradizioni delle popolazioni euroasiatiche antiche, grazie alle quali si può mettere in luce il fatto che il furor bellicus e la trasformazione in animale non sempre abbiano una connotazione demoniaca: una metamorfosi vista come un fenomeno spirituale, legato al mondo astrale, piuttosto che fisico, motivo per cui i vescovi cristiani la consideravano fantasia. Si fa riferimento a culti sciamanici, prevalentemente maschili, associati alla fertilità e alle battaglie rituali, paralleli ai culti femminili legati alla “Bona Dea”22. L’idea di un “esercito furioso” di anime, allora, che combattono per i raccolti è presente in varie tradizioni; la possessione divina permette di affrontare spiriti maligni, mentre alcune tradizioni latine accennano a combattimenti in spirito. Eppure, l’avanzare del razionalismo e dei regimi totalitari ha contribuito alla scomparsa di queste credenze, relegando gli estatici a un ricordo lontano, soffocato dal folclore e dalla superstizione.
Appendice
L’evoluzione del ruolo del Berserk nella cultura pop: Vinland saga, serie manga di Y. Makoto
Nel manga del 2005 (attualmente ancora in corso di pubblicazione) dal titolo “Vinland Saga” (scritto e disegnato da Makoto Yukimura ed edito da StarComics, incentrato sulle vicende dell’Europa settentrionale dell’XI secolo e, in particolare, avente come protagonisti i nostri vichinghi) viene detto che la furia dei berserkir deriva da un particolare tipo di fungo allucinogeno che inibisce i sensi e abbassa drasticamente la soglia del dolore, chiamati appunto “funghi del berserker”. La questione dell’uso di funghi allucinogeni da parte dei berserkir è stata oggetto di dibattito tra gli studiosi; alcuni, come Samuel L. Ödman23, hanno ipotizzato che il furore dei berserkir potesse essere effettivamente collegato all’utilizzo di un fungo, l’amanita muscaria, noto per le sue proprietà psicoattive: conosciuta anche come ovolo malefico, è un fungo velenoso e psicoattivo, facilmente riconoscibile per il suo cappello rosso brillante con macchie bianche. È uno dei funghi più appariscenti e noti nei boschi di conifere e latifoglie. Le sue principali caratteristiche includono un cappello di colore rosso acceso, con verruche bianche o gialle, che può raggiungere un diametro di 20 cm; lamelle bianche, fitte e libere dal gambo; un gambo bianco, cilindrico e bulboso alla base, dotato di un anello bianco nella parte superiore; e una carne bianca, con un odore leggero e un sapore dolciastro. L’Amanita muscaria cresce principalmente in estate e autunno, spesso in simbiosi con alberi come pini e betulle. Questo fungo è noto per i suoi effetti allucinogeni e tossici, poiché il consumo può causare sintomi come nausea, vomito, allucinazioni e, in casi gravi, convulsioni. È stato utilizzato in vari rituali magico-religiosi in diverse culture. Gli effetti possono includere allucinazioni visive e uditive, alterazione della percezione del tempo e dello spazio, euforia e cambiamenti dell’umore, confusione mentale e sensazioni fisiche come vertigini e sudorazione. La durata degli effetti può variare, iniziando entro 30 minuti a 2 ore dall’ingestione e durando diverse ore, a seconda della quantità consumata e della sensibilità individuale24.
Tuttavia, il filologo e storico medievista Vincent Samson ha espresso scetticismo circa siffatta teoria, sostenendo che la furia dei berserkir fosse più probabilmente il risultato di una profonda convinzione religiosa (ergo una possessione divina di cui prima, seguita ad una invocazione per il beneficio di un aiuto di Odino) e che potesse essere scatenata senza l’ausilio di sostanze chimiche. Cionondimeno, la pratica di utilizzare piante e funghi per entrare in trance estatica, durante cui il guerriero esce fuori di sé e diventato altro da sé, richiamando l’aspetto animalesco (fra cui, rammentiamo, “vestiti d’orso” o “vestiti di lupo= úlfeðnar“) non è inverosimilmente legata ai berserkir, poiché vi sono alcune attestazioni di culture altre che menzionano un tale esercizio (possiamo riferirci, per esempio, alla Pizia greca25); comunque, la questione rimane aperta e senza una risposta definitiva, poiché le fonti storiche non forniscono una conferma diretta dell’uso di allucinogeni da parte dei berserkir. C’è da dire, inoltre, che va sempre considerato lo sfondo storico: la serie, infatti, è ambientata in un periodo in cui la cristianizzazione è ormai radicato sul suolo nordico! Per cui, in netto contrasto con le narrazioni “classiche” delle serie tv sui vichinghi (quali “Vikings” – serie televisiva canadese-irlandese del 2013 che acconta in chiave romanzata le avventure del guerriero vichingo Ragnarr Loðbrók – o “The Last Kingdom” – serie televisiva britannica del 2015, basata sulla serie di romanzi Le storie dei re sassoni scritta da Bernard Cornwell ambientata nel IX secolo, che segue le vicende di Uhtred di Bebbanburg, un nobile sassone rapito e cresciuto dai vichinghi) ‘Vinland Saga’ si distingue per la sua rappresentazione del conflitto e della violenza come elementi non glorificati come strumenti per il conseguimento di ideali elevati o fini politici, ma sono piuttosto esposti in una luce più cruda e realistica; conseguentemente a ciò, la figura del Berserk risultata essere relegata non più alla funzione del guerriero Reale (come accade per le serie succitate), bensì diventa un mercenario.
In virtù di un destino ineluttabile, dunque, Thorfinn evoca l’essenza del Berserk soltanto alla fine della seconda stagione. In un momento di estrema necessità, dovendo imporre la propria persona, si trasforma in una figura imponente, la cui statura massiccia e l’abbandono temporaneo della ragione sono il preludio di una furia incontenibile: il Berserkangr( come accade per Ivar Senz’ossa sul finire della quinta stagione di Vikings; gli occhi, infuocati di un blu elettrico non sono altro che lo specchio di un’anima sotto l’egida di Odin, al quale l’eroe implora ardimento).
Nella sua tessitura narrativa, infatti, la serie dipinge la guerra non come un’epopea di eroismo, ma come un abisso di disperazione e disonore, un inferno eterno dove non vi è traccia di paradiso. Thorfinn, il cuore pulsante della saga, non sogna il Valhalla come una dimora celestiale, bensì come un teatro di morte incessante. La trama si snoda attraverso il contrasto tra l’etica bellica e i dogmi cristiani, intrisi di amore e pacifismo; il confronto con il cristianesimo, con il suo messaggio di amore universale, fa emergere la brutalità e la schiavitù delle guerre di conquista. Quindi, il Berserk è costretto a uno scontro di valori morali, proclamando che il vero guerriero è colui che rinuncia alla violenza; da qui è possibile dedurre che l’assimilazione dei principi cristiani e l’esempio paterno inducono in Thorfinn una metamorfosi profonda, spingendolo a mettere in discussione il suo passato tenebroso, segnato da violenza e soprusi, che si allontana di molto dalla figura del berserk pre-cristianesimo.
NOTE:
1Snorri Sturluson, Heimskringla: le saghe dei re di Norvegia, F. Sangriso (a cura di), Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2013, cap.I, p.p. 54 e sg.
2I Berserkir. I guerrieri-belve nella Scandinavia antica, dall’età di Vendel ai Vichinghi (VI-XI secolo); Vincent Samson, Settimo Sigillo, 2016, Roma, cap. 2, p.p. 81-91 [ed. or. Vincent Samson, Les Berserkir. Les guerriers-fauves dans la Scandinavie ancienne,
de l’Ȃge de Vendel aux Vikings (vie-xie siècle 2011)]
3 Ivi, p.p. 165-175.
4Ivi, p.p. 181-182
5Cornelio Tacito, De origine et situ Germanorum III C. Giussani trad. a cura di, Einaudi, Trento 1968.
6The berserker in Old Norse and Icelandic literature, G. Been, University of Cambridge 1999
7G. C. Isnardi, “I miti nordici”, Longanesi, Trebaseleghe 2024 [prima ed. 1999], p.p. 358-360.
8Re Hrolf e i suoi campioni” incluso in Eirik il Rosso: e Altre Saghe Islandesi, Gwyn Jones (1961), Oxford University Press, Oxford.
9C. Rajagopalachari, Mah¯abh¯arata, Marzio Tosello (traduzione a cura di), Milano, Mondadori, 1995
10S. Grammaticus, Gesta Danorum, cap 11, L. Koch, A. M. Cipolla (a cura di), Einaudi, Roma 1993
11 A. Brelich , Introduzione alla storia delle religioni, p.p. 194-195, Ed. Ateneo, Roma 1965.
12 Ivi, p. 196-197.
13 Ivi, p. 197-199.
14V. Samson,I Berserkir. I guerrieri-belve nella Scandinavia antica, dall’età di Vendel ai Vichinghi (VI-XI secolo), Settimo Sigillo,2016, Roma, p.p. 236-348 [ed. or. Vincent Samson, Les Berserkir. Les guerriers-fauves dans la Scandinavie ancienne, de l’Ȃge de Vendel aux Vikings (vie-xie siècle 2011)]
15De Fèlice Ph., Le droghe degli déi: veleni sacri, estasi divine; cap. IV, p. 289, ECIG, Genova 1990.
16G. Blasi, Esseri e animali leggendari. Licantropo e Megalodonte p.p. 31-35, Goware ed., Firenze 2017.
17Platone, Fedone, F. Trabattoni (a cura di), S. Martinelli Tempesta (traduzione di), Einaudi, Torino 2011.
18 Hom., Il. III, Guido Paduano (traduzione a cura di), Einaudi, Bologna 1997.
19G. Casalino, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità ,Edizioni Mediterranee, Roma 2001, p.p 47-60
20G. Dumèzil,La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà della vita religiosa romana., F. Jesi (a cura di),Bur, Milano 2001, cap. quarto, p. 194
21G. Dumezil, La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà della vita religiosa romana, p.p 189-190, p.p. 200-203. F. Jesi (a cura di) BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 2001
22Vergilius M., Eneide IV, 379-415, L. Canali (trad. a cura di), O. Mondadori, Milano 2014.
23 Samorini Giorgio, Funghi allucinogeni. Studi etnomicologici, Telesterion, Vicenza 2001
24 https://www.coltivazionebiologica.it/amanita-muscaria/#Contenuto-e-tossicita
25 La Pizia, la sacerdotessa dell’oracolo di Delfi, era famosa per i suoi responsi profetici e, secondo la tradizione, sedeva su un tripode posto sopra una fessura nel terreno da cui fuoriuscivano vapori, i quali erano ritenuti emanazioni divine che la Pizia inalava, entrando in uno stato di trance che le permetteva di comunicare con il dio Apollo: si credeva che questi vapori provenissero dall’Omphalos, una pietra sacra considerata l’ombelico del mondo. In questo stato alterato, la Pizia pronunciava parole spesso enigmatiche che i sacerdoti interpretavano per i supplici, anche se la scienza moderna ha cercato di spiegare questo fenomeno ipotizzando che i vapori potessero contenere gas come l’etilene, che ha effetti allucinogeni; non esiste, però, una conferma definitiva su quale fosse la composizione esatta dei vapori.
Giovanna Bruno,
(Marcianise) docente di Lettere laureata in Filologia classica presso l’Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli” nel 2018 con una tesi in Storia delle Religioni.