Il corpo e il sangue – Luigi Angelino
Quando si fa riferimento all’espressione “il corpo e il sangue”, ci viene in mente immediatamente l’eucaristia, uno dei sette sacramenti della Chiesa Cattolica. Come è ben noto, la dottrina cristiana mutua e rielabora numerosi elementi della cultura classica ed, in particolare, per quanto riguarda l’eucaristia, rievoca alcuni rituali degli antichi culti misterici, adattandoli alle esigenze della nuova religione. In questa trattazione, cercheremo di fare chiarezza sulla continuità della tradizione relativa alla simbologia del “corpo e del sangue”, partendo proprio dall’episodio della presunta istituzione del sacramento dell’eucaristia da parte di Gesù di Nazaret. Il primo giorno del triduo pasquale, il cosiddetto “giovedì santo” è ricordato come il momento dell’istituzione del memoriale eucaristico. Tuttavia, in merito agli effettivi eventi che culminarono in quella che è comunemente ricordata come “l’ultima cena”, ancora sono aperte tante questioni di difficile interpretazione testuale e storica, a parte la valenza religiosa o meno della dinamica dei fatti. Si trattò davvero di una cena pasquale oppure fu soltanto un pasto di commiato dagli apostoli, come ritiene oggi la maggior parte degli studiosi biblici ed extra-biblici. Joseph Ratzinger, uno dei più grandi teologi dell’età contemporanea, nella sua trilogia su Gesù di Nazaret (1), elaborata in qualità di esegeta e non come papa, nonché considerata un capolavoro di chiarezza di lucidità di pensiero anche da esponenti di altri religioni e perfino da agnostici, abbraccia l’ipotesi che l’ultima cena si debba inserire semplicemente nel contesto di una serata conviviale fra “amici”, svoltasi prima della Pasqua giudaica. Bisogna sottolineare come la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia sia narrata nei vangeli sinottici (Marco, Matteo e Luca), mentre Giovanni, nell’ambito dello stesso evento conviviale, descrive quel complesso simbolico di gesti conosciuto come “lavanda dei piedi” (2). Nel commiato ai propri seguaci più fedeli, idealizzati in “apostoli” dalle interpretazioni successive, il Maestro intende anticipare il significato essenziale del dono della proprio vita, attraverso l’imminente sacrificio sulla croce, almeno secondo l’interpretazione della fede cristiana tradizionale. Sembrerebbe che, al di là del memoriale del pane del vino, Gesù volesse astenersi dal cibo; a tale proposito, è molto esplicito un passo del vangelo di Luca: “Ho ardentemente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico, non la mangerò più, finché non si compia, nel Regno di Dio”.
Un’altra importante ipotesi, che emerge dal già citato testo di Joseph Ratzinger, è che Gesù abbia potuto consumare il pasto in compagnia di alcuni esponenti della comunità degli Esseni. Questo gruppo religioso era notoriamente vegetariano e dedito ad una vita “monastica” ed alla pratica di intensi esercizi spirituali, in aperto contrasto con il formalismo giudaico delle fazioni sacerdotali. Gli Esseni, inoltre, osservavano una calendario solare, diverso da quello lunare adottato comunemente in ambiente ebraico. Tenendo conto dei precitati elementi, l’ultima cena potrebbe essere avvenuta il martedì e non il giovedì, spiegando così le notevoli discrasie cronologiche che si notano tra il racconto riportato nei Sinottici e quello di Giovanni (3).
All’ultima cena di Gesù, in compagnia degli apostoli, si tende ad attribuire molteplici significati di carattere esoterico, mutuati dalle tradizioni misteriche antiche, partendo in primis dal concetto classico di “agape” (4). Il precitato termine, di chiara matrice ellenica, si presta a varie traduzioni: nel contesto analizzato assume il significato di “amore fraterno”, mentre in ambiente latino viene adoperato maggiormente col senso di “pasto in comune”. Il rito dell’agape, nella tradizioni iniziatica, implicherebbe significati alchemici, magici ed astrologici, che i cultori dei misteri ermetici celebrano soprattutto nei giorni solstiziali ed equinoziali. Il pane ed il vino, il corpo ed il sangue, sarebbero i pilastri di una simbologia millenaria. Il pane/corpo starebbe a simboleggiare il principio creatore, come energia trasmutata e sublimata, mentre il vino/sangue potrebbe ben indicare l’anima interiore che ne è contenuta. Nel Mitraismo, l’agape si configurava come banchetto rituale nel culto del dio Mitra, celebrato di solito in una stanza specifica del mitreo. Lo schema seguito dai partecipanti era molto simile alla pratica dell’eucaristia così come organizzata dalle prime comunità cristiane in quei locali, non a caso sotterranei, conosciuti con la denominazione di “catacombe”. Non sono poche, peraltro, le similitudini tra il culto di Mitra ed il Cristianesimo, come la leggenda del concepimento da una vergine e l’universalizzazione del pensiero (5). I mitrei, peraltro, sono facilmente individuabili, grazie alle loro particolari caratteristiche strutturali. Si trattava, infatti, di edifici rettangolari, provvisti di un corridoio centrale che portava a una parete di fondo, nella quale si apriva una nicchia con l’immagine principale del culto: il dio Mitra raffigurato mentre uccideva un toro. Nel corso dell’azione cruenta, la divinità vive una profonda trasformazione simbolica, allorchè dalla sua coda spiccano spighe di grano e dal sangue della ferita nascono grappoli d’uva. Chi mastica un po’ di liturgia cristiana sa bene che le spighe ed i grappoli d’uva sono annoverati tra i più importanti simboli del sacramento dell’eucaristia. In estrema sintesi, nel Mitraismo l’uccisione del toro produce nuova vita e diventa un mezzo per passare in una dimensione spirituale, così come il corpo ed il sangue di Cristo sono definiti “cibo di vita eterna”. La somiglianza tra le celebrazioni eucaristiche delle prime comunità cristiane ed i rituali mitraici portarono l’apologeta, nonché padre della Chiesa Tertulliano, ad affermare che il diavolo in persona “scimmiottava” la consacrazione del corpo e del sangue di Cristo nell’ambito dei banchetti in onore del dio Mitra. Gli scritti di Tertulliano, in verità, erano diretti principalmente proprio nei confronti di coloro che, pur avvicinandosi alla dottrina cristiana, continuavano a dedicarsi alla pratica di quei culti considerati “pagani”, con l’intento di convertirli in maniera definitiva alla nuova fede religiosa.
Secondo la via interpretativa dell’agape, si potrebbe supporre che il Maestro Gesù, in compagnia dei suoi iniziati, abbia consumato un rito conviviale simbolico, che non era destinato ad avere necessariamente un significato teologico o sacramentale, come invece cercò di delineare il vero ideatore della dottrina cristiana, Paolo di Tarso, nella prima lettera ai Corinzi (6), che è il racconto storicamente più antico in merito all’istituzione dell’eucaristia. Senza tale narrazione, avvalorata dal successivo racconto riportato nel vangelo di Luca (7), noi non avremmo la giustificazione sacramentale dell’eucaristia, in quanto gli altri due evangelisti sinottici, Marco e Matteo, , si limitano a riproporre le parole di Gesù, senza traccia di esplicito memoriale istitutivo.
Tra tutte le comunità antiche, Filone d’Alessandria menziona i Terapeuti d’Egitto del lago di Mareotide, che usavano celebrare un pasto sacro ogni settimo giorno, a base di pane, da poter essere intinto nell’essenza di issopo e sale, come unico condimento autorizzato. I Terapeuti preesistevano al Cristianesimo ed erano noti per appartenere ad un ramo “contemplativo” dei già citati Esseni. Essi seguivano un complesso rituale di carattere pitagorico che, solo esteriormente, si adattava all’ambiente ebraico. Come i Pitagorici, anche gli Esseni rifiutavano la necessità di ogni sacrificio animale, a differenza dei frequenti olocausti imposti dalla religione ebraica tradizionale, posizione spirituale peraltro di frequente assunta dallo stesso Gesù nel corso del suo apostolato (8). E’ facilmente riscontrabile come il rituale del pane e del vino non abbia precedenti nella tradizione cultuale mosaica. Esso, invece, nell’ambito dell’Antico Testamento biblico è menzionato nella Genesi, a proposito del re/sacerdote Melkisedeq, di cui si ignora l’esatta provenienza, non facendo parte della genealogia dei patriarchi (9). Ciò farebbe pensare ad una sua pre-esistenza rispetto alla dottrina abramitica ed al sacerdozio mosaico, inaugurato da Aronne, legandolo probabilmente a diretti influssi dell’antico Egitto e, comunque, dell’area del Mediterraneo. Traendo spunto dalla dicotomia divina Demetra (pane) e Dioniso (vino), oltrepassando l’apparente significato agricolo, si può supporre che il pane ed il vino, come corpo e sangue, già nella tradizione ctonia dell’area mediterranea, rappresentassero la forza cosmica espressa attraverso il principio maschile e l’archetipo originario femminile, con particolare riferimento al “Bianco” ed al “Rosso” che saranno sviluppati successivamente nell’opera alchemica.
Sotto il profilo teologico, secondo il “credo” della Chiesa Cattolica, il pane ed il vino, al momento della consacrazione da parte di un sacerdote canonicamente ordinato, si trasformerebbero effettivamente in “corpo e sangue” di Cristo. Il nome tecnico di questa miracolosa conversione sarebbe “transustanziazione” o, con maggiore attinenza alla radice latina, “transubstanziazione”. Senza perderci nelle disquisizioni storiche che hanno portato a tale convinzione, accenno al fatto che per la Chiesa Cattolica la trasformazione avverrebbe nel momento in cui vengono pronunciate le parole del presunto memoriale di Gesù Cristo: “Questo è il mio corpo…questo è il mio sangue”, mentre per le Chiese Ortodosse Orientali la conversione ci sarebbe al momento dell’invocazione dello Spirito Santo da parte del sacerdote. Le Chiese Riformate, note nel linguaggio comune come “Protestanti”, risolvono il problema in maniera diversa, a seconda delle diverse sensibilità: per Lutero ad esempio vi sarebbe l’unione sacramentale (vero corpo e vero sangue di Gesù, ma il corpo ed il vino manterrebbero la stessa natura), per Calvino la presenza di Gesù nei due elementi sarebbe solo spirituale. Molti autori hanno intravisto nel sacramento dell’eucaristia il retaggio di antichi rituali antropofagi e teofagi molto diffusi presso le civiltà antiche che credevano che l’essere umano potesse unirsi con la divinità, mangiandone il corpo e bevendone il sangue, allo scopo di ereditarne alcune energie soprannaturali. Basti pensare, a tale proposito, all’ingresso del defunto re Unas (10), riportato su una delle più famose incisioni delle piramide egizie. I sacerdoti egizi adoperavano il vino al posto del sangue ben 1500 anni prima della nascita di Cristo, attraverso la celebrazione di un rituale esoterico, che faceva riferimento alle interiora di Iside e, pertanto, può essere considerato una sorta di transustanziazione (11). Progressivamente, in maniera totemica, all’idea di “mangiare” la divinità, presso alcuni popoli, si sostituì quella di banchettare con i resti di un animale: l’agnello, il toro o il pesce. In ambiente ellenico, nel mito di Dioniso, i Titani smembrano il divin bambino e ne mangiano i pezzi, per acquisire forza e luce divina. Nel culto successivo di Dioniso, si usava uccidere un capriolo ed un capretto, in modo da riproporre il memoriale dell’unione umano/divino (12). Nella visione della psico-analisi di Freud, nella storia umana è possibile individuare l’identità del pasto totemico con il sacrificio animale, nonché la stessa identità può essere riscontrata tra il sacrificio delle divinità incarnate e l’eucaristia cristiana. In tali rituali si può scorgere la reminiscenza di un antico crimine tribale: l’uccisione del padre da parte dell’orda. Nella “comunione” cristiana, pertanto, si potrebbe intravedere una sorta di ripetizione dell’atto da espiare, mediante una nuova eliminazione del “padre” incarnato nel “figlio”.
Jung considera la figura del Cristo come un vero e proprio “archetipo” collettivo, intuendone l’analogia con la “viridità perpetua” degli alchimisti. La figura del Messia di Nazaret, nella sua visione, potrebbe essere assimilata al filius macrocosmi, unificando in sé la materia inorganica considerata viva dal punto di vista spirituale. Per Jung, attraverso il memoriale eucaristico, l’evento della morte di Cristo si ripeterà in eterno, sia sotto il profilo collettivo che individuale, al punto che interiorizzare Gesù, mangiandone il corpo e bevendone il sangue, si può paragonare alla fase del processo alchemico chiamata “rubedo”, la fase in cui si ottiene il compimento, la totale armonizzazione e la piena apertura alla vita. L’approccio soteriologico sviluppato dalla dottrina cristiana, peraltro, ha potuto aderire intimamente all’idea di una certa corrente orfica che vedeva nel corpo la prigione dell’anima. Si trattava, comunque, di una prigione da dover illuminare con la luce divina, attraverso la ripetizione del sacrificio dell’eucaristia, la cui traduzione dalla lingua greca, non a caso, si rende con l’espressione “buona grazia”. Ricordiamo come Gesù Cristo, in vari passi, abbia proclamato di essere “la vera vite”, come lo stesso Dionisio veniva definito. Oltre alla comune resurrezione dei corpi, punto cruciale di entrambe le dottrine, nella teologia orfica, dalle ceneri dei Titani che avevano divorato le membra del bambino divino, sarà formata l’umanità, così come l’eucaristia, tramite il corpo ed il sangue del Salvatore, sarà ingerita dai credenti in una dinamica di tipo circolare.
Oltre al pane, al vino ed alle spighe, uno dei principali simboli dell’eucaristia è curiosamente il pellicano, rappresentato con l’iconografia europea (13). Si tratta di quell’animale che i Greci chiamavano “pelekos”, con esplicito riferimento alla forma allungata ed esagerata del becco ed, in alcune citazioni, anche “onocrotalos”, in quanto il suo verso poteva essere accostato a quello di un asino. Le piume del pellicano si tingono spesso di rosso, a causa del sangue delle prede, e sembra che tale aspetto abbia alimentato la leggenda che si lacerasse il proprio corpo nel disperato tentativo di proteggere i propri piccoli dai pericoli. Un antico racconto europeo offre un resoconto ancora più adatto alla vicenda sacrificale cristiana: il pellicano, adiratosi perché i suoi piccoli lo avrebbero colpito agli occhi, prima li uccide e, poi, pentitosi, dopo tre giorni li fa resuscitare, squarciandosi il petto ed inondandoli con il suo sangue. Il pellicano, tuttavia, compare soltanto una volta nell’Antico Testamento (Salmi, 102,7) e mai nel Nuovo. La sua fortunata diffusione nell’iconografia cristiana si deve soprattutto ad un’opera composta da un autore ignoto, presumibilmente, tra il II ed il IV secolo, denominata “Physiologus” (14). Il pellicano, come simbolo di morte e di resurrezione, presenta notevoli assonanze con la fenice, il mitico uccello della tradizione egizia ed ellenica. Dal punto di vista ermetico, l’immagine del pellicano intenderebbe rievocare la scintilla divina nascosta nell’animo dell’essere umano, di cui il sangue è portatore di vita e di resurrezione ed il suo colore bianco ben potrebbe simboleggiare la conquista della prima fase dell’opera.
Nella rappresentazione del “sacro graal”, che ho già trattato in altri scritti, molteplici sono gli aspetti legati alla simbologia eucaristica del “corpo” e del “sangue”. Nello stesso periodo in cui fu composto il Perceval, una delle più antiche leggende sul sacro graal, fiorì un’intensa pratica devozionale nei confronti del sacramento dell’eucaristia. In particolare, nei primi decenni del tredicesimo secolo, furono i Cistercensi i principali fautori di tale movimento liturgico-spirituale. Uno dei maggiori esponenti fu Cesario di Heisterbach che elaborò, intorno al 1220, una vera e propria raccolta di “miracoli”, che aveva lo scopo di dimostrare l’importanza dell’eucaristia nella vita della Chiesa. Alcuni studiosi hanno constatato la straordinaria somiglianza di alcuni passi dello scritto di Heisterbach con le vicende narrate nel Perceval, al punto da poter ipotizzare la nascita di una vera e propria mistica esoterica incentrata sul mistero del corpo e del sangue. La successiva trilogia sul tema del graal, composta da Robert de Boron, ne sarebbe un conseguente completamento spirituale, indirizzando la dimensione della “sacra coppa” verso un più radicale percorso interiore ed iniziatico (15).
Tra le rappresentazioni più suggestive del memoriale del corpo e del sangue di Cristo, in chiave esoterica, vi è senza dubbio il capolavoro di Leonardo da Vinci, conosciuto come “L’ultima cena”. L’opera è collocata sulla parete di una sala rettangolare che era utilizzata come refettorio dai frati del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano. Mai, prima della rappresentazione di Leonardo, il sacro e leggendario episodio del pasto consumato da Gesù e dagli apostoli era apparso così prossimo a noi e a tal punto vivo e verosimile. Sembrava quasi che un’altra sala fosse stata aggiunta a quella dei frati e che contemporaneamente si svolgesse un altro evento conviviale. E non sbagliava affatto Leonardo, quando affermava che le opere d’arte sono state sempre giudicate per la loro somiglianza al vero, o meglio per la loro somiglianza all’idea che si intende rappresentare. Niente, nell’opera di Leonardo, poteva essere accostato alle scene tradizionali del memoriale del corpo e del sangue di Cristo, dove gli apostoli erano raffigurati tutti in fila, seduti a tavola in maniera composta, con Giuda un pò in disparte, mentre il Maestro pronunciava le fatidiche parole, che avrebbero avrebbero costituito la transustanziazione per i Cattolici e la consustanziazione per la maggior parte delle confessioni protestanti. Si trattava di rappresentazioni “liturgiche” che non cercavano nemmeno di penetrare nel cuore della vicenda drammatica, non solo teologica, ma soprattutto profondamente umana, narrata nei vangeli. Leonardo, invece, cerca di risalire ai testi originari, non filtrati dalle interpretazioni dottrinali della Chiesa ed, in particolare, al momento apicale quando Gesù annuncia ai suoi seguaci più cari l’imminente tradimento da parte di uno di loro. Il dialogo tra Gesù e gli apostoli provoca in ciascuno uno stato d’animo diverso: alcuni sembrano insistere sulla propria fedeltà, altri appaiono imbambolati e confusi, in ansia di ricevere spiegazioni più precise. Pietro appare impetuoso, mentre si avvicina a Giovanni, che siede vicino a Gesù, spingendo in avanti Giuda che, pur non essendo raffigurato in disparte rispetto agli altri, appare isolato, segno del particolarissimo quanto sfortunato destino, che lo attenderà a breve, Nonostante l’atmosfera si presenti concitata, nel dipinto nulla appare caotico o lasciato al caso. Leonardo riesce ad imprimere l’ordine nella varietà, con il risultato di creare un armonioso gioco di elementi opposti. Non si può fare a meno di notare che la scena possiede un equilibrio spontaneo, che era alla base di alcune pitture gotiche e che era stato già raggiunto da artisti come Rogier van den Weyden (16) e dal Botticelli (17), ciascuno con le sue personali peculiarità. Agli studiosi, di certo, non sono sfuggite le proporzioni matematiche e geometriche che Leonardo, nell’Ultima cena, ha voluto offrire ai milioni di spettatori nei secoli. La struttura della stanza e la posizione degli apostoli presenta un subliminale suggerimento numerologico, legato al rapporto trinitario 1:3, nonché al 3:4 che sta ad indicare la relazione tra il mondo divino e quello terrestre o sublunare (18). Si notano, infatti, le tre finestre dietro Cristo, le tre vele del soffitto e gli apostoli che sono divisi in quattro gruppi da tre ciascuno. Non è casuale che l’interra scena, oltre ad essere stata ideata per ottenere una composizione simmetrica, sia contraddistinta da un evidente linguaggio pitagorico, neoplatonico ed ermetico, messo in relazione alla vita di Cristo ed ai misteri del Padre. La terra, con ogni probabilità, rappresentata dal numero pitagorico quattro, con varchi scuri che non sembrano condurre da nessuna parte, si contrappone alle tre finestre luminose che intendono la Trinità, con una raffinata inclinazione prospettica convergente sulla necessità di Dio.
Quanto all’eventuale presenza di Maria Maddalena nella raffigurazione di Leonardo, il problema è soltanto storico, non teologico. In primo luogo, il fatto che Gesù avesse un seguito femminile, tra cui primeggiava per assiduità proprio la Maddalena, è generalmente accertato, rappresentando una svolta quasi rivoluzionaria per la società dell’antica Palestina (19). Nel dipinto di Leonardo, l’immagine di quel volto “femmineo” appoggiato alle spalle di Gesù, ha suscitato molte perplessità, come se il genio dell’artista avesse voluto giocare anche sull’ambiguità dei rapporti tra Gesù ed il “discepolo che egli amava” (20), magari lasciando perfino aperta l’ipotesi ad un’eventuale sostituzione con Maria Maddalena. Come testimonia il Vasari, più volte Leonardo fu tentato di abbandonare la pittura, cercando invano la cosiddetta “quadratura del cerchio” che, secondo il pensiero ermetico, avrebbe permesso di sovrapporre “il cerchio del cielo al quadrato della terra”, con la strabiliante conseguenza di ottenere una “quintessenza perfetta” rivelatrice della stessa creazione divina, come lo stesso corpo e sangue di Cristo.
Note:
(1) La trilogia di Joseph Ratzinger, che va sotto il nome di “Gesù di Nazaret”, è composta di tre volumi, usciti rispettivamente nel 2007, nel 2011 e nel 2012;
(2)Cfr. Giovanni, 13, 4 e ss.: “Si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse intorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto…”;
(3)Cfr. Jakob Lorber, Gesù e l’ordine degli Esseni, Cerchio della luna edizioni, Verona 2012;
(4)Il termine, in ambito cristiano, ha assunto il significato figurativo di “carità” ed “amore incondizionato”;
(5)Cfr. Walter Burkert, Antichi culti misterici, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1987;
(6)Cfr. I Corinzi, 2,23-26;
(7)Cfr. Luca, 22, 19-20;
(8)Cfr. Enrico Mazza, La celebrazione eucaristica: genesi del rito e sviluppo dell’interpretazione, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996;
(9) Melkisedeq o Melkisedek è una figura emblematica dell’Antico Testamento, indicato come re di Salem (forse l’antica Gerusalemme) o come sacerdote dell’altissimo Elyon. Una parte di esegeti ebraici l’ha identificato come Sem, uno dei figli di Noè;
(10)Si tratta dell’ultimo re della quinta dinastia;
(11)Cfr. France Le Corsu, Iside. La Grande Madre. I miti e i misteri dall’Egitto faraonico al mondo greco-romano, Edizioni Ester, Torino 2021;
(12)Cfr. Julien Ries, Mito e rito. Le costanti del sacro, Editore Jaca Book, Milano 2021;
(13)Cfr. Il pellicano: simbologia e teologia dell’uccello del sacrificio, pubblicato il 25 maggio 2020 su https://www.lanternaweb.it e consultato in data 16/01/2024;
(14)Si tratta di un “bestiario” contenente la descrizione di animali e piante (reali ed immaginari) e anche di alcune pietre, con riferimenti ad allegorie religiose e metafisiche;
(15)Cfr. Luigi Angelino, L’epica cavalleresca. Riflessioni su Beowulf, sul sacro Graal e sul ciclo arturiano, Stamperia del Valentino, Napoli 2022;
(16)Pseudonimo di Rogier de la Pasture (1399-1464), pittore fiammingo, diventato artista “ufficiale” della città di Bruxelles;
(17)Sandro Botticelli era lo pseudonimo di Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi (1445-1510);
(18)La numerologia e la divinazione numerologica pitagorica furono riprese nell’età del Rinascimento. Ad ogni numero erano riconosciute alcune proprietà particolari;
(19)Cfr. Luigi Angelino, Gesù e Maria Maddalena, Stamperia del Valentino, Napoli 2022;
(20)Cfr. Giovanni, 13,23.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense e due master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nel 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 8 volumi: Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio e Sulla fine dei tempi. Con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; la trilogia thriller- filosofica “La redenzione di Satana” (Apocatastasi-Apostasia-Apocalisse); il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers”; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”ed una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Con auralcrave ha pubblicato la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa” ed ha collaborato al “Sipario strappato”. Nel 2021 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.