Il concetto di moha ‘inganno, illusione’ nella Bhagavadgītā – Rosa Ronzitti
- Nel dizionario sanscrito del Monier-Williams (p. 836) la parola moha (móha- sost. masch.) viene tradotta con ‘loss of consciousness, bewilderment, perplexity, distraction, infatuation, delusion, error, folly’; la radice muh- (p. 825) con ‘to become stupefied or unconscious, be bewildered or perplexed, err, be mistaken, go astray’[1]. Si tratta di termini che compaiono frequentemente (almeno 30 volte) nella Bhagavadgītā (MBh VI (63) 23-40), ricoprendo una sfera semantica ben precisa, quella della negatività, dell’inganno, della trappola mentale[2]. Notevoli sono le espressioni mohaṃ brū- ‘dire qualcosa che induce all’errore’ e mohaṃ yā- ‘cadere in errore’.
Una rassegna di contesti ci permette di inserire moha nella costellazione semantica dei “cattivi comportamenti”. In particolare, moha ricorre spesso in frasi gnomiche, per ammonire gli uomini che cercano un frutto alle loro azioni, che non riconoscono Dio, che perseguono fini mondani. Poco prima che inizi la Gītā vera e propria, per esempio, Arjuna dice a Yudhiṣṭhira di abbandonare adharmaṃ ca lobhaṃ ca moham (VI 21.11) ‘empietà, avidità, inganno’. Quando, a sua volta, Arjuna rifiuta di combattere, il Signore in persona, Kr̥ṣṇa, lo incita a praticare una severa disciplina per superare il mohakalilam ‘l’intrico dell’inganno’ (VI 24.52).
L’uomo incapace di percepire la verità è chiamato mūḍha- ‘confuso’ (participio passato di muh-) in un passo in cui la radice ricorre nel complesso ben quattro volte:
nāham prakāśaḥ sarvasya yogamāyāsamāvr̥taḥ/ mūḍho ʼyaṃ nābhijānāti loko mām ajam avyayam// … icchādveṣamutthena dvaṃdvamohena bhārata/ sarvabhūtāni sammohaṃ sarge yānti paraṃtapa// yeṣāṃ tv antagatam pāpaṃ janānām puṇyakarmaṇām/ te dvaṃdvamohanirmuktā bhajante māṃ dr̥ḍhavratāḥ//
‘Avviluppato dall’illusione (māyā) dello yoga, io non sono visibile a tutti. La gente, confusa, non mi riconosce come non-nato e immortale. … Obnubilate dai conflitti che sorgono dal desiderio e dall’odio, o discendente di Bharata, tutte le creature vanno ignare nella creazione, o inceneritore di nemici! Ma quando finalmente il karma malvagio degli uomini virtuosi è svanito ed essi sono liberi dall’inganno del conflitto, costoro mi tributano devozione, saldi nei voti’ (VI 29.25-28).
Similmente:
ādhyo ʼbhijanavān asmi ko ʼnyo ʼsti sadr̥śo mayā/ yakṣye dāsyāmi modiṣya ity ajñānavimohitāḥ// anekacittavibhrāntā mohajālasamāvr̥tāḥ/ prasaktāḥ kāmabhogeṣu patanti narake ʼśucau// … āsurīṃ yonim apannā mūḍhā janmani jamnani/ mām aprāpyaiva kaunteya tato yānty adhamāṃ gatim//
‘Sono ricco e di nobile stirpe; chi altri è uguale a me? Farò sacrifici, offrirò doni, sarò dedito al piacere. Così [dicono] confusi dall’ignoranza, avvolti dalla rete dell’illusione. Dediti ai piaceri dell’amore, volano nel sozzo inferno … Avendo ottenuto un grembo asurico nascita dopo nascita, pieni di ignoranza non riescono a raggiungermi, o figlio di Kuntī, e allora percorrono la strada più bassa’ (VI 38.15-16 e 20).
Le similitudini aiutano Arjuna a comprendere gli insegnamenti del Signore. In un punto egli ricorre a un triplice suggestivo paragone: il mondo è avvolto dalla rabbia e dal desiderio come un fuoco dal fumo, come uno specchio dalla polvere e come l’embrione dalla membrana (VI 25.38). Il desiderio (kāma) ‘oscura’ (verbo causativo mohayati) perciò la conoscenza (jñāna):
VI 25.40
indriyāṇi mano buddhir asyādhiṣṭhānam ucyate
etair vimohayaty eṣa jñānam āvr̥tya dehinam
‘Si dice che la sua (= del desiderio) dimora siano i sensi, la mente, l’intelletto.
Per mezzo di questi (il desiderio) oscura la conoscenza e induce all’inganno chi sta in un corpo’.
L’insegnamento si allinea alle teorie del Sāṃkhya e il legame con il pensiero Upaniṣad è più che evidente. Nella speculazione delle Upaniṣad troviamo infatti alcuni brani che la Gītā riecheggia, tanto che essa si può considerare, da un certo punto di vista, un centone di sentenze upanishadiche[3]. A noi ne interessano in particolare due:
samāne vr̥kṣe puruṣo nimagno ʼnīśayā śocati muhyamānaḥ
‘Dentro lo stesso albero è immerso l’uomo e soffre per la sua impotenza, confuso’ (Śvetāśvatara Up. IV 7ab = Muṇḍaka Up. III 1.2ab).
Vale a dire: lo spirito dell’uomo giace prigioniero nella materia (l’albero simboleggia la ὕλη in senso platonico) e questo stato di offuscamento spirituale lo rende infelice, impedendogli di riconoscere sia l’illusorietà del mondo sia la particella d’immortalità che è in lui. Da cui si evince, prosegue il testo, che il sommo creatore (Brahman) è un ‘illusionista’ e ‘illusione’ il mondo da lui posto:
asmān māyī sr̥jate viśvam etat tasmiṃś cānyo māyayā saṃniruddhaḥ// māyāṃ tu prakr̥tiṃ vidyān māyinaṃ tu maheśvaram/ tasyāvayavabhūtais tu vyāptaṃ sarvam idaṃ jagat//
‘Da questo [insieme rituale] l’illusionista (māyī) ha creato tutto ciò; in questo [mondo] l’altro (scil. l’uomo) è catturato dall’illusione (māyā). Si riconosca la natura come illusione, si riconosca il più alto signore come illusionista! Tutto questo mondo è penetrato di cose che sono particelle di lui!’ (Śvetāśvatara Up. IV 9cd-10ab).
I passi sono da annoverarsi fra le prime testimonianze della corrispondenza vedāntica tra māyā e prakr̥ti[4]. Confusione e illusione, muh- e māyā, appaiono dunque in strettissimo rapporto: l’illusione ottenebra l’uomo, l’illusione è un fumo che vela, nasconde la realtà.
- In base a quanto la Gītā enuncia, gli elementi costitutivi della natura, i guṇa, sono tre: sattva ‘bontà, verità, vera essenza’, rajas ‘agire irruento, attivismo’ e tamas ‘indole passiva’. La disposizione va dall’alto verso il basso, seguendo l’ordine del cosmo: cielo, atmosfera e terra. I guṇa albergano anche nell’uomo: il sattva si manifesta come prakāśa ‘conoscenza’, il rajas come pravr̥tti ‘azione’, il tamas come moha ‘inganno, confusione’: così è proclamato dal Signore, senza equivoco, in VI 36. Ciascuno di questi gradi va superato, anche il prakāśa, perché l’uomo non sarà mai libero finché proverà sensazioni e pensieri legati al blocco concreto del corpo (deha)[5]: tutti i guṇa vanno trascesi per divenire Assoluto. È chiaro, in ogni caso, che moha rappresenta il gradino più basso, essendo qualità della tenebra. Il legame tra moha e tamas non viene occasionalmente instaurato dalla Gītā, ma si inscrive, come subito vedremo, nella storia stessa e nell’etimologia della radice muh-. Infatti, quella di moha è una famiglia antica, che ha mantenuto una stabilità lessicale piuttosto forte; ripercorrendone le vicende possiamo capire fino in fondo quanto sia importante l’etimologia per determinare la natura intima dei concetti che le parole esprimono.
Torniamo dunque indietro, agli albori della letteratura indiana, ovvero alla raccolta innologica del R̥gveda. Qui moha ancora non compare, ma l’allotropo moghám/ mógham, attestato 5 volte, significa ‘falso’ e si oppone esplicitamente a satyám ‘vero’ (p. es. nell’inno X 55 6) oppure può tradursi con ‘falsità, vanità, illusione’ (VII 104.14 e 15, X 117.6). Il passaggio semantico da ‘falso’ a ‘vano’ trova la giusta motivazione nell’ambito di una dottrina che ritiene ‘sterile’, ‘infruttuoso’ tutto ciò che non rientra nell’alveo dell’ortodossia. Tra le creature dell’inganno spicca il gufo, stregone zoomorfo per eccellenza: yád úlūko vádati moghám etád ‘Quando il gufo parla (emette il suo verso), ciò è illusione (ingannevole apparenza)’ (X 165.4)[6].
La prima attestazione di moha si trova invece nell’Atharvaveda, e fa parte di un elenco di qualità negative con le quali si ‘circonda’ il nemico per farlo soccombere (AV VIII 8 9). Anche il verbo múhyati ‘confondersi’ si trova spesso impiegato nelle maledizioni contro i nemici (p. es. múhyantv anyé abhíto jánasāḥ ‘Vadano in confusione da tutte le parti gli altri popoli!’, RV X 81.6); il suo complementare è il causativo mohayati ‘gettare in confusione’. In AV III 1.6 troviamo per esempio: indraḥ sénām mohayatu ‘Indra confonda l’esercito (scil. rivale)!’: questo tipo di formule, in seguito chiamato mohana, sarà annoverato tra i rituali per sconfiggere i nemici[7].
All’àmbito bellico si affianca poi quello sacrificale: secondo i Brāhmaṇa, testi più tardi, l’esecuzione erronea del sacrificio causa uno stato di disordine: yan nividaḥ pade vipariharen mohayed yajñam mugdho yajamānaḥ syāt ‘Se egli invertisse due versi della [formula] Nivid, confonderebbe il sacrificio [e] il sacrificante sarebbe confuso’ (Aitareya Br. III 11.6), laddove invece, quando il rito è eseguito con l’intesa dei celebranti, sárvam evá tátra kalpate ná muhyati ‘Allora tutto si articola alla perfezione e non diventa caotico’ (Śatapatha Br. I 5.2.15)[8].
Il più interessante fra tutti i contesti preclassici è però, a nostro avviso, quello di RV X 162. 6, in cui muh- viene associato a tamas. Gli diamo quindi il giusto rilievo:
yás tvā svápnena támasā mohayitvā́ nipádyate
prajā́ṃ yás te jíghāṃsati tám itó nāśayāmasi//
‘Colui che, avendoti gettato in confusione con il sonno [e] con la tenebra, si corica sopra di te, colui che desidera sterminare la tua discendenza, quello lo facciamo scomparire da qui’.
Il testo appartiene a un inno di carattere “popolare” rivolto contro i demoni che provocano l’aborto. Il demone induce il sonno nella donna e si pone sopra di lei nella tipica posizione dell’incubo[9], minacciando la vita del feto. Il gerundio causativo mohayitvā́ regge i due strumentali svápnena támasā ‘con il sonno [e] con la tenebra’ o ‘con la tenebra del sonno’. Ciò porta a pensare che il sonno sia concepito come una sorta di nebbia che, avvolgendo la mente, rende incoscienti e vulnerabili[10].
A confortare questa suggestione citiamo un secondo passo in cui il participio passato passivo mugdhá- ‘confuso’ si riferisce, molto concretamente, al buio causato dall’oscuramento del sole, RV V 40.5:
yát tvā sūrya svàrbhānus támasā́vidhyad āsuráḥ
ákṣetravid yáthā mughdó bhúvanāny adīdhayuḥ//
‘Quando, o sole, Svarbhānu Āsura ti penetrò con la tenebra,
le creature videro come [vede] uno smarrito/confuso (mughdó), che non conosce il luogo’.
Il mito, che allude forse al fenomeno astronomico delle “macchie solari” (altri pensano invece alle eclissi), è stato ricostruito accuratamente attraverso la collazione di tutte le sue versioni vediche[11] e si può sintetizzare così: nel corso di una lotta fra Deva e Asura, il demone Svarbhānu trafigge il sole con la tenebra (o con le frecce) oppure lo avvolge nel buio, sicché l’astro smette di splendere e le creature perdono l’orientamento. Gli dèi o il veggente Atri corrono ai ripari con mezzi magici e rituali, ripristinando la situazione originaria. Nella versione r̥gvedica il sole viene racchiuso da tamas ‘tenebra’ (V 40.6) e māyā ‘arte magica, incantesimo’ (V 40.8), sicché gli uomini restano confusi e, resi ciechi, non riconoscono più il luogo (kṣetra) in cui si trovano. Tamas e māyā, come abbiamo visto, entrano a far parte, nella Gītā, della stessa sfera concettuale di moha[12]. Si direbbe che nell’inno V 40 compaia ante litteram il “velo di Māyā”, poiché davvero l’incantesimo di Svarbhānu è una cortina fumogena che il perfido demone oppone alla chiarità del sole.
Se dunque tali antichissime attestazioni preservano la semantica originaria di muh-, è lecito ipotizzare che la radice sviluppi il significato astratto di ‘confusione morale’ da quello concreto di ‘accecamento per il fumo’. Oppure, rinunciando a individuare una priorità nella derivazione, potremmo limitarci a constatare che muh- si esplica tanto sul piano fisico (cecità conseguente al fumo) quanto su quello religioso-dottrinale (cecità conseguente a travisamento o negazione della dottrina). L’ambivalenza parrebbe, del resto, alquanto naturale: si pensi che a livello ricostruttivo, dunque alla quota cronologica del protoindoeuropeo, *temesi, ovvero la forma preistorica del locativo sanscrito támasi ‘nella tenebra’ corrisponde fonema per fonema al latino temere ‘sconsideratamente’, secondo un processo metaforico analogo a quello descritto per muh-[13].
Ci sembra dunque evidente il motivo per cui moha è entrato a far parte del lessico filosofico indicando uno stato di inganno che segue alla mancata conoscenza (o riconoscimento) del reale (ovvero della sua natura illusoria); in tal senso esso si sovrappone ad avidyā e ajñanam ‘ignoranza’, come le occorrenze della Gītā mostrano ampiamente (vd. supra).
L’inizio di una specializzazione filosofica si coglie però già (almeno) nella Vājasaneyī Saṃhitā XL,7, allorché si dice che nessun moha né śoka (‘dolore’) può colpire colui che ha riconosciuto l’Uno in tutte le cose.
Nel Mānavadharmaśāstra, opera giuridica dove sono piuttosto in gioco i valori dell’ordine sociale, lo stato di moha viene biasimato in quanto esso causa la trasgressione delle rigide gerarchie indiane: hīnajātistriyam mohād udvahanto dvijātayaḥ/ kulānyeva nayantyāśu sasantānāni śūdratām ‘I nati due volte che per dissennatezza [ablativo causale] sposano una donna di rango inferiore conducono rapidamente alla condizione di śūdra le loro famiglie con tutta la discendenza’ (III 15).
In sostanza, ogni parte e àmbito del mondo, che ne pensiero indiano riflette un ordine metafisico, può incorrere nel rischio del moha e perdere la sua struttura dharmica. Il caos è sempre in agguato.
- Un’indagine retrospettiva, comparatistica e preistorica potrebbe eventualmente fornire indizî più precisi circa la semantica della radice muh-. Le ipotesi del Mayrhofer, tuttavia, non vanno oltre l’indoiranico, arrendendosi a una generale e del tutto insoddisfacente dichiarazione di incertezza[14].
Partiamo dunque proprio dalla sicura isoglossa con il ramo iranico: essa è da postularsi per via del composto avestico aṣ̌әmaoγa– ‘che confonde l’ordine’, ‘eretico’ e del khot. mūys- ‘essere folle’, mūysaṃdai ‘sciocco’ (si pensi che il ‘folle’ è chiamato momughá- in Śatapatha Br. I 4.3.16).
Aṣ̌әmaoγa– (protoir. *(a)rta-mau̯gha-) significa alla lettera ‘colui che confonde l’ordine’ e rappresenta il nome avestico dell’eretico[15]. Anche in questo caso troviamo parallelismi abbastanza precisi nei composti indiani manomúh- ‘che confonde la mente’ e yajñamuh- ‘che confonde il sacrificio’.
Nell’Avesta l’aṣ̌әmaoγa- compie azioni impure, che vengono paragonate al contagio arrecato da una rana, bestia demoniaca (Vīdēvdād XII 21-24); egli porta malattia e morte e deve essere abbattuto con un solo colpo (Vd IX 51-57); lo si maledice ripetutamente e lo si accomuna a creature orribili, nemiche del bene, pericolose (Vd V 35, Y IX 18). Nella fase media del persiano il termine, divenuto ahlomōg, indica colui che confonde l’ordine in due modi: eseguendo i riti in maniera scorretta o praticando una religione deviante dall’ortodossia[16]. Nel persiano moderno, ove sopravvive come āsmoġ, designa un demone della discordia, la guerra e persino le cause legali tra vicini[17].
Osserviamo quindi, tanto sul versante iranico quanto su quello indiano, un uso coerente della radice in associazione alla cattiva esecuzione del rituale, all’eresia e alla follia. Si direbbe uno sviluppo congiunto, ma a partire da quale idea di fondo? Si può recuperare, secondo quanto già abbiamo suggerito, l’idea di ‘fumo’ o ‘nebbia’ come nozione elementare a cui ricondurre la confusione della mente e dei costumi?
La forma preistorica a cui dobbiamo risalire è *meu̯gh–/*meu̯g̑h-[18]. Si dà il caso che Pokorny[19] annoveri nel suo repertorio di radici indoeuropee *(s)meu̯kh–, *(s)meu̯g-, *(s)meu̯gh– ‘fumare, fumo’, significato da cui facilmente si passerebbe alla nozione di ‘confusione’ che è alla base degli sviluppi indoiranici, con peculiare specializzazione in senso religioso-dottrinale e, per l’India, anche filosofico.
La famiglia è attestata in greco, armeno, celtico, germanico e baltoslavo. Balzano agli occhi possibili equivalenti di mogham in arm. moyg ‘marrone, scuro’ e rus. smúglyj ‘id.’ (con ulteriore suffisso *-lo-), tutti da un tema indoeuropeo *(s)mou̯gho- che, a partire dal significato di ‘scuro, fumo’, si sarebbe realizzato nell’antico indiano come ‘falso’, ‘apparenza illusoria’. Con lieve modifica della parte suffissale e diverso grado apofonico, appartengono alla stessa radice arm. mux ‘fumo’, irl. múch, cimr. mwg, corn. mog ‘id.’.
Di grande suggestione sarebbe poter inserire nel gruppo anche la parola greca μυχός, che ricorre una ventina di volte nei due poemi omerici e sporadicamente negli inni. Essa indica non solo il recesso, il luogo più intimo e profondo, ma anche una insenatura, un rientro, il cuore di un antro buio come quello abitato dalle Ninfe tessitrici di Itaca (ν 363: μυχῷ ἄντρου θεσπεσίοιο) o dai pipistrelli-anime dei Proci (ω 6: id.)[20]. Un corrispettivo nordico si trova nello scozzese smoo, che designa un’apertura, un buco nella staccionata, un ricovero per bestiame, una grotta (si pensi al toponimo Smoo Cave, cavità naturale marina nelle Highlands)[21]. Derivato da una forma antico nordica smuga ‘stretto passaggio’, smoo è paragonabile alle forme greche e indiane. I lessici etimologici propendono per attribuire smuga a *smeu̯k- ‘scivolare, strisciare’[22], radice ben attestata nelle lingue germaniche e in baltoslavo[23]; ma poiché anche tale radice si muove nell’ambito semantico del buio e dell’inganno, varrebbe la pena di non separarla dalla famiglia di moha-, ipotesi che viene qui sostenuta per la prima volta.
Note:
[1] Cfr. Monier Monier-Williams, A Sanskrit-English Dictionary. Etymologically and Philologically Arranged with Special Reference to Cognate Indo-European Languages, Oxford: Clarendon Press 1899.
[2] D’ora in poi ogni riferimento testuale si intenderà preso da The Bhagavadgītā in the Mahābhārata. Translated and Edited by J.A.B. van Buitenen, Chicago: The Chicago University Press 1981 (testo sanscrito di Poona e traduzione a fronte). Per un pubblico italiano si vedano anche le buone traduzioni commentate di Marcello Meli (Milano: Mondadori 1999) e di Raphael (Roma: Āśram Vidyā 20064). Propriamente i capitoli (canti) della Gītā sono 18 per 700 strofe. La composizione del poemetto risalirebbe al II sec. a.C. Il dialogo tra il Signore beato e Arjuna avviene sul carro del guerriero, prima che i due eserciti si scontrino, in una frazione bloccata del tempo e al discrimine fra le due schiere rivali.
[3] Cfr. Meli, op. cit., pp. X-XI.
[4] Cfr. Paul Deussen, Sixty Upaniṣads of the Veda, Delhi: Motilal Banarsidass 1997 (prima ed. tedesca 1897), Vol. I, p. 316: «As already implied by verse 7 (muhyamānaḥ), the bondage of the individual soul depends only on the illusion or delusion (therefore only right knowledge is required for deliverance)».
[5] La radice dih- significa ‘impastare, plasmare’. L’uomo, in quanto ‘provvisto di corpo’ può essere chiamato dehin (p. es. in VI 25.40, vd. supra).
[6] Il gufo e la civetta sono esseri demoniaci e malvagi, come tutti gli Strigidi (per cui cfr. Rosa Ronzitti, Natura maligna. Raffigurazione degli strigidi nella letteratura indiana antica, “Quaderni di Semantica” 31, 2010, pp. 41-62). Non a caso, se a proposito del gufo si usa mogha, alla civetta (khargalā) viene associata la parola druh- ‘menzogna’ (RV VII 104.17).
[7] Cfr. Jan Gonda, Vedic Literature (Saṃhitās and Brāhmaṇas), Wiesbaden, Otto Harrassowitz Verlag 1975, p. 309.
[8] Innumerevoli casi nei Brāhmaṇa per questa tipologia di contesti.
[9] Cfr. nell’inno l’uso del verbo nipádyate ‘scende giù (sul grembo)’ e, nelle prime strofe, di āśáye ‘viene a giacere’.
[10] Esattamente come in Omero, anche nel R̥gveda il sonno-nebbia può essere “versato” (radice vap-, assonante con svap- ‘dormire’), cfr. svapnenābhyúpyā cúmuriṃ dhúniṃ ca/ jaghántha dásyum prá dabhī́tim āvaḥ ‘Avendo versato il sonno su Dhuni e Cumuri, hai abbattuto Dasyu, hai aiutato Dabhīti’ (RV II 15.9ab).
[11] Cfr. S. Jamison, The Ravenous Hyenas and the Wounded Sun, Ithaca and London: Cornell University Press 1991, p. 133 ss.
[12] La parola māyā equivale a ‘fumo’ in diversi contesti. Si vedano per esempio due passi paralleli che si riferiscono al fuoco (Agni): V 11 3: dhūmás te ketúr abhavad diví śritáḥ ‘Il fumo, la tua insegna, fu esteso nel cielo’ e V 63 4: māyā́ … diví śritā́ ‘la māyā estesa nel cielo’.
[13] Cfr. Manfred Mayrhofer, Etymologisches Wörterbuch des Altindoarischen, I. Band, Lieferung, Heidelberg: Carl Winter 1990, p. 626, che ricostruisce la protoforma *temH-es-i.
[14] Cfr. Manfred Mayrhofer, op. cit., II. Band, Lieferung 15, 1994, pp. 384-385, alla voce MOH.
[15] La trattazione più ampia ed esaustiva di aṣ̌әmaoγa– è in Paolo Di Giovine, Il riflesso pahlavico del nome dell’eretico, Potenza: Istituto di Linguistica Università della Basilicata 1989. Il nome è un composto a rezione verbale il cui primo membro (aṣ̌ә- ‘ordine’) rappresenta sintatticamente l’oggetto del secondo (°maoγa-), che svolge la funzione di agente.
[16] Per la mentalità indoiranica un sacerdote che non esegue il rituale secondo i dettami dell’Ordine non è diverso da uno ‘stregone’ (yātudhāna in sanscrito) e può essere anzi accusato di praticare la magia, come accade al sapiente Vasiṣṭha nell’inno RV VII 104.
[17] Cfr. Francis Joseph Steingass, A Comprehensive Persian-English Dictionary, Delhi: Munshiram Manoharlal 2000, p. 60.
[18] Maggiori dettagli ricostruttivi, che qui tralascio, si trovano in Rosa Ronzitti, Quattro etimologie indoeuropee: lat. būfō, it. gufo, ingl. smog e drug, Innsbruck: Innsbrucker Beiträge zur Sprachwissenschaft 2011, pp. 65-95. Abbiamo a che fare, sostanzialmente, con una medesima base *(s)meu̯-, la quale si unisce a diversi ampliamenti in velare articolandosi in altrettante sottofamiglie.
[19] Cfr. Julius Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch. I. Band, Tübingen und Basel: Francke 1959, p. 971.
[20] Cfr. Heinrich Ebeling, Lexicon Homericum, Lipsiae: in aedibus B.G. Teubneri 1885, I 1127-1128.
[21] Cfr. la voce smoo nello Scottish National Dictionary consultata attraverso l’indirizzo https://www.dsl.ac.uk/entry/snd/smoo.
[22] Cfr. Helmut Rix et alii, LIV, Lexicon der indogermanischen Verben, Wiesbaden: Dr Ludwig Reichert Verlag 20012, p. 571.
[23] Si pensi all’inglese smuggler ‘contrabbandiere’, ovvero colui che furtivamente, spesso di notte, introduce merci illegalmente, al verbo desueto smock ‘rendere un uomo effeminato’ e al sostantivo smock ‘indumento, grembiule’, tutti nel campo semantico del travisamento, della copertura.
Rosa Ronzitti,
dopo aver prestato servizio presso l’Università per Stranieri di Siena come ricercatrice a tempo indeterminato, è attualmente Professore Associato di Glottologia e Linguistica presso il Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo dell’Università di Genova. Da anni si occupa di Indoeuropeistica, Studi Vedici, Etimologia e Sanscrito. È autrice di cinque monografie e ottanta articoli su riviste nazionali e internazionali. Da alcuni anni ha intrapreso un progetto laboratoriale di introduzione allo studio del Sanscrito in collaborazione con gli alunni del Liceo Classico Mazzini, Genova.