Il canto XVI della BHAGAVAD-GÎTA – Giovanni Antonio Bassoli
ANTICHISSIMO CANTO DI UN TESTO DI CONSAPEVOLEZZA PER SOSTENERE UNA RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO
Il mondo contemporaneo, lo sappiamo, è foriero di innumerevoli meraviglie e di altrettante mostruosità. E tanto più aumentano tali distopìe, tanto meno chi ne viene ammaliato o completamente permeato non ne è solo succube ma incosciente veicolo. A questo proposito e per mia personale vigliaccheria, mi stupisce e mi spaventa l’idea dell’essere all’interno della tanto decantata era d’Acquario quando invece io ne percepisco sempre più un tracollo di difficile individuazione della fine dello stesso, afferente più al vedico Kali Yuga che ad un’epoca di eventuale Risveglio. Se ad oggi molti uomini e donne soffrono per la perdita della consapevolezza della propria utilità nel mondo, infatti, e si abbandonano ad una buia sconsiderazione del sé, le rischiarate promesse di colorati ed illusorî universi digitali ripercorrono d’altro canto la caduta nell’oblio dell’essere umano verso la tenebra della demenza corrente.
Di conseguenza capisco, umanamente, chi abbia necessità di sovrammettere alla propria vita una serie di palinsesti finti e volutamente illusorî che permettano di sopportare la mostruosità distopica di certa informazione contemporanea, ma mi chiedo come farebbero se un lampo di consapevolezza rischiarasse la loro miope esperienza di vita conducendoli alla visione di ciò che nel mondo sta veramente accadendo. Forse la luce nella lugubre cella non risulterebbe contenibile nè visibile ad occhio nudo? E la responsabilità della causa-effetto propria della vita terrena verrebbe a mancare sotto i piedi come un ponte di corde rosicchiato dagli agenti atmosferici? Come fanno, ad oggi, uomini e donne di cultura a guardare il cielo senza vedere le frustate che ne solcano le azzurre campiture, fino a qualche tempo fa, immacolate dopo i temporali benefici e forieri di vita per le coltivazioni? Come fanno a sostenere posizioni politiche od opinioni dopo il bombardamento dei talk show infarciti di brutale ipnosi di massa che nulla hanno a che vedere con un confronto tra esseri senzienti?
In un canto della Bhagavad Gîta che amo molto, il XVI, si parla di uomini nati ad un destino diabolico e uomini nati ad un destino divino, il titolo infatti è Lo yoga della distinzione tra il destino divino ed il destino diabolico. Personalmente lo considero ancora una perfetta predizione del futuro fatta 5000 anni fa in quanto il materialismo contemporaneo sta oggi distruggendo la natura.
Il mio pessimismo, forse derivato da caratteristiche astrologiche della mia nascita legate a momenti autunnali, è a tratti lenito da una Ri-velazione che la divinità narrante, cioè KRIŜNA, dedica al discepolo in alcuni tratti del Canto. La disamina che la divinità KRIŜNA fa delle due caratteristiche dell’essere umano è, tradotta in maniera un po’ superficiale, come una suddivisione tra chi tende al bene e chi al male. Approfondendo il concetto, KRIŜNA porta al suo allievo Arjuna una serie di considerazioni sull’azione di chi si sta adoperando, con contorta consapevolezza, a progetti senza fine, che terminano (solo) con la morte, prefiggendosi qual meta suprema la soddisfazione dei desideri, sicuri che ciò sia tutto.
Le caratteristiche degli uomini demoniaci, infatti, non si soddisfano esclusivamente nell’ignoranza dell’azione e dell’inazione votandosi quindi alla negazione dell’anima ed esaltando la bestialità della vita ma perseverano nell’idea, purtroppo tradotta in pratica, della distruzione della Natura intesa, chiaramente, come perseveranza dell’insaziabile desiderio, riempiendo di ipocrisia, orgoglio, e arroganza e false idee, coloro i quali si dedicano ad opere sacrileghe, a causa dell’illusione.
Per portare qualche esempio agghiacciante non è più notizia segreta che oggi uomini nati ad un destino diabolico perseguano fini spesso collegati alla morte e nelle loro intenzioni vi è, ormai lo percepiamo con lucida disperazione, la totale cancellazione della vita così come, tradizionalmente, la consideriamo. E non intendiamo la morte in senso tradizionale cioè la festa di passaggio ad altra dimensione, quindi la danza delle foglie che, morendo, si rinnovano come le anime, ma la morte intesa come annullamento della complessità corrente. Quella morte che si automantiene eliminando la vita nell’universo. Come la visione od il disegno di immagini orrorifiche e grottesche che fin da bambino amavo disegnare ed il ri-conoscere la natura dei cattivi (!) mi serve da antidoto per sostenere, purtroppo con lampi di coscienza, il peso sempre più incombente ma inodore del tempo corrente, così il riconoscere la natura di gusci vuoti di coloro i quali si votano, a guisa di veicoli forse inconsapevoli, al male assoluto, curiosamente, mi rincuora. Poiché, proprio come viene forgiato nel verso 5° del bellissimo canto, è detto che il destino divino conduce alla liberazione e il (destino) demoniaco alla cattività, e possiamo leggere il significato di cattività proprio come prigionia.
Alcuni trattatisti che apprezzo molto e che si sono occupati anche di lettura della tradizione indiana come il mio Maestro, il professor Pio Filippani Ronconi, Ananda K. Coomaraswamy e Maria Luisa Kirby individuano nella Bhagavad Gîta una traduzione più comprensibile e, mi si consenta, evangelica, dell’antichissima conoscenza vedica, un componimento dunque avvicinabile ad una Upanişad, sebbene non lo sia dal punto di vista prettamente filologico. La citazione, nell’VIII verso, dell’idea che l’universo sia senza verità, senza base (morale), senza Dio, e da che altro è prodotto se non dal mutuo accoppiamento, causato dalla concupiscenza? cosa ci richiama se non allo smisurato materialismo della contemporaneità?
Cosa ci reca, come significato se non a quello di idea completamente anti-spirituale e, di conseguenza, secondo chi scrive, anti-umana dell’ormai unico credo orientato del pensiero corrente? Ahrimane, forza che Rudolf Steiner individua con estrema lucidità, forse è proprio quell’entità che, permeando l’epoca che viviamo, traduce ogni emozione in una consequenzialità esclusivamente matematica che muta la complessità in equazione riproducibile e, di conseguenza, uniformante. E via di conseguenza, esaltando pensieri distruttivi che non lasciano speranza, condizione perfetta per essere veicoli destino diabolico da cui, forse, desideriamo affrancarci o per lo meno uscirne vittoriosi.
C’è, infatti, una luce in fondo al tunnel da cui non si può ne proseguire né indietreggiare perché intasato dall’incidente. É la luce delle indicazioni che KRIŜNA traduce come insegnamento spirituale, e dunque estremamente pratico, al discepolo Arjuna di casta Ksatriya che lo conduce sul campo di battaglia. Poiché, come recitano i Tantra, le strade che conducono al paradiso sono le stesse che conducono all’inferno, KRIŜNA enuncia con precisione anche le caratteristiche che conducono al destino divino. E quindi l’intrepidità, la purezza di cuore, la perseveranza nella sapienza e nella devozione insieme con la carità e la padronanza di sé, il sacrifizio e lo studio delle Scritture, l’austerità, la rettitudine, l’inoffensività, la veracità, emancipazione dall’ira, la rinunzia e la tranquillità, l’astinenza dalla calunnia e dalla cupidigia, la compassione per tutte le creature, la la mansuetudine, la modestia e l’assenza d’irrequietezza, insieme con l’Energia, la longanimità, la fortezza d’animo, la purezza e la bonarietà, l’assenza di orgoglio sono le virtù, che appartengono a colui che è nato ad un destino divino. In questi versi sono presenti tutti gli aspetti da raggiungere per essere veicolo di un destino divino.
Nella compassione per tutte le creature riconosciamo l’accarezzamento dell’animo come una foglia che quando si piega, portata dal vento, le passa sopra. Nell’intrepidità, ossia nel coraggio riscontriamo la forza d’animo portata avanti, tuttavia, con animo sereno. Nella perseveranza riconosciamo il potere della mente orientata ad un ideale, ad un punto fermo da raggiungere; nella sapienza e nella devozione ritroviamo l’applicazione di quanto la ricerca spirituale ci porta; nella carità scorgiamo il moto dell’animo che ci sprona a comportarci quotidianamente a dare il meglio di noi agli altri, nella Padronanza di sé possiamo individuare il necessario autocontrollo per indirizzare le proprie energie vitali, nel concetto vedico di Sacrifizio ritroviamo la sufficiente padronanza di sé da poter dare qualcosa agli altri identificare un rituale che si colleghi alla Carità di cui sopra; nello Studio delle scritture percepiamo la tensione nell’imparare continuamente attraverso le Scritture, nell’Austerità la rettitudine d’animo che ci conduce alla purezza di cuore ed perseveranza nel raggiungere l’Inoffensività, la Veracità e l’ Emancipazione dall’ira e così via…
“Queste virtù, o Bhârata, appartengono a colui che è nato ad un destino divino”: sono perciò indicazioni per diventare divinità, o conquistare un destino divino, riuscendo un poco alla volta ad incarnare tutti questi punti.
Ecco, secondo chi scrive, si tratta di un manuale antichissimo, pratico ed estremamente attuale per trovare dentro di sé la forza che muove l’essere umano vivente dentro ognuno a non essere cancellato dall’entità smisuratamente potente di cui sentiamo l’alito in questa fase del mondo, ma di anelare all’oltre e di eternare la propria natura spirituale. Forse un poco esagerando, si tratta di una spinta per una rivolta contro il mondo moderno che, diversamente, farebbe tabula rasa della nostra antichissima, martoriata esperienza umana in questo campo di leggi chiamato vita, su questo mondo.
BIBLIOGRAFIA
(1) Vyasa: Bhagavad Gītā, a cura di C. Jinarajadasa, Maria Luisa Kirby, Società teosofica italiana, Trieste 1975.
(2) Ananda K. Coomaraswamy, il Grande brivido, Adelphi 1987.
(3) Vyasa: Bhagavad Gītā, Adelphi 1991.
(4) Pio Filippani-Ronconi, Upanişad antiche e medie, Bollati Boringhieri 2007.
(5) Vyasa: Bhagavad Gītā, con introduzione di Pio Filippani Ronconi, Luni editrice 2013.
Giovanni Antonio Bassoli