Idea: un volume collettaneo su uno dei grandi temi della filosofia – Giovanni Sessa
È nelle librerie, per i tipi di InSchibboleth edizioni, un volume collettaneo significativamente intitolato Idea. Il testo, curato e introdotto da Marco Moschini, inaugura la collana “Nuova Teoretica” e raccoglie undici saggi di filosofi italiani e stranieri (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 248, euro 24,00). Si tratta della trascrizione di un percorso di ricerca iniziato con l’uscita di Nova Theoretica nel 2021 e proseguito con gli incontri di Milano, Castelsardo e Perugia del 2022. A tali eventi presero parte pensatori animati dalla volontà di: «battere la pista di una ricerca filosofica che […] tenta di attraversare itinerari più profondi […] e a volte collaterali a quelli consolidati» (p. 9). Gli autori vicini a questo progetto sono alla ricerca di: «un modo originario di fare filosofia» (p. 9), senza pretesa alcuna di giungere a conclusioni definitive. La cosa è tanto più meritoria in quanto, in queste pagine, al centro della discussione è posto un caposaldo teoretico, l’Idea.
Ci soffermeremo, per ragioni di spazio, solo su alcuni degli scritti presenti nel volume, precisando che anche gli altri sono degni di attenzione. Massimo Donà in, Divisibilità e indivisibilità dell’idea, muove dall’esegesi della predicazione, per la quale in ogni dire conoscitivo di A si dice il suo essere B. Nella sua forma elementare a venire espresso è il convenire che: «implica e concede […] che il conveniente sia “altro” dal soggetto della convenienza medesima» (p. 110). In tale digressione, il filosofo veneziano rileva come l’universale: «determina l’esistenza che vale come suo soggetto, senza dividerla, se non da ciò che quest’ultima esclude in quanto altra esistenza […] Che la determina senza sancire la krisis della sua individualità» (p. 118). Sulla scorta di Porfirio sostiene che l’essere di ogni individuo è uno e identico e non ammette né aumento, né diminuzione. Dai molti si evince che a esistere è sempre un distinto, un de-terminato che, in quanto tale, manifesta l’indivisibilità della divisione esistente: «Dice cioè l’essere […] dice ciò che non è mai quel che è» (p. 119). Ciò in quanto, di fatto, non è la determinatezza che sempre mostra di essere. Anche per Porfirio, infatti, l’unità distinguendosi e moltiplicandosi nel reale non allontana: «la cosa dalla verità dell’universale sommo e intrascendibile» (p. 119).
L’unica reale divisione è quella relativa all’esser presente di Mario, che è altro dall’essere uomo di Andrea, anche se in tale apparire: «è in verità sempre il medesimo mondo» a disegnarsi (p. 121). Se il genere è un tutto e l’individuo una parte è anche vero che il tutto è nelle parti, senza dividersi astrattamente. Per Platone, al contrario, la verità dell’esistente riluce solo nell’universalità dell’eidos, oltre il suo sviluppo temporale. Ma tale eidos, dal punto di vista dell’esperienza individuale, è l’impossibile. Lo spazio dell’idea è puramente affermativo, distino dalla realtà. Può solo essere “ricordato” in quanto: «oggetto di una inappagabile nostalgia» (p. 126). Ciò accade in quanto il grande Ateniese crede di essersi lasciato alle spalle il “non essere assoluto”, attraverso il “non essere relativo”, il diverso: «Eppure il non essere non s’è affatto defilato e respira a pieni polmoni in quella regione quasi inaccessibile» (p. 129). Ma è proprio per il dover concepire relativamente il diverso che: «la regione difficilmente riconoscibile dell’essere non sarà mai propriamente quel che è » (p. 129): l’esistere implica sviluppare la propria natura eidetica nel tempo. È il “non essere” a vivere in: «tutto l’essere che c’è» (p. 133). Donà si confronta, come colto da Perniola, con l’aporeticità della vita. Di fronte a essa il filosofo mostra un’euforica serenità.
Marco Moschini intrattiene il lettore, Sulla sacralità del mondo. Arte e idea. Egli assume la sacralità quale livello in cui: «si offre un “altrove” che qualifica e che mantiene la distinzione tra finito e infinito […] ove le opposizioni si conservano e dove esse si richiamano, si conciliano» (p. 176). L’arte ha valenza sacra quando è esplicitazione dell’implicito: in quest’arte, altra tanto dall’astrattismo come dal mero mimetismo, l’uomo si avverte vivo: «avvolto nell’ombra e nella nebbia del mondo […] anzi immerso in questa umbratilità» (p. 180), che lo induce alla ricerca dellaluce. Artista e fruitore si immergono nell’oltre della vita che è nella vita stessa e nei corpi. É la: «“trascendenza” della cosa singola» (p.181), che traluce nel mondo, trascendenza immanente che disegna la positività del tempo. L’ autore ritiene che l’arte cristiana abbia portato a compimento le intuizioni del mondo antico, cantando: «l’oltre dell’umano come un “presente” qui e ora» (p. 187). Per Moschini l’arte ha tratto sacrale in quanto capace di evocare e “ideare” ciò che merita di essere pensato.
Va segnalato anche il contributo di Michele Ricciotti, Idea e parola nel pensiero di Guido Calogero. In esso, lo studioso muove dall’esegesi della produzione giovanile del pensatore romano per giungere agli Studi sull’eleatismo e all’Estetica. Rispetto al tema indagato, la valenza del logo noetico e di quello estetico in Calogero, Ricciotti giunge a questa conclusione: «L’impressione è che si presenti una oscillazione oltremodo problematica in Calogero, un’indecisione tra Aristotele e Parmenide che, da un lato, lo conduce ad affermare la determinatezza dell’idea […] e dall’altro […] lo porta a separare l’idea dalla parola, istituendone […] il carattere noetico […] con l’esito esiziale di perderne la determinatezza» (pp. 207-208). L’arte, letta quale eidos di un pathos, pur permanendo nella determinatezza: «si sottrarrebbe […] alla sfera della dicibilità» (p. 211).
Infine, cenniamo al saggio di Francesco Valagussa, La separatezza delle idee. L’interpretazione di Carlo Diano. La separatezza delle idee in Platone è, per Diano, in continuità con la visione di Parmenide. Entrambi hanno trascritto sul piano logico gli esiti di un mutamento teologico che in Grecia si ebbe con l’irruzione degli dèi olimpici, che relegarono in posizione subordinata le divinità ctonie. Da allora: «l’eternità non viene più pensata esclusivamente come radicata nella ciclicità perenne del ritmo vitale, bensì alla luce di una totale […] separatezza rispetto al mondo del divenire» (p. 218). L’eterno non muore mai, così si iniziò a pensare. L’idea non poté più essere nominata, non si trattava di un fenomeno, sarebbe stato pertanto necessario ricorrere all’ “alfa privativo” per alludere ad essa. Con Platone, il logos scopre i generi sommi tra cui è possibile costruire interrelazione dialettica, ma non sono più le idee pure. Ecco, dunque, venirci in soccorso Eros, della cui potestas l’Ateniese narra nel Simposio: le idee vanno amate. Così Valagussa: «Noi amiamo le idee, ne siamo affascinati, le inseguiamo e continuiamo a inseguirle» (p. 227), ubi consistam erratico e aporetico del filosofare autentico.
Giovanni Sessa