I collegi sacerdotali di Roma arcaica negli studi storico-religiosi italiani – Claudia Santi
Premessa
Nonostante l’organizzazione sacerdotale costituisca, insieme con il calendario festivo, il principale nucleo documentario per ricostruire la fase arcaica della religione romana, manca a tutt’oggi un’opera che tracci dell’argomento un quadro unitario da una prospettiva storico-religiosa. Nel corso degli ultimi venticinque anni di ricerca, tuttavia, la disciplina storico-religiosa sembra aver raggiunto il duplice l’obiettivo da una parte di eliminare (si spera definitivamente) i pre-giudizi primitivisti che pesavano sull’ermeneutica della religione romana, dall’altra di elaborare adeguati strumenti metodologici in grado di comporre in sinergia i differenti approcci specialistici. E’ quindi oggi possibile delineare una prima sintesi aggiornata degli orientamenti relativi al problema, partendo dalle ricerhe che gli studiosi della cd. Scuola Storico-religiosa di Roma, fondata da R. Pettazzoni, hanno dedicato ad aspetti specifici, ma costitutivi, dell’azione dei principali collegi sacerdotali di Roma arcaica. E’ quanto tenteremo di fare, soffermandoci, in particolare, sulla figura del flamen dialis, e sull’azione dei collegi dei pontifices, degli augures e dei sacerdoti sacris faciundis.
1. Il Flamen Dialis e la teoria religiosa di Iuppiter
Fino alla metà del nostro secolo, la religione romana arcaica veniva comunemente interpretata in chiave evoluzionista-primitivista: i Romani, incapaci di produrre risultati analoghi al livello di maturità raggiunto dai Greci quanto a elaborazione mitologica o creazione artistica, si sarebbero fermati ad uno stadio meno evoluto, più primitivo, senza riuscire mai ad elaborare un maturo sistema politeista. In tale prospettiva, essi non avrebbero neanche posseduto delle autentiche figure divine, ma solo delle forme impersonali (numina) su cui si sarebbe riversato il materiale mitologico greco importato in Roma per acculturazione. In Italia, fu soprattutto Brelich a contrastare le tesi primitiviste, il quale riprese e rielaborò la teoria della demitizzazione elaborata da C. Koch in relazione alla specificità della religione romana che si presenta senza miti teo-cosmogonici; Brelich mostrò come anche al rito fosse pertinente quel valore fondante che è proprio del mito, donde una religione demitizzata, come è quella romana, poteva altrettanto legittimamente essere fondata dal ritualismo. Alla luce della metodologia storico-religiosa, egli ammetteva la possibilità di recuperare perfino le fasi più arcaiche attraverso le quali il pantheon romano aveva raggiunto un carattere compiutamente politeistico. Tali fasi, contro le posizioni ipercritiche cui era pervenuta la filologia, gli apparivano ricostruibili, sottoponendo le testimonianze ad un esame critico sulla base dei criteri del comparativismo e della fenomenologia storico-religiosa (Brelich 1961; Brelich 19762). In uno studio rimasto incompiuto che doveva riguardare Iuppiter e la formazione del politeismo romano, Brelich si misura proprio con il tentativo di recuperare il processo di formazione che ha portato all’elaborazione della figura divina di Iuppiter O.M., rappresentazione religiosa dell’idea di res publica. In uno dei due lavori preparatorii, lo studioso, in forma di appunti, passa in esame le pratiche del flamen dialis, il sacerdote di Iuppiter, movendo dall’ipotesi che, all’interno dell’istituto del flaminato, siano riconoscibili i segnali di una stratificazione, di un processo che abbia portato il sacerdozio ad assumere l’assetto e l’aspetto che ci è testimoniato dalle fonti (Brelich 1972). Il tema non era propriamente inedito: in particolare, G. Dumézil, in un articolo apparso nel 1938, aveva affrontato un problema analogo, ossia la pre-istoria dei flamini maggiori (dialis, martialis e quirinalis). Lo studioso francese, in base alla comparazione con l’area indo-iranica e italica, aveva formulato l’ipotesi che le tre figure sacerdotali, sottoposte nell’ordine gerarchico solo al rex sacrorum, alludessero ad una dimensione più antica di quella testimoniata dalla triade cd. capitolina. Tale raggruppamento (la cd. triade arcaica) replicherebbe, a livello teologico, la divisione della società, ricostruibile presso altre popolazioni di origine i.e., in tre classi, o caste o “funzioni”, quella della sovranità, della forza guerriera, della fecondità e fertilità. In tale contesto, la coppia flamen dialis-rex sacrorum, sarebbe espressione della Prima funzione, quella della sovranità, articolata nei suoi due aspetti, magico e giuridico.
Rispetto all’intepretazione data da Dumézil, Brelich non si pronuncia; egli piuttosto, in relazione alle limitazioni (caerimoniae) cui era sottoposta la persona del flamen dialis ed alle incombenze rituali che gli erano attribuite, da una parte afferma la sostanziale irriducibilità del flamen dialis a sacerdote templare di Iuppiter O.M., dall’altra sottolinea l’esigenza di identificare quale “forma” di Iuppiter abbia di volta in volta agito da referente nei confronti del suo flamen. A giudizio di Brelich, solo il sacrificio annuale a Fides e quello mensile a Iuppiter, in occasione delle Idus, non sarebbero inquadrabili se non nell’ambito di una struttura pre-capitolina, ma già politeista, in cui il dio si avvia ormai ad assumere una posizione sovraordinata, mentre tutte le altre prescrizioni sarebbero, a giudizio dello studioso, perfettamente coerenti, se riferite ad una figura di Iuppiter dio-cielo. Come si può osservare, Brelich pone all’attenzione degli studiosi un problema di rilievo, laddove richiama la necessità di restituire profondità e spessore alla figura divina di Iuppiter; tuttavia appare condizionata pesantemente da una visione evoluzionista soprattutto la soluzione proposta, che vede in un dio-cielo, ovvero in un Essere Supremo pre-politeistico la più antica configurazione di Iuppiter, che per riplasmazione sarebbe giunto alla forma di Iuppiter O.M.. Sulla stessa linea metodologica, ma con esiti assai divergenti, si pone la riflessione portata sul flamen dialis da due studiosi che del Brelich furono allievi, Sabbatucci e Montanari.
Le interdizioni e prescrizioni che gravavano sul flamen dialis sono assunte da Sabbatucci come mezzi di rappresentazione per risalire alla teoria romana di Iuppiter in riferimento “agli altri sacerdozi pubblici di Roma ed al pantheon romano nel suo complesso”, all’interno di un saggio, Lo stato come conquista culturale, che segue a distanza di pochi anni la bozza di studio di A. Brelich (Sabbatucci 1975). Sabbatucci, attraverso un confronto tra flamen dialis sacerdote di Iuppiter e rex sacrorum -definito da Wissowa quasi un sacerdote di Ianus- riordina, in termini di dialettiche religiose, una serie di elementi, all’apparenza irrelati tra loro. Così la condizione del flamen esprimerebbe l’essere, ossia il carattere di stabilità, festività, libertà proprio di Iuppiter, anche attraverso la incompatibilità con quanto attiene alla sfera della guerra (cavallo, esercito in armi, ferro). Per contro, Ianus rappresenterebbe il “divenire” e dunque anche la guerra, come sua forma perspicua, così come la pace (sotto il segno di Iuppiter) poteva venire intesa come la forma perspicua dell’essere. Ai fini di questa ricostruzione, piuttosto che Iuppiter O.M. appare significativa la figura di Iuppiter Stator, in cui, secondo Sabbatucci si renderebbe manifesto come il dio supremo, anche quando intervenga nella guerra, ossia in una sfera che esula dalla dimensione di “stabilità” che egli esprime, agisca imponendo una stasi, un congelamento della situazione. Ma attraverso questa analisi, Sabbatucci può anche sottoporre ad esame critico alcune delle conclusioni, raggiunte da Dumézil. Nello specifico, restando sull’episodio che ha portato all’introduzione del culto di Iuppiter Stator, Sabbatucci non ritiene che l’intervento del dio in quell’episodio bellico rimandi ad una sovranità magica per Dumézil rappresentata da Iuppiter, in quanto la contrapposizione tra l’azione del dio supremo e l’azione propriamente militare emergerebbe, senza ricorrere alla magia, facendo riferimento al distanziamento rituale dalle cose di guerra prescritto al flamen dialis. Se fosse la magia a differenziare Iuppiter ed il suo flamen, si chiede Sabbatucci, che senso avrebbe “proibire a un <<mago>> di vedere un esercito in armi, di montare a cavallo, o di avere a che fare con il ferro?”.
Sabbatucci supera i residui primitivisti di Brelich, come depura la teoria trifunzionale di Dumézil da sfumature magiste, anche in relazione alla figura divina di Quirinus, della quale contesta sia l’intepretazione di Brelich (Brelich 1960) come dema, sia quella a suo modo agraria di Dumézil: si tratterebbe piuttosto, secondo Sabbatucci, di una sovranità, per così dire, quiritaria, ossia esercitata sui cives uniti in co-viriae(>curiae), cui sarebbe correlata la regalità super-etnica di Iuppiter e quella civica di Mars (Sabbatucci 1984). Alla definizione del rapporto Iuppiter-sovranità concorre anche l’analisi di E. Montanari, che si concentra sul problema posto dalla partecipazione del flamen dialis alla festa dei Vinalia (Montanari 1988). Montanari mostra di non condividere le tesi di Brelich, non solo laddove questi interpreta Iuppiter come forma evoluta di un dio-cielo, ma anche laddove afferma l’assenza di ogni implicazione politica nell’agire del sacerdote dialis. Per Montanari, al contrario, la sfera della sovranità del dio non si risolverebbe entro una dimensione puramente celeste, come pure l’attrazione del vino nell’orbita di Iuppiter non relegherebbe questa bevanda entro una dimensione esclusivamente agraria. Un carattere “politico” dell’auspicatio vindemiae, prerogativa del flamen dialis, appare infatti ricostruibile, per Montanari, non solo sulla base del mito etiologico della festa dei Vinalia priora, ma anche dell’esame dell’intero complesso ideologico-religioso che al vino fa capo. In tale prospettiva, tale elemento, lungi dal risolversi in un uso squisitamente alimentare, neanche assume una funzione inebriante; piuttosto esso sarebbe uno dei “segni” connesso alla victoria come modalità della sovranità del dio, il cui culto riveste particolare importanza nel feriale di Aprile, mese nel quale Iuppiter, oltre ad intervenire attraverso il suo flamen nei Vinalia del 13, era celebrato nelle epiclesi di Victor e di Libertas.
2. L’azione dei Pontifices
Il profondo rinnovamento degli studi storico-religiosi giunge a conseguire, a nostro avviso, i risultati più cospicui, laddove si applica all’analisi del campo di azione dell’altro grande corpo sacerdotale di Roma arcaica, quello dei pontifices. In questo settore si segnalano ancora soprattutto le ricerche di Sabbatucci, e di Montanari che, nell’ambito della teoria della demitizzazione, si sviluppano sui due assi principali della demitizzazione come storificazione e della demitizzazione come ritualismo (anche giuridico). Già Brelich, nel 1938 nell’articolo Il mito nella storia di Cecilio Metello, aveva focalizzato la presenza di temi mitici all’interno di un tessuto storico-narrativo, ipotizzando un passaggio del mito alla storia piuttosto che dal mito alla storia (Brelich 1938). Parallelamente, G. Dumézil, nel corso degli anni Quaranta aveva isolato, nella protostoria di Roma, la presenza di temi mitici, divini o eroici, dei quali in Roma erano stati investiti i personaggi del periodo monarchico o dei primi secoli della res publica. Sabbatucci amplia questa prospettiva in varie direzioni (Sabbatucci 1975). Innanzitutto egli propone un sistema di lettura dei cinquanta anni di storia di Livio dal 445 al 390 a.C. come “cicli narrativi” capaci di esprimere un messaggio religioso e civico insieme: non si tratterebbe più, come per Dumézil, di frammenti mitici più o meno ampi incastonati in un complesso narrativo “indifferente”, ma dell’organizzazione in forma mitistorica di un intero complesso ideologico religioso-costituzionale. Sabbatucci ritiene di poter rilevare la presenza di almeno due cicli: 1) il ciclo della censura 2) il ciclo della concordia. La vera novità della ricerca, oltre alla lettura della storia, di tutta la storia, con gli stessi strumenti e nella stessa ottica in cui si legge un mito, consiste nell’affermazione della sostanziale omogeneità tra idea religiosa ed idea giuridica: come si può osservare, non sussiste, per Sabbatucci, una reale distinzione tra il primo ciclo, imperniato sull’istituzione di una magistratura, ed il secondo che celebra la composizione del dissidio tra gli ordines e l’instaurasi della concordia, intesa sia come condizione politica sia come astrazione personificata corrispondente ad un’idea religiosa. Il quadro è perfettamente coerente e coeso; anche troppo per non essere frutto di una “costruzione”. Operazioni di tale complessità, infatti, secondo Sabbatucci, non possono essere proiettate su una nebulosa preistoria i.e., né essere attribuite ad una qualità psicologica estesa a tutti i Romani. Questa azione storificante avrebbe avuto un suo agente specifico, i pontifices, i quali avrebbero operato secondo quello che Sabbatucci definisce un orientamento attualistico: tale “<<attualismo>> consisterebbe nel trasferimento al tempo storico di ogni eventuale valenza mitica: la <<sacralità>> o la funzione di dare valori metastorici viene sottratta al <<tempo mitico>>.”. E il <<tempo mitico>> viene a perdere così ogni funzione.
In un lavoro successivo, Sabbatucci prende in esame la prerogativa, attribuita ai pontifices di organizzare il tempo non solo in senso diacronico, costruendo e ricostruendo il serbatoio della memoria pubblica, ma anche in senso sincronico attraverso l’organizzazione del calendario (Sabbatucci 1978). Vi viene presa in considerazione la definizione del tempo e dello spazio in relazione all’istituto della regalità, allargando, o meglio, portando una comparazione allargata alla Mezzaluna Fertile. I complessi meccanismi che presiedevano alla elaborazione del sistema di computo del tempo in Roma sono ricostruiti con una acutezza, che in questa sede è impossibile rendere. Ma ciò che soprattutto caratterizza l’approccio di Sabbatucci al problema è il carattere empirico della ricerca: come afferma lo stesso autore, le riflessioni riportate nel testo a proposito della sistemazione del calendario romano arcaico, sono frutto anche di un’osservazione autoptica delle fasi lunari condotta nel corso di un anno intero. Se l’indagine di Sabbatucci prende in considerazione innanzi tutto i meccanismi che hanno agito per grandi direttrici, è con il contributo di Montanari che l’analisi della demitizzazione come storificazione, nell’ambito dell’attività annalistica dei pontifices, si rivolge allo studio di meccanismi ed ingranaggi più minuti, e perciò anche più delicati (Montanari 1990). In particolare, si deve a questo studioso la definizione di alcuni aspetti nodali connessi al rapporto tra annalistica pontificale e annalistica letteraria. Le due produzioni si rivelano sostanzialmente omogenee, da un punto di vista non solo materiale, ma anche per quanto attiene agli estensori. Nell’attività di redazione di annales cooperano, infatti, magistrati e sacerdoti appartenenti ad un unico ambiente, a quella nobilitas senatorio-magistratuale che nel corso del III e del II secolo a.C. espresse le più illustri figure di senatori-storici e di pontifices di cui è giunta memoria. Il processo di storificazione dei miti in Montanari perde quel carattere di azione, in un certo senso, meccanica che poteva avere ancora in Sabbatucci. Così anche l’intervento pontificale, inserito in una più ampia dinamica culturale che viene a coinvolgere l’intera élite, recupera una sua profondità di prospettiva, non configurandosi più come l’agire di una sorta di corpo separato. L’analisi di Montanari si appunta anche su un’altra crux, ossia sul problema dell’attribuzione di nomi di gentes storiche a personaggi delle origini e dei primi secoli della res publica. Come è noto, Dumézil aveva liquidato l’intera questione, ritenendo che un’indagine condotta in tal senso non avrebbe fatto altro che aggiungere incertezze ulteriori alle difficoltà già considerevoli poste dagli intrecci narrativi. Così facendo, tuttavia, restava preclusa la possibilità di investigare su uno dei punti di raccordo tra protostoria e storia repubblicana, e quindi di intersezione tra livello “storico” e livello “leggendario”. Montanari muove dall’ipotesi che non possa essere privo di significato il fatto che un’azione sia attribuita all’esponente di una gens, piuttosto che di un’altra. Analogamente egli ritiene che non esistano confini definiti tra mito e storia, ma che al contrario la capacità fabulatoria di rielaborare secondo funzioni e temi mitici si estenda ben al di là del limite acettato convenzionalemente. Una stessa “qualità mitica” consente di delimitare all’interno dell’annalistica un ambito entro cui collocare le azioni “storiche” dei Caecilii, che trova i suoi antecedenti non solo nella gesta mitistoriche attibuite a Cocles ma anche, ancora più indietro, nelle imprese dei personaggi mitici della serie Cacus-Kyclops-Caeculus. Se da una parte, temi e funzioni mitiche orientano la rappresentazione di atti storici, dall’altra la rappresentazione e l’autorappresentazione di personaggi storici si orienta verso l’esemplarità ereditata. E’ il caso dei Mucii Scaevolae: la fides che i Mucii Scaevolae storici ereditano come tradizione dal loro antenato “eroico” fa sì che essi “si riconoscano nel primo portatore del nome familiare, ma anche che vengano pubblicamente riconosciuti in base a quel comportamento.”.
Sulla stessa linea metodologica, segnaliamo un nostro lavoro che, partendo dall’indagine sulla complessa tradizione che ruota intorno alla figura di Numa, ha consentito di isolare all’interno della vulgata dei nuclei che per le loro caratteristiche possono ritenersi arcaici: il tema di Numa pitagorico, le historiolae di sapore popolaresco-folklorico che lo vedono come protagonista insieme alla ninfa Egeria, la tradizione delle cd. famiglie numaiche mostrano i segni di una stratificazione che, per i frammenti più arcaici, sembra con ogni probabilità risalire almeno al IV secolo a.C. (Santi 1993). Ancora il processo di storificazione dei miti è oggetto di indagine nel lavoro di V.E. Vernole, dedicato alla figura ed all’epopea di Furius Camillus (Vernole 1997). L’analisi si appunta sugli avvenimenti relativi alla presa di Veio, riconsiderando i principali problemi e giungendo alle conclusioni più originali soprattutto nell’analisi del cognomen Camillus: dal confronto con le altre figure che recano questo nome (la vergine Camilla; i Cadmilli, ministri del culto dei “Grandi Dei”; il camillus, giovane patrizio adiutore del flamen Dialis) scaturisce l’ipotesi che la subordinazione del camillus romano alla sfera di Giove risponda ad una coerente struttura ideologica, che se da un lato ammette la nozione religiosa di un dio servitore o intermediario e del suo corrispettivo umano, dall’altro separa tale nozione da ogni commistione con elementi dionisiaci e misterici.
3. Sacra e iura.
Abbiamo parlato a proposito del processo di storificazione dei miti di un orientamento attualistico che Sabbatucci ritenne di poter rilevare nella produzione annalistica elaborata dai pontifices; dobbiamo aggiungere ora che analogo orientamento Sabbatucci pensò di riconoscere, anche nell’altra attività demandata al collegio sacedotale, l’azione giuridica (e/o giurisprudenziale) (Sabbatucci 1975). Anche in questo campo, Sabbatucci liquida definitivamente le teorie primitiviste e nello specifico magiste diffuse non solo nel campo degli studi storico-religiosi, ma anche in campo giuridico, contestandone l’utilità piuttosto che la fondatezza. I rilievi critici dello studioso si indirizzano soprattutto alle interpretazioni in chiave magico-dinamica delle procedure del postem tenere; dell’investitura dei pater patratus (capo dei fetiales); della legis actio sacramento in rem; della manumissio per vindictam. Ammessa, senza discussione, l’attendibilità delle formule e l’arcaicità delle procedure, Sabbatucci contesta in particolar modo l’interpretazione come trasferimento di potenza dell’atto del toccare, presente in tutte le fattispecie esaminate: si tratterebbe piuttosto, per Sabbatucci, di un contatto che non contagia ma che serve per affermare una proprietà proprio nel momento che prelude all’alienazione dell’oggetto (o del sacerdos) e dunque di una sorta di estensione analogica del principio che sta alla base dell’istituto del mancipium. Al di là delle conclusioni, lo studio di Sabbatucci (che risale al 1975) è un esempio di ricerca in cui lo storico delle religioni si avventura anche sul terreno giuridico e la metodologia storico-religiosa si rivolge all’esame di materiale di natura non strettamente cultuale; ci sembra da segnalare soprattutto l’applicazione anche a questo campo del procedimento della comparazione interna volta al rilevamento di costanti e di varianti, per ricostruire una struttura o un sistema di relazioni. La teoria religiosa, infatti, si rivela agli occhi di Sabbatucci, come coincidente con la teoria giuridica: più volte lo studioso sottolinea la sostanziale unicità dei due campi, che a suo giudizio si sostanzierebbe soprattutto nel sistema di opposizioni publicus/privatus = sacer/profanus. Sabbatucci propone di interpretare questa formula, che secondo la definizione oraziana sintetizzerebbe la sapientia più antica, come il prodotto di una rivoluzione che avrebbe portato il termine profanus, (che egli intende senz’altro come a favore del fanum = unità territoriale templare) a correlarsi dialetticamente non più a pro priuo ma a sacer. In questo equilibrio, che coinciderebbe per Sabbatucci con l’avvento della res publica, sacer e publicus verrebbero ad essere termini solidali, in polemica con l’assetto di una società pre-civica ordinata per fana, ricostruibile in via puramente ipotetica come fase logica (se non cronologica) che precede la costituzione della civitas. Molto nell’analisi di Sabbatucci resta inevitabilmente allo stadio di congettura; ciò non di meno, ci appare che nella ricostruzione da lui operata sia innegabile il dato per cui Roma si costituì come Urbs anche sul rifiuto della città templare.
In un recentissimo contributo, Montanari ha ritenuto di poter suggerire un ruolo determinante dei pontifices, anche in relazione all’elaborazione del concetto di persona (Montanari 1997; Montanari 1998). Montanari prende le mosse dai problemi insiti nell’opinione prevalente secondo cui il termine persona avrebbe avuto in origine il significato di ‘maschera teatrale’ e quindi di ‘personaggio’ e ‘parte’; di qui sarebbe trapassato in ambito giuridico. Questa posizione obbliga a collocare l’insorgenza dell’uso di persona in ambito giuridico in epoca non anteriore alla fine del IV secolo a.C., essendo a tale data ascrivibile l’introduzione in Roma della più antica maschera teatrale, l’atellanica. Ora l’esame interno di alcuni aspetti della legis actio sacramento in personam rivelerebbero al contrario caratteri di marcata arcaicità in contrasto con questa datazione relativamente bassa. Da una simile aporia non si esce se non ipotizzando una linea di derivazione alternativa a quella così prospettata. L’alternativa può rinvenirsi, a parere di Montanari, nel phersu, enigmatica figura rappresentata in pitture parietali e vascolari etrusche e documentata a partire dall’ultimo quarto del VI secolo a.C.. L’esame del dossier del phersu rivelerebbe, a parere di Montanari, il carattere di operatore del sacro della figura in questione, dotata di una certa versatilità (tanto da comparire in contesti ‘festivi’ agonistico-liturgici, nonché funerari), ma identificabile sulla base della presenza della maschera, unico elemento fisso (dal momento che neanche l’abbigliamento lo è). Appare quindi per lo meno plausibile che i Romani, proprio nell’età che coincide con il periodo di massima influenza etrusca abbiano assimilato e rielaborato un termine specifico phersu-na ‘attrezzo del phersu’, essendo in questo caso l’ampliamento -na da intendersi come suffisso di appartenenza. Procedendo su questa linea di ricerca, si può tentare anche di ricostruire i tempi e i modi di questa acquisizione. “Se si ammette, ad esempio, che un uso tra i più antichi sia legato al diritto processuale civile, è ben difficile che la procedura della legis actio sacramento in personam si possa considerare introdotta solo dopo il teatro, ossia almeno nel tardo IV secolo a.C..” La risalenza della procedura appare sufficientemente accreditata anche dal suo carattere di actio generalis al pari della legis actio sacramento in rem, della quale dovrebbe essere coeva. La data più ammissibile, per l’una e per l’altra, non dovrebbe, secondo Montanari, scendere al di sotto della seconda metà del V secolo a.C.. Persona entrerebbe in contesti giuridici a designare ‘ il ruolo religioso-giuridico degli uomini’ ed in particolare, in origine, del pater familias, il quale esercitava una potestas non illimitata, ma soggetta a regole. Indissolubilmente legata ad homo, persona non coinciderebbe con questo livello biologico dell’individuo (pur non potendosi attribuire ad altri che a figure umane), ma sarebbe piuttosto espressione di una natura seconda determinata da relazioni. A promuovere questa definizione e questa astrazione, in un contesto culturale-linguistico, come quello Romano, così alieno dall’uso di metafore, sarebbero stati, in ipotesi, per Montanari, i pontifices, che potrtebbero aver operato in questo caso una ri-nazionalizzazione di un elemento culturale penetrato in Roma con la dinastia etrusca. Tale ipotesi consentirebbe di inserire in un quadro cronologico più persuasivo l’arcaica procedura della legis actio sacramento in personam, stabilendo una coincidenza temporale tra attestazioni iconografiche del phersu ed insorgenza del concetto giuridico di persona.
4. Divinazione e demitizzazione
Abbiamo già parlato del sedimentarsi della memoria delle res gestae populi Romani. Il quadro, tuttavia, non sarebbe completo, se non accennassimo, in chiusura, ai due collegi degli augures e dei sacerdoti sacris faciundis, che presiedevano, per quanto era nei loro poteri, alla fase per così dire progettuale. In un articolo ampio e assai accurato, G. Piccaluga, alla fine degli anni Sessanta, ha esaminato l’intero dossier di Attus Navius, protagonista di un famoso episodio ambientato sotto il regno di Tarquinius (Piccaluga 1969). Alcuni dei passaggi più problematici, che sembrano contrastare con la realtà storica della pratica dell’augurato, troverebbero, a giudizio della studiosa, soluzione nella prospettiva di un istituto che ancora non ha assunto i suoi caratteri definitivi e che pertanto potrebbe raffigurare in Attus Navius e nella sua azione carismatica quasi il corrispettivo romano di un “mito” di fondazione. Al rilevamento di una dialettica augures -sacerdoti sacris faciundis si rivolge l’analisi di Sabbatucci, i cui risultati appaiono sintetizzabili nelle formule il “mondo-da-scrivere” ed il “mondo-da-leggere” (Sabbatucci 1989). A suo giudizio il compito affidato agli augures di indagare la disposizione degli dei in ordine ad un’azione da intraprendere, interpretando il manifestarsi di segni all’interno di uno spazio celeste pre-scritto (“mondo-da-scrivere”) poteva porsi in relazione alternativa con l’incombenza demandata al collegio sacris faciundis di derivare dalla lettura di un repertorio oracolare, i cd. libri Sibyllini, i mezzi cultuali con cui ripristinare la pax deorum, la cui frattura si era palesata con il verificarsi di prodigia (“mondo-da-leggere”). Le due pratiche appaiono a Sabbatucci afferenti ad ambiti dialetticamente correlati, per cui l’uno presuppone l’altro e ognuno entra in funzione quando l’altro è in crisi: in una situazione di normalità si ricorre all’auguratio, allorché l’ordine naturale si incrina, viene decretata la lettura dei libri Sibyllini. La parte più originale e persuasiva dell’analisi di Sabbatucci è rappresentata dalle pagine in cui viene tratteggiata una sorta di genealogia istituzionale, combinando in un’unica lettura le vicende che portano al passaggio dei tribuni plebis da 5 a 10 (bini ex singulis classibus) e dei duoviri s.f. di estrazione patrizia ai decemviri s.f. in un organismo ormai paritetico che attribuisce uguale peso ai componenti patrizi e a quelli plebei (367 a.C.). La collegialità denaria (simbolo di democrazia anche in Grecia) è interpretata da Sabbatucci come una formula di concordia, sia a livello sacerdotale che a livello magistratuale. Ancora una volta l’indagine di Sabbatucci si appunta su aspetti della storia religiosa e costituzionale di Roma; ancora una volta con questo studioso, la metodologia storico-religiosa si applica ad istituti religiosi e giuridico-magistratuali.
Se l’augurato si lega tra l’altro al carisma individuale di Attus Navius ed al rifiuto della figura del rex-augur, come espressione di una fase irrecuperabile, il collegio dei sacerdoti sacris faciundis, al contrario, non presenta alcuna proiezione mitica fondante in età regia. Anzi, nella ricostruzione dell’età regia il significato infausto associato alla nozione di prodigium è risultato negli studi condotti da chi scrive non ancora esclusivo (e neanche prevalente): il termine, che appare molto prossimo alla sfera semantica di ostentum e di portentum, poteva caricarsi infatti di valori sia favorevoli che sfavorevoli (Santi 1996). Se tale è quindi in origine il senso del termine, più della cerimonia di espiazione, che spesso manca nei prodigi di età arcaica, risulta importante l’esatta decodifica del messaggio che si esprime attraverso il prodigium. E’ questa intonazione profetica un segnale di distanza tra il sistema di valori dell’età monarchica e quello dell’età repubblicana. Nel passaggio dal regnum alla res publica sembra si sia modificato il modo di percezione del prodigium e la sua funzione: al tempo stesso causa e conseguenza di questa alterazione di equilibrio sarebbe stata l’istituzione del collegio dei sacerdoti sacris faciundis, interpreti dei responsa custoditi nei libri Sibyllini, ma privi di qualsiasi “carisma” divinatorio. In epoca repubblicana ogni annuncio di prodigi era interpretato infatti come una rottura della pax deorum, il cui ripristino necessitava non di sottigliezze ermeneutiche, bensì di procedure cultuali efficaci. L’intervento dei sacerdoti-magistrati preposti poteva prescindere così da un’esegesi del prodigio e restringere il proprio campo di azione alla ricerca delle modalità di soluzione della fase problematica; il procedimento divinatorio, che si trovava in tal modo ad essere sollevato da ogni prospettiva volta alla ricognizione sia del futuro sia del passato, si risolveva integralmente nell’attualità dell’indicazione del piaculum da effettuare (Santi 1994). Lo spostamento ordinato da Augusto dei libri Sibyllini dal Campidoglio al Palatino, con il conseguente passaggio della tutela da Iuppiter O.M. ad Apollo, sta ad indicare un nuovo orientamento religioso: questo trasferimento, oltre a suggerire una complementarità tra la funzione esplicata dai sacerdoti sacris faciundis e l’azione salvifica metastorica del dio, sembra sottintendere una diretta derivazione dei libri da Apollo, secondo una visione avvalorata anche dalla leggenda virgiliana della Sibylla. In tale contesto, emergono i segni di una più marcata acculturazione, laddove il rapporto libri Sibyllini-Iuppiter O.M. era il risultato di una riplasmazione in termini originali del complesso acquisito. Mentre in Grecia il sibillinismo è un fenomeno connesso alla sfera di Apollo e della mantica ispirata, il fatto che a Roma la raccolta oracolare consultata dai decemviri sia ospitata nelle fondamenta del tempio Capitolino sottintende innanzi tutto una tutela da parte del dio garante dei patti e della pax metastorica (Santi 1985). Non solo. Trovandosi ad operare la sua forma di divinazione sotto il segno di Iuppiter ed entro i confini del suo templum (l’espressione libros adire mostra senza dubbio che i libri non venivano spostati in occasione della consultazione e che erano i sacerdoti a recarsi nel luogo in cui erano custoditi) il collegio sacerdotale dei decemviri s. f. era chiamato a replicare tutti i tratti caratteristici della suprema divinità del pantheon romano, e in primo luogo la ratio, intesa in questo caso come attitudine a ordinare al fine della salus rei publicae un materiale oracolare per sua natura “sibillino”. Alla discesa materiale nei penetralia del tempio capitolino corrispondeva, in senso figurato, un’immersione in quella dimensione “sibillino-oracolare” che precedeva l’ordo rerum istituito da Iuppiter O.M. e che poteva sopravvivere solo in questo specifico ambito, letteralmente sottoposta alla ratio ordinatrice del dio supremo.
NOTA BIBLIOGRAFICA (*)
(*) La nota bibliografica si riferisce solo alle opere di Storici delle religioni italiani prese in esame nel testo.
Brelich 1938 – A. Brelich, Il mito nella storia di Cecilio Metello, “SMSR” 14 (1938), pp. 30-41.
Brelich 1960 – A. Brelich, Quirinus: una divinità romana alla luce della comparazione storica, “SMSR” 31 (1960), pp. 63-119.
Brelich 1961 – A. Brelich, Un libro dannoso: la “Römische Religionsgeschichte” di Kurt Latte (München 1960), “SMSR” 32 (1961), pp. 311-354.
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Prof. ssa Claudia Santi
Università della Campania Luigi Vanvitelli
Dipartimento di Lettere e Beni Culturali