Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
I Carmina Burana e la poesia indoeuropea – Rosa Ronzitti
1. Nell’intento di dimostrare che le tradizioni euroasiatiche proseguono ben oltre quanto si ritenga comunemente e in forme strutturate come quelle della versificazione poetica, proponiamo un confronto tra alcuni componimenti dei Carmina Burana e testi che provengono da India, Grecia, Roma e mondo scandinavo. Sin da subito tale operazione si presenta complessa, perché mette insieme materiale molto diverso per epoca, arealità e carattere. Tuttavia tale complessità, lungi dal rappresentare un ostacolo, è invece da stimolo al riconoscimento di eventuali percorsi carsici, ovvero sotterranei, che alcune forme poetiche risalenti alla preistoria affrontarono prima di riemergere grazie alla scrittura e alla fusione della cultura latino-cristiana con tradizioni locali che continuavano ininterrottamente l’indoeuropeo di determinate aree geografiche.
2. L’area germanica produce, come ben si sa, quel fenomeno di poesia goliardica che va sotto il nome di Carmina Burana (d’ora in poi CB), una silloge scritta per lo più in latino medioevale e conservata in un manoscritto bavarese del 1230 circa, ma sicuramente anteriore[1].
Fra i carmi di intento satirico e moraleggiante (1.-55.), il primo e l’undicesimo si scagliano contro la trionfante economia monetaria e i suoi servi. Diremmo anzi che si tratta di un attacco al Nummus, il dio-denaro, vero e unico dominatore del mondo secondo un topos allora tanto in voga da essere proposto e meditato all’interno delle scuole e certamente sempre attuale. In quest’ambito specifico le fonti dei CB risalgono in prima istanza a modelli tardo-antichi (per esempio la famosa Coena Cypriani); la satira contro l’avidità del clero, inoltre, già circolava per l’Europa sotto forma di scritti parodistici e di canti goliardici assai affini allo spirito e agli ambienti dei Carmina (una redazione del famoso Evangelium secundum marcas argenti è in CB 44.). Tutto ciò è stato raccolto e debitamente segnalato da Paul Lehmann in una monografia a tutt’oggi indispensabile [Lehmann 1922][2]. Su note satirico-pauperistiche fioriscono poemetti medioinglesi e francesi che arrivano (almeno) al XV secolo: «By 1440 Almighty Dollar had been depicted as a knight, a lady, a king, a queen, a sainted martyr, a pope, even a god» ha scritto Yunck [1961: 207] in uno studio dedicato alle personificazioni della moneta nella letteratura di quel periodo.
I due carmina di cui ci occupiamo (in special modo il secondo) sono caratterizzati dal fatto che basano il proprio ritmo poetico e sintattico sull’iterazione della parola-guida, il sostantivo maschile nummus. Nell’inno 1. nummus è ripetuto sei volte nei primi dieci versi (cinque nominativi e un dativo)[3]:
Manus ferens munera
pium facit impium;
nummus iungit federa,
nummus dat consilium;
nummus lenit aspera,
nummus sedat prelium.
nummus in prelatis
est pro iure satis;
nummo locum datis
vos, qui iudicatis.
Nel prosieguo la ripetizione si fa meno incalzante e il componimento termina con una curiosa e umoristica riflessione su tre casi grammaticali, ablativo, dativo e genitivo, sulla quale torneremo in seguito.
Il carme 11. è ancor più significativo. Si tratta di cinquanta esametri leonini, composti da due emistichi rimati e separati da una cesura pentemimera. La parola chiave compare in ogni verso e quasi esclusivamente in posizione incipitaria, con pochissime eccezioni[4]. In più, i vv. 11 e 43 presentano nummus due volte, in principio di ciascun emistichio.
Poiché il nominativo nummus viene continuamente ripetuto (se ne ha un’ininterrotta sequenza dal v. 6 al v. 28), appare chiaro che la figura retorica prevalente è di gran lunga l’anafora. È altresì vero che la pura ripetizione del nominativo viene spezzata dall’uso di forme declinate, p. es. ai vv. 3-5:
Nummo venalis …
Nummus in abbatum …
Nummum nigrorum …
Si ottiene così, anche visivamente non meno che nella recitazione, un’intelaiatura stilistica molto ripetitiva e prevedibile che si attesta su alcuni moduli sintattici di base: il nominativo nummus seguito da un verbo alla terza persona singolare (attivo a passivo) oppure il nominativo nummus seguito da un nominale (spesso un accusativo) retto da verbi che si trovano nel secondo emistichio. Solo nell’ultima parte si ha qualche variazione: l’autore entra in prima persona a commentare (Vidi … Vidi) e la fine è sentenziosa e sdegnosa (Ex hac esse schola non vult Sapientia sola). Solo in apertura e al v. 49 si trovano due nummus in ultima posizione (risp. In terra summus rex est hoc tempore Nummus … e Sed quia consumi poterit cito gloria Nummi) e ciò non può essere casuale: la deviazione dal generale principio incipitario assume un forte rilievo stilistico contrastivo proprio alle due estremità del carmen.
3. Il testo, si diceva, è una giocosa denuncia del soldo, che regna ovunque supremo: i sovrani della terra, il papa, il clero, i giudici e persino le autorità militari gli sono schiavi (vv. 2-7). Esso viene definito, tra l’altro, deus (v. 14) e rex magnus (v. 22). Al v. 29 una nuova sequenza, introdotta dal sintagma In Nummi mensa, apre la seconda parte del componimento, in cui il denaro, eccessivo in ogni suo aspetto, divora, tracanna, porta vesti di lusso, recita qualunque parte, mostra un volto e subito dopo il suo contrario: l’alternanza dei casi grammaticali riflette efficacemente l’alternanza dei ruoli semantico-sintattici (Vidi cantantem Nummum missam celebrantem/ Nummus cantabat, Nummus responsa parabat, vv. 42-43).
Fitti gli echi biblici: dal Libro dei Re all’Ecclesiastico, dal Deuteronomio a Isaia e a Matteo. Una citazione ciceroniana sarebbe nel v. 38: Hic egros sanat, secat, urit et aspera planat ~ id uri secarique patimur (Fil. VIII 15), che suona in ogni caso molto evangelico nel suo spirito miracolistico.
A nostro avviso, possiamo annoverare tra le fonti anche un passo del Satyricon di Petronio. Ricordiamo che Petronio era noto in ambienti ristretti della cultura inglese e francese medioevale a partire da una silloge composta nelle scuole francesi dell’età carolingia, assai prima che nel Quattrocento iniziasse una conoscenza più completa della sua opera grazie all’attività di alcuni grandi umanisti. Ebbene, quasi all’inizio del romanzo (§ 14) il giovane Ascilto si chiede se sottoporre a giudizio la restituzione di una tunica rubatagli da un contadino; ma da solo si dà un’amara risposta in distici elegiaci:
Quid faciant leges, ubi sola pecunia regnat,
aut ubi paupertas vincere nulla potest?
Ipsi qui Cynica traducunt tempora pera,
non numquam nummis vendere vera solent.
Ergo iudicium nihil est nisi publica merces,
atque eques in causa qui sedet, empta probat
‘A che servirebbero le leggi dove sola regna la moneta
o dove la povertà non può vincere?
Gli stessi che disonorano il loro tempo con la bisaccia cinica
non di rado vendono la verità per soldi.
Dunque non vi è alcun giudizio se non la pubblica ricompensa
e il giudice equestre che sta seduto in tribunale approva il mercimonio’[5].
Come si vede, il lamento del chierico medievale è lo stesso di Ascilto, e patenti sono le riprese lessicali: è vero che il cambio di genere trasforma la pecunia regina nel virile rex magnus, ma il nummis del quarto verso subito ci riporta al nostro nummus e il riferimento alla causa giudiziaria e alla compravendita delle sentenze è ben presente tanto nel testo latino quanto in quello medioevale, che si sofferma volentieri sulla figura del giudice corrotto. Non manca in entrambi l’amara constatazione che gli uomini di studio e i filosofi si fanno lusingare dalla sirena del denaro (Ipsi qui Cynica traducunt tempora pera etc. ~ Nummus corda necat sapientium, lumina cecat).
5. La presenza di questi modelli culturali forti e incontrovertibili (nel Medioevo europeo la latinità classica e cristiana costituisce l’intertestualità condivisa della comunità intellettuale) non ci esime dall’aggiungere che essi potrebbero riflettere e riprodurre anche tradizioni poetiche indigene, quindi propriamente indoeuropee, nelle quali la peculiare forma stilistica dell’anafora-poliptoto e l’intento celebrativo (sia pure in parodia) di un ente onnipotente, onnipresente e versatile, sono tra loro strettamente legati da un principio iconico elementare: se esiste un essere che è ovunque, domina tutto e fa tutto, i lunghi elenchi di epiteti e azioni sono finalizzati a rispecchiarne appieno la natura. Inoltre, anche il suo nome deve occupare ogni verso, ripetersi e dispiegarsi pienamente nei vari casi grammaticali. In tal modo “teologia” e grammatica appaiono legate da un rapporto consustanziale, intimo, necessario e non accessorio: declinare il teonimo significa a tutti gli effetti rappresentare l’essenza divina nella sua interezza[6].
Di tipologie testuali innologiche è però difficile trovare tracce nell’area celto-germanica[7] sia per il tardo emergere della scrittura (e solo in concomitanza con la cristianizzazione) sia per la progressiva messa al bando del paganesimo con le sue tradizioni compositive e tematiche[8].
Nell’antica poesia in altre lingue indoeuropee, tuttavia, si scorgono abbondanti esempi di tale modello. La fonte principale, come accade spesso, è il R̥gveda indiano, raccolta inestimabile di inni a carattere religioso molto arcaici e conservativi.
Si è dimostrato che una parte dei componimenti vedici: 1) si basa proprio sul principio della declinazione del teonimo (scoperta del resto risalente al de Saussure degli scritti “esoterici”); 2) utilizza il poliptoto anaforico, fatto sui nomi delle divinità principali; 3) predilige, in particolare, la ripetizione del nominativo e del vocativo[9]. È immediato paragonare il CB 11. a una breve eulogia in cui ogni unità metrica deve iniziare con il teonimo agníḥ, il dio del fuoco:
RV X 80
agníḥ sáptiṃ vājambharáṃ dadāty
agnír vīráṃ śrútyaṃ karmaniṣṭhā́m /
agnī́ ródasī ví carat samañjánn
agnír nā́rīṃ vīrákukṣim púraṃdhim //1//
agnér ápnasaḥ samíd astu bhadrā́
agnír mahī́ ródasī ā́ viveśa /
agnír ékaṃ codayat samátsv
agnír vr̥trā́ṇi dayate purū́ṇi //2//
agnír ha tyáṃ járataḥ kárṇam áva
agnír adbhyó nír adahaj járūtham /
agnír átriṃ gharmá uruṣyad antár
agnír nr̥médham prajáyāsr̥jat sám //3//
agnír dād dráviṇaṃ vīrápeśā
agnír ŕ̥ṣiṃ yáḥ sahásrā sanóti /
agnír diví havyáṃ ā́ tatāna
agnér dhā́māni víbhr̥tā purutrā́ //4//
agním ukhtaír ŕ̥ṣayo ví hvayante
(a)gníṃ náro yā́mani bādhitā́saḥ /
agníṃ váyo antárikṣe pátanto
(a)gníḥ sahásrā pári yāti gónām //5//
agníṃ víśa īḷate mā́nuṣīr yā́
agním mánuṣo náhuṣo ví jātā́ḥ /
agnír gā́ndharvīm pathyā̀m r̥tásya ‿
agnér gávyūtir ghr̥tá ā́ níṣattā //6//
agnáye bráhma r̥bhávas tatakṣur
agním mahā́m avocāmā suvr̥ktím /
ágne prā́va jaritā́raṃ yaviṣṭha ‿
ágne máhi dráviṇam ā yajasva //7//
‘Agni dà il destriero che porta il premio;
Agni [dà] l’eroe famoso che spicca per l’azione;
Agni percorre i due mondi adornandoli;
Agni [dà] una donna gravida di un maschio, feconda.
Di Agni, del beneficio, abbia successo l’accensione;
Agni è penetrato nei due grandi mondi;
Agni incita il singolo nelle battaglie;
Agni spacca i molti nemici.
Agni fu accanto a quel Jaratkarṇa;
Agni trasse via Jarūtha dalle acque con la fiamma,
Agni liberò Atri [che si trovava] nel calore;
Agni fece scorrere la discendenza per Nr̥medha.
Agni dà una ricchezza adorna di figli maschi;
Agni [manda] uno r̥ṣi che procura mille [doni];
Agni ha esteso il sacrificio fino al cielo;
di Agni le postazioni sono sparse in molti luoghi.
Agni gli R̥ṣi invocano con preghiere da varie parti;
Agni [invocano] gli uomini minacciati durante il viaggio;
Agni [invocano] gli uccelli, che volano nell’aria;
Agni circonda migliaia di vacche.
Agni pregano i gruppi umani;
Agni [pregano] le diverse stirpi di Manus e di Nahus;
Agni [conosce] il sentiero gandharvico dell’Ordine;
di Agni il pascolo è insediato nel burro fuso.
Per Agni gli R̥bhu hanno foggiato la formula;
ad Agni abbiamo rivolto una grande preghiera;
o Agni, favorisci il cantore, o giovanissimo!
O Agni, ottieni [per noi] attraverso il sacrificio una grande ricchezza!’.
Agni, insieme con Indra, il dio guerriero, è fra le principali divinità del pantheon indoario antico. Il poeta gli attribuisce tutti i ruoli, anche quelli che non gli sono usualmente proprî. Se in genere esso rappresenta la prima funzione, sacerdotale (estende il sacrificio), qui ricopre anche la seconda, guerriera (combatte e spacca i nemici, salva i protetti) e la terza, produttiva (favorisce la fertilità, elargisce i doni, procura ricchezza)[10]. Sia gli uomini sia gli animali gli rendono omaggio[11].
In ogni unità metrica (il cosiddetto pāda) di questo inno[12] Agni “fa” qualcosa e ciò si riflette nella semplice struttura sintattica del nominativo più il verbo[13] (con l’eventuale complemento). Epperò il solo nominativo del teonimo (il dio come agente) non basta: tutti i casi vengono sciorinati, soprattutto nelle ultime strofe, che presentano l’eccezionale sequenza nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo[14]. Il quadro non è dissimile da quello del CB 11., anche se i due testi appaiono uno il rovesciamento dell’altro. Da qui l’idea che la poesia goliardica nasca come parodia di un tipo innologico religioso simile a quello del R̥gveda, una sorta di ‘catechismo grammaticale’ nel quale ha centrale importanza la ripetizione e declinazione del nome divino [1922: 81].
6. Un’ipotesi di lavoro può essere gratuita, non necessaria né sufficiente. Tuttavia, la trafila da noi presupposta si è verificata almeno in un caso storico ben documentato, ovvero allorché canti orfici servirono da spunto nella Grecia antica per parodiare figure di potenti che si credevano dèi. Quel che si sa degli Orfici è molto poco: mentre infatti i sūkta vedici furono tramandati in gran numero e in forme metrico-linguistiche ineccepibili, i testi attribuibili alla “setta” orfica, tolto il corpus innico propriamente detto di cui qui non ci occupiamo, sono spesso contenuti in raccolte di epoca tarda. Frammenti, quindi, ma tutti pervasi da un’esigenza, quasi un’ansia, di nominare il dio supremo e di elencarne le qualità, che tra di loro possono essere anche contraddittorie o antitetiche, in quanto tale dio, identificato con Zeus, rappresenta ogni aspetto del reale (quasi Brahman indiano piuttosto che divinità classicamente greca), come nell’ispirato e solenne fr. 21a Kern:
Ζεὺς πρῶτος γένετο, Ζεὺς ὕστατος ἀργικέραυνος·
Ζεὺς κεφαλή, Ζεὺς μέσσα· Διὸς δ’ ἐκ πάντα τελεῖται·
Ζεὺς πυθμὴν γαίης τε καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος·
Ζεὺς ἄρσην γένετο, Ζεὺς ἄμβροτος ἔπλετο νύμφη·
Ζεὺς πνοιὴ πάντων, Ζεὺς ἀκαμάτου πυρὸς ὁρμή.
Ζεὺς πόντου ῥίζα· Ζεὺς ἥλιος ἠδὲ σελήνη·
Ζεὺς βασιλεύς, Ζεὺς ἀρχὸς ἁπάντων ἀργικέραυνος
‘Zeus fu il primo nato, Zeus l’ultimo dalla folgore splendente;
Zeus la testa, Zeus sta nel mezzo, da Zeus tutto è compiuto;
Zeus la base della terra e del cielo stellato;
Zeus fu maschio, Zeus fu fanciulla immortale;
Zeus il respiro di tutte le cose, Zeus l’impulso del fuoco instancabile.
Zeus la radice del mare, Zeus il sole e la luna;
Zeus il re, Zeus dalla folgore splendente il principio del tutto’.
Di nuovo si nota la predilezione per l’anafora del nominativo, con una modesta variazione diptotica (Διὸς δ’ ἐκ del v. 2)[15]. I poeti Archiloco e Anacreonte, probabilmente su tali modelli e forse su altri perduti, crearono poliptoti più complessi che ci sono stati tramandati dal grammatico Erodiano nel suo De figuris (§ 40). Interessante (anche per l’alta cronologia) è quello attribuito ad Archiloco (fr. 115 West = 110 Tarditi), il quale, esattamente come gli autori dei CB, si serve di uno schema innologico religioso per parodiare un tirannello ‘amico del popolo’, Leofilo:
νῦν δὲ Λεώφιλος μὲν ἄρχει, Λεώφιλος δ᾽ ἐπικρατεῖ,
Λεωφίλῳ δὲ πάντα κεῖται, Λεώφιλον δ᾽ ἄκουε …
Una vena comico-satirica emerge inoltre nel frammento adespoto Kock 1325, dedicato ad un certo Metioco. A ogni linea il nome Μητίοχος è soggetto di una diversa azione che ne sottolinea il potere: ‘comanda’, ‘sorveglia’, ‘fa tutto’; è, insomma (come altri hanno rilevato), la caricatura della divinità orfica e dello Zeus esiodeo orficamente caratterizzato nell’incipit delle Opere e i giorni[16]. Siamo già nella direzione dei CB, per quanto gli attacchi greci vengano diretti contro bersagli molto specifici e circoscritti, mentre l’ambizione dei clerici medioevali è piuttosto quella di denunciare la venalità della Chiesa, dei potenti e della società intera che in piena follia corruttiva si dà mani e piedi al re-dio Nummus.
7. Scorrendo la sezione satirico-moralistica dei CB, una coppia di testi presenta somiglianze di forma e contenuto con i versi sulla moneta: sono i due componimenti 9. e 10. contro la simonia, chiamata, con ovvia antonomasia, Simon. Orbene, Simon Mago si comporta esattamente come la moneta. Dal carme 10. traiamo l’incalzante sequenza:
Simon prefert malos bonis,
Simon totus est in donis,
Simon regnat apud Austrum,
Simon frangit omne claustrum.
Cum non datur, Simon stridet,
sed si detur, Simon ridet;
Simon aufert, Simon donat,
hunc expellit, hunc coronat,
hunc circumdat gravi peste,
illum nuptiali veste.
Non meno bello e interessante un poliptoto che giuoca fra anafora e catafora in 9. (strr. 3 e 4), rappresentando quattro casi del nome (ablativo, accusativo, genitivo, nominativo):
Petrus damnato Simone
gravi sub anathemate
docuit, …
Multi nunc damnant Simonem
Magum magis quam demonem,
heredes autem Simonis
suis fovent blanditiis.
Simon nondum est mortuus,
si vivit in heredibus.
8. Risulta ora del tutto comprensibile l’interesse dei Clerici Vagantes per la funzione metalinguistica, che essi piegavano a satira. Una riflessione sui casi grammaticali emerge, come si accennava al par. 3, non solo dall’uso poliptotico di nummus, ma anche dalle allusioni scherzose (e non di rado maliziose) ai nomi dei casi stessi. La conclusione di CB 1. fa pensare a un gergo grammatical-studentesco ben consolidato che assegnava ai nomi scolastici significati “eterodossi”:
Hec est causa curie,
quam daturus perficit;
defectu pecunie
causa Codri deficit.
tale fedus hodie
defedat et inficit
nostros ablativos,
qui absorbent vivos,
moti per dativos
movent genitivos.
‘Così sta la causa della curia,
che il corruttore porta a termine.
Per mancanza di soldi
La causa di Codro[17] è perdente.
Tale infamia oggi
insozza e inficia
i nostri giudici corrotti (ablativos)
che ingoiano i vivi,
mossi dai corruttori (dativos)
muovono gli istinti carnali (genitivos)’[18].
Questa tradizione, per la quale i CB e testi affini offrono alcuni altri esempi[19], poggia sicuramente su insegnamenti che fiorivano nelle scuole grammaticali del Medioevo: la discussione sul nome dei casi e su altra terminologia specialistica aveva alle spalle una storia già piuttosto lunga, che non poteva mancare di riversarsi in una poesia dotta e spregiudicata come quella goliardica. In particolare, i sottintesi erotici di termini quali genitivus, copula, coniunctio etc. creavano una “Liebesgrammatik” e una “erotische Kasusspielerei” (le etichette sono del Lehmann) che meritano un approfondimento. La loro origine risalirebbe, secondo il Curtius, niente meno che a Lucilio (tra l’altro, un autore satirico) il quale, in un epigramma scritto in greco, intesseva già nel II secolo a.C. un rapporto tra erotismo e terminologia metalinguistica. Il testo non ha decisamente bisogno di spiegazioni (AP XI 139):
Γραμματικὸν Ζηνωνὶς ἔχει πώγωνα Μένανδρον
τὸν δ’ υἱὸν τούτῳ φησὶ συνεστακέναι.
τὰς νύκτας δ’ αὐτῇ μελετῶν οὐ παύεται οὗτος
πτώσεις, συνδέσμους, σχήματα, συζυγίας.
‘Zenonide tiene Menandro come barbuto maestro di grammatica,
dice che gli ha affidato il figlio;
ma costui tutte le notti non cessa di praticare con lei
i casi, le congiunzioni le figure retoriche e le coniugazioni’.
Qui la storia del linguaggio grammaticale greco-latino offre il destro a una breve riflessione comparatistica con l’India. Nella cultura vedica declinare il teonimo durante le preghiere e “distribuirlo” (cioè recitarlo) durante il sacrificio favorì una coscienza metalinguistica di livello assai elevato. Via via che l’esegesi brāhmaṇica andava elaborando testi di commento agli inni più antichi, cresceva la consapevolezza che la suddivisione del teonimo in varie parti si prestava ad essere formalizzata in paradigmi e regole morfologiche (oltreché fonetiche).
L’approdo a questa fase metalinguisticamente matura e “laica” (ovvero non più ancillare del Veda) passò attraverso uno stadio intermedio in cui comparvero brevi miti costruiti sui nomi dei casi: il nominativo, per esempio, era associato alla ‘fortuna’ (śrī́ḥ) e l’ablativo sembrava invece un caso funesto in quanto, indicando l’allontanamento, stava a significare che la fortuna era respinta. Ancora, il giro del paradigma nominale veniva interpretato come il ciclo vegetativo, che varia di intensità a seconda delle stagioni, oppure come le stagioni stesse, che cambiano ogni due mesi o, infine, come l’inclinazione graduale dei raggi solari[20]. Non possiamo pronunciarci circa l’esistenza di tradizioni “satiriche” analoghe a quelle dei goliardi, ma è evidente che la grammatica, la sua terminologia e il suo funzionamento davano luogo a una fervida produzione di miti e metafore a loro modo rigorosi, frutto di un’instancabile indagine sull’essenza profonda delle unità linguistiche.
In conclusione, si osserva come due civiltà e due fasi storiche diverse e distanti abbiano elaborato forme testuali comparabili. Se ciò possa essere frutto dell’eredità indoeuropea sotto lo stimolo di condizioni storico-sociali favorevoli[21] è naturalmente controverso, ma non impossibile. Ci chiediamo infine: i Clerici possedevano anche un sapere tradizionale che ricevettero dalle loro culture d’origine? La persistenza di sostrati prelatini e precristiani in area celtogermanica emerge sempre più prepotentemente nella critica attuale. Modelli di poesia catalogica e anaforica di origine celtica sarebbero alla base, per esempio, di alcune liriche provenzali e di stilemi epici romanzi [Benozzo 2007] e sono indiscutibilmente presenti, per l’area germanica, nel nordico Grímnismál e in un poemetto anglosassone come il Wīdsith, interamente basato su liste di nomi (antroponimi ed etnonimi). Persino nella poesia luterana barocca del grande pastore islandese Hallgrímur Pétursson (1614-1674) una lode poliptotica a Cristo appare modellata sull’innologia pagana [Ronzitti 2014: 240 ss.]. Il suo titolo è Um útleiðslu Kristí úr þinghúsinu ‘Su Cristo condotto fuori dal tribunale’. La chiusa e culmine del salmo esalta Gesù, ormai pronto al sacrificio (rime: AB AB BC CB, settenari e senari):
Son Guðs ertu með sanni
sonur Guðs, Jesú minn
son Guðs syndugum manni
sonar arf skenktir þinn,
son Guðs einn eingetinn,
syni Guðs syngi glaður
sérhver lifandi maður
heiður í hvert eitt sinn
‘Figlio di Dio, tu sei davvero
figlio di Dio, o mio Gesù,
figlio di Dio, al peccatore
l’eredità tua di figlio donasti,
figlio di dio, unigenito!
Al figlio di dio canti gioioso
ogni uomo vivente
gloria in ogni momento’.
Tutta l’invocazione ruota sul poliptoto della perifrasi ‘figlio di Dio’. La forma vocativale e oggi obsoleta son nelle sedi dispari (1-3-5) interpunge le forme declinate dei casi posti nelle sedi pari (2-4-6) secondo l’ordinamento latino scolastico[22]:
son Guðs vocativo
sonur Guðs nominativo
son Guðs vocativo
sonar genitivo
son Guðs vocativo
syni Guðs dativo.
È suggestivo pensare che la figura di Cristo sia stata esaltata attraverso forme e stilemi di preghiera indoeuropea, della quale restano purtroppo poche tracce ereditarie. In particolare, due inni dedicati al dio Thor, che si trovano nello Skáldskaparmál dell’Edda di Snorri, alimentano l’idea di un passaggio di testimone fra Thor e Cristo: si attestano nel mondo germanico settentrionale persino casi di culti duplici, proseguiti a lungo ed eradicati per la parte pagana solo con grande difficoltà.
Nel silenzio delle fonti, che sono purtroppo in gran parte perdute o rielaborate, resta uno spazio vuoto che si può tentare di riempire con le risultanze della comparazione: è questa una delle grandi possibilità offerte dalla scienza glottologica.
BIBLIOGRAFIA
Bayless, M. [1996], Parody in the Middle Ages: The Latin Tradiction, Ann Arbor, University of Michigan Press.
Benozzo, F. [2007], La tradizione smarrita. Le origini non scritte delle letterature romanze, Roma, Viella.
Bonafin, M. [2001], Contesti della parodia, Torino, UTET.
Cardelle de Hartmann, C. [2013], Parodia y sátira en los Carmina Burana: CB 44 y CB 215, in M. Brea et alii
(eds.), Parodia y debate metaliterarios en la Edad Media, Alessandria, dell’Orso, pp. 125-138.
Curtius, E. R. [1993 (1948)], Letteratura Europea e Medioevo Latino, Firenze, La Nuova Italia (ed. or. Bern, Francke).
De Mauro T. [1971], Il nome del dativo e la teoria dei casi greci, in Senso e significato. Studi di semantica storica, Bari, Adriatica Editrice, pp. 239-324.
Dronke, P. [1984], Poetic Meaning in the Carmina Burana, in P. D., The Medieval Poet and His World, Roma, Edizioni di Letteratura, pp. 249-279.
Hilka A. – O. Schumann [1978], Carmina Burana. I. Band: Text. 1. Die moralisch-satirischen Dichtungen. Zweite, unveränderte Auflage, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag.
Lehmann, P. [1922], Die Parodie im Mittelalter, München, Drei Masken Verlag.
Norden, E. [1913], Agnostos Theos: Untersuchungen zur Formengeschichte religiöser Rede, Leipzig – Berlin: B. G. Teubner.
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Rossi, P. [2010], Carmina Burana, Milano, Bompiani.
Setaioli, A. [1998], La poesia in Petr. Sat. 14.2, in «Prometheus» 24/2, pp. 152-160.
Yunck, J. A. [1961], Dan Denarius: The Almighty Penny and the Fifteenth Century Poets, in «The American Journal of Economics and Sociology» 20/2, pp. 207-222.
Van Poppel. G. [1920], Der “Genitivus” bei Vaganten, in «Neophilologus» 5, pp. 180-181.
Note:
[1] Per il testo critico abbiamo utilizzato Hilka – Schumann [1978: 1-3 e 15-29]; in italiano esiste l’antologia di Rossi [2010: 16-19]. La bibliografia sui CB è ovviamente sterminata, ma si vedano almeno Curtius [1993 (1948)] e Dronke [1984: 249-279].
[2] Sulla parodia nel Medioevo una bibliografia complessiva è raccolta in Bonafin [2001]. Per un aggiornamento al Lehmann si veda Bayless [1996]. Specifico sui Carmina è il recente Cardelle de Hartmann [2013].
[3] Si rispettano le maiuscole e le minuscole del testo critico (CB 1. ha sempre nummus, CB 11. ha sempre Nummus).
[4] In realtà se il verso non comincia con nummus è perché quasi sempre la prima posizione deve essere occupata da una congiunzione subordinante (come si o quod) o da preposizioni reggenti (de Nummo, sine Nummo, In Nummi mensa).
[5] La dura condanna di Petronio trova espressioni consonanti in altri autori latini (Varrone, Cicerone, Marziale, Seneca, Tacito, Ovidio). La resa di traducunt tempora con ‘disonorano i loro tempi’ a fronte di un più banale e immediato ‘passano il tempo’ è argomentata con serrati confronti semantici da Setaioli [1998: 157]. Merces varrebbe sia ‘ricompensa’ (al giudice) sia ‘merce’ (la sentenza è accordabile a tutti quelli che possono pagare e perciò publica) [Setaioli 1998: 158].
[6] Tutta la discussione che avviamo da qui in poi si basa sulle riflessioni e sui materiali raccolti in Ronzitti [2014]. Per considerazioni teoriche sull’anafora nelle preghiere, nella prospettiva di una “Stilform” babilonese ed egiziana, resta fondamentale Norden [1913: 143 ss.].
[7] Includiamo i Celti perché molti Clerici sono di origine francese.
[8] Dal punto di vista linguistico, invece, il passaggio da un tipo linguistico flessivo a un tipo analitico che si accompagna all’erosione delle desinenze nominali appare meno rilevante, sia perché queste sono parzialmente conservate nel medio tedesco e nell’irlandese sia perché il superstrato latino permette sempre e comunque la flessione.
[9] Quest’ultimo caso è invece totalmente assente nei versi buranici sulla moneta, in quanto specificamente legato alla modalità della preghiera e della lode.
[10] Circa la regalità, invece, il discorso è assai complesso: essa non si ha automaticamente e può essere oggetto di contesa. Per questo diversi dèi si fregiano dell’epiteto rā́jā, non esclusi gli stessi Indra e Agni.
[11] In proposito osserviamo che tutti gli accusativi agním dipendono da verbi di lode e venerazione che hanno soggetti umani o bestie; analogamente l’accusativo nummum dipende una volta da mirantur (sogg. reges) e veneratur (sogg. turba priorum), mentre una terza e ultima volta il contesto è diverso (Vidi cantantem Nummum).
[12] La strofe triṣṭubh consta di quattro pāda endecasillabi.
[13] Dislocato quasi sempre verso la parte finale della frase, secondo l’ordine delle parole prevalente in vedico.
[14] Poiché nei temi in -i ablativo e genitivo coincidono, in questo inno l’unico caso mancante risulta essere lo strumentale (peraltro statisticamente abbastanza raro).
[15] Si può osservare, per inciso, che esattamente lo stesso schema è applicato in vari inni vedici, p. es. III 59 (a Mitra) con i quattro emistichi iniziali consecutivi mitró … mitró … mitráḥ … mitrā́ya (tre nominativi e un obliquo).
[16] Sui problemi critici del passo, che sarebbe una sequenza anaforica pura (il nominativo Μητίοχος ripetuto sei volte) oppure un diptoto (con un dativo Μητιόχῳ nel quinto verso) si veda in dettaglio Ronzitti [2014: 161]. L’ispirazione orfica è stata ben individuata dallo stesso editore del frammento, Theodor Kock.
[17] Personaggio citato da Giovenale e noto per la sua povertà.
[18] Su genitivus come ‘organo genitale’ e quindi ‘lussuria’ si rimanda a Van Poppel [1920], con nota finale del Frantzen. Per una rassegna completa sulla storia della terminologia flessionale importante è De Mauro [1971], anch’esso con appendice specifica sul genitivo.
[19] P.es. CB 122. (strofe 2) gioca ancora sui casi (opum abundantia hoc casu dativo, duces amicitia, pauper vocativo!), mentre CB 3. inserisce un paradigma verbale (do das dedi dare) per sottolineare l’avidità della curia.
[20] Tutto ciò si trova espresso in alcuni Brāhmaṇa, in particolare il Pañcavimsa, il Jaiminīya e lo Śatapatha (per i passi cfr. Ronzitti [2014: 133-139]).
[21] Ci riferiamo all’esistenza di due classi intellettuali, i Brāhmaṇi e i Clerici Vagantes, che espressero tanto una sapienza poetica quanto un’attitudine filosofica scolastica.
[22] Il clero islandese si formava attraverso lo studio del latino. Pétursson, nipote di un vescovo, ebbe accesso a un’educazione di buona qualità sia in patria sia a Copenhagen, presso il seminario della Vor Frue Kirke.
Rosa Ronzitti, glottologa e linguista dell’Università di Genova