I cani del tempo: icone della pazienza – Giovanni Sessa
La società post-moderna è centrata sul primato dell’impazienza. Tale modo di essere permea le nostre vite. Per dirla con le parole di Andrea Tagliapietra, filosofo teoretico impegnato nella definizione di un modo di esperire l’esistenza che si ponga oltre i dualismi metafisici, essa: «può essere ritenuta la cifra contemporanea dell’esperienza soggettiva» (p. 7). La citazione è tratta dalla sua ultima opera, I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza, nelle librerie per Donzelli editore (pp. 191, euro 34,00). Libro davvero importante, nelle cui pagine la ricerca filosofica è strettamente intrecciata con l’esegesi della produzione pittorica che, nel corso del tempo, ha fatto oggetto di rappresentazione l’animale domestico per eccellenza, il cane, simbolo della virtù della pazienza. Il volume è cruciale soprattutto per chi, come lo scrivente, sia convinto che l’orizzonte dischiuso dalla physis, possa rappresentare l’unica trascendenza cui guardare e in cui tutto è incluso.
Un testo, quello di Tagliapietra, non di mera erudizione accademica ma aperto, con decisione, alla critica del presente. Il pensiero critico: «non può rinunciare a essere anche una critica radicale della forma assunta oggi dall’esperienza soggettiva […] dal momento che essa viene intesa come una figura storica epocale» (p. 7). Siamo tutti perpetuamente proiettati, sia pur ormai in forma secolare e “spettacolare” sul futuro. Solo la virtù opposta al tratto costituivo del presente, la pazienza, può richiamarci: «a una dimensione essenziale del nostro essere […] del nostro corpo come dell’ambiente naturale che ci circonda» (p. 8). Tale dimensione altro non è se non il tempo della vita, del corpo e dell’attenzione nei confronti di ciò che è. Ben lo sapevano i Greci, soprattutto Eraclito, che il corpo presenta una trasparenza silenziosa, che si vela nel momento in cui si cerchi di illuminarla, di porla sotto i riflettori della conoscenza logistica. Il lògos aurorale ellenico non conosceva distinzione di anima e corpo né, tantomeno, quella uomo-animali-enti di natura. Solo nella rappresentazione animale, oltre l’antropocentrismo, torna a mostrarsi la vita nuda. Tagliapietra presenta, pertanto, un percorso ideografico nel quale la teoresi abbraccia la storia delle idee, ponendoci al cospetto delle icone del pensiero: «che esplorano la metafora animale in prossimità con l’essere umano» (p. 9).
L’ideografia mette in scena la prossimità delle diverse forme viventi, alla luce del “limite” che le connota, nella consapevolezza della loro vulnerabilità, che gli permette di assumere il volto della pazienza. Nella pittura europea il cane, generalmente, appare quale “dettaglio”, ai margini del soggetto principale della rappresentazione. Tagliapietra dimostra come le figurazioni pittoriche dell’ “amico dell’uomo”, altro non siano che simboli del tempo. Mentre, stante la lezione di Agostino, il concetto e l’idea non riescono a “definire” la temporalità, essa prende corpo e consistenza nell’icona. In ogni caso, anche per il filosofo d’Ippona, il luogo della “misurabilità” del tempo, è l’anima: «L’anima c’è in tutto ciò che vive, eppure il suo essere è impossibile da dire» (p. 11). Di essa, ne ebbe contezza Klages: «può darsi un’immagine» (p. 11). Questa è atta a ospitare l’erranza della verità, la sua “catastrofe” logica. Tali icone presentano esemplarmente la coincidentia oppositorum: «le immagini pensano senza parole, attirano coloro che le guardano in un’attesa silenziosa carica di pensieri, ci invitano alla pazienza di vederle più da vicino» (p. 13). Simmel aveva intuito che il ritratto era atto a ripristinare l’unità antropologica di interiorità e esteriorità, di anima e corpo, in quanto: «l’artista […] mostra l’anima come qualcosa di visibile» (p. 15). Nonostante ciò, egli rimase prigioniero della visione antropocentrica e metafisica, non riconoscendo l’anima: «in quella visibilità metamorfica della vita […] ma nell’espressione dell’individualità umana» (p. 15).
Lo scarto ontologico tra uomini e altri esseri viventi, di fatto, non è mai venuto meno nel pensiero europeo (in tal senso eccezioni possono essere rappresentate da Fechner, Bruno e Derrida, i quali leggono gli enti quali manifestazioni sempre all’opera della dynamis). Il paradigma iconico da cui prendono avvio le pagine di Tagliapietra è dato dal dipinto, Due cani da caccia legati a un ceppo (1548-50) di Jacopo da Bassano. In questa pittura ciò che si coglie del soggetto: «è la sua passività […] la sua temporalizzazione» (p. 17). In siffatto contesto, l’anima indica il patire, che indica, in uno, soffrire, certo, ma anche vivere di passione, situazioni esistenziali proprie di tutto ciò che è soggetto al tempo. Nel dipinto è in gioco la singolarità, ciò che Andrea Emo, con linguaggio attualistico, definì la presenza, ciò che rende unico e insostituibile ogni essere vivente: «il tempo si concentra senza passare, si deposita nella splendida icona del corpo animale, nella sua durata, senza tradursi nell’intenzionalità e dispersiva cinetica dello spazio» (p. 25). È un tempo che si addensa quello cui i cani della pittura alludono. Nell’assecondare tale intuizione, l’autore compie l’analisi di alcune opere di Dürer, attraverso le quali si sofferma sulla focalizzazione di tre “figure”, nelle quali la durata può darsi: la noia intesa come accidia, la pazienza e l’attenzione. Tagliapietra prosegue con la presentazione del fondamento della pazienza, soffermandosi sulle modalità, attraverso le quali, esso si manifesta nelle opere di Goya, Carpaccio e Turner.
Al centro del terzo capitolo sta la figura paradigmatica di Argo, cane di Ulisse, simbolo della scuola cinica. In essa, il cane era assunto: «come modello di vita anarchica» (p. 26). L’ermeneutica dei dipinti di Jean-Léon Gérôme permette, di contro, l’approfondimento della nozione di pazienza anestetica, cui mirarono i saggi dell’antichità. Tagliapietra discute, inoltre, le figure bibliche di Tobia e Lazzaro e della loro presenza nei dipinti di Leonardo, Tiziano, Rembrandt e del Verrocchio. La pazienza, rappresentata in tali pitture, ha il tratto dell’inquietudo: essa sorge di fronte al dolore e alla sofferenza altrui: «É una pazienza che […] mantiene intatta, nella vigilanza dell’attenzione e nella quotidianità della cura, la sua originaria carica messianica» (p. 27). Infine, vengono presentati esempi di pitture dell’800 e del ‘900. Si tratta di opere di Bacon, Marc, Lautrec, in cui i cani, icone del tempo, ci conducono alle soglie della pazienza antitetica al lavorismo della mobilitazione totale contemporanea: «Si tratta della pazienza come stato di attenzione senza finalità né oggetto, ovvero la disposizione di chi si abbandona all’immanenza e alla pura durata» (p. 27).
Questa pazienza è extrasoggettiva. A essa pervenne Heidegger sulla scorta di Eckhart, riproponendo la dimensione della Gelassenheit, di “abbandono”. Uno stato di attenzione senza finalità né oggetto, presente nel dipinto di Franz Marc, Cane di fronte al mondo del 1912. Per Marc: «i dipinti di animali non erano paesaggi naturalistici, né ritratti, ma piuttosto icone cromatiche dell’armonia silenziosa della natura e della sua serena durata» (p. 171). All’eterna metamorfosi della physis bisogna tornare a guardare, oltre i drammi della storia, al fine di liberarci dell’impazienza contemporanea.
Giovanni Sessa