Hyle: breve storia della materia increata di Davide Ragnolini – Giovanni Sessa
Chi scrive da tempo sostiene che compito prioritario del filosofare sia il recupero dell’idea di physis, di natura in senso greco. Essa indica il luogo sorgivo, originario, a cui gli enti fanno ritorno dopo il loro iter esistenziale. Di fronte al thauma, indotto dalla physis, nasce il pensiero: è il risultato, al medesimo tempo, dalla meraviglia e dal senso tragico del vivere, esperito nella constatazione del limite cui ogni vita è appesa. Nel Novecento, Karl Löwith, più di altri, ha colto il senso della physis quale unica trascendenza cui guardare. Usciamo pertanto compiaciuti dalla lettura di un testo, in questo senso significativo, di Davide Ragnolini, Hyle. Breve storia della materia increata, edito da Rubbettino (per ordini: 0968/66642012, pp. 131, euro 16,00). Il saggio è costruito su un’ampia conoscenza delle fonti e sulla più accreditata bibliografia critica, che l’autore discute, con organicità esegetica e pertinenza argomentativa, Si tratta della storia filosofico-teologica dell’oblio nel quale, nel corso del tempo, in Europa è stato relegato il concetto di hyle, materia.
Intento del saggio è suggerire: «che la stessa storia filosofica e teologica occidentale può essere riletta a partire dal problema della giustificazione della materia […] Dalla Patristica e dalla Scolastica, infatti, la storia della filosofia ha creato strategie speculative per domare questo problema» (p. 8). Ragnolini, nelle proprie analisi, ha ben presenti gli interpreti eterodossi intenzionali dell’aristotelismo, che hanno rilevato il tratto centrale, niente affatto secondario, della hyle nel sistema dello Stagirita. Non c’è dubbio, infatti, che fu proprio il filosofo della Metafisica a introdurre nella storia del pensiero tale concetto in modo compiuto e definito. Non è casuale che nel suo Lexicon del 1967, Francis E. Peters definisca la hyle: «termine puramente aristotelico» (p. 11). A tanto lo Stagirita era giunto riflettendo sia sulla filosofia presocratica, quanto su Esiodo e il mito. Károly Kerény ha attribuito al caos esiodeo tratto spaziale: solo in tal senso il caos: «avrebbe potuto fungere da primum inter primas» (p. 15), cosa peraltro intuita dal filosofo della Fisica. Per Aristotele: «ha il primo posto la sostanza che è semplice ed è in atto» (p. 16). L’origine, pertanto, non è una non-sostanza, ma una realtà da cui derivarono “altre sostanze”. La hyle è ontologicamente indipendente, non ha causa efficiente che la preceda.
In tale contesto, Aristotele non guardò solo agli ionici Talete, Anassimandro e Anassimene, ma si volse anche agli italici, agli eleati. A ben guardare, lo stesso essere di Parmenide, pensato in forma sferica, presentava dei “confini”, possedeva, dunque, una realtà “corporea”, non meramente spirituale. Se fosse stato mera realtà spirituale, l’essere del grande eleate sarebbe dovuto essere “in ogni luogo” e, come tutto ciò che fluisce, non avrebbe potuto essere immobile, in quiete. Al contrario, era indissociabile dalla hyle. Le stesse “radici” di Empedocle avevano tratto “eterno”, come il cosmo di Democrito elogiato da Aristotele, il quale, rispetto al pensatore di Abdera, compì un passo ulteriore respingendo: «l’esistenza del vuoto» (p. 19). L’universale di cui parla Aristotele non ha tratto extra-corporeo, non è platonicamente contrapposto alle “realtà particolari”, bensì ne rappresenta il “corpo” stesso. In luogo del dualismo platonico, nel libro XII della Metafisica lo Stagirita presenta tre principi: forma, privazione e materia. Se ben si legge: «alla materia è riconducibile la categoria di sostanza» (p. 27), tanto che nei Topici la definizione di sostanza corporea ha tratto pleonastico.
In tale prospettiva, l’ex-allievo di Platone diviene sostenitore della realtà della hyle. In un passo della Fisica il filosofo si congeda non soltanto dal primato ontologico delle idee, ma dalla stessa prospettiva idealista della corruttibilità e quindi della irrealtà della materia (I9,192a). Per Aristotele la materia fonda l’essere. Del resto, una certa ambiguità in tema era presente nello stesso Timeo di Platone. L’Ateniese ha qui sostenuto che cielo e terra sono rigidamente separati, ma è altresì presente, a suo dire, una terza dimensione: «il ricettacolo di tutto ciò che si genera» o «la natura che riceve tutti i corpi» (50b). Non casualmente Calcidio, esimio esegeta del Timeo, sosterrà che Platone a volte definisce la materia “errore”, in altri casi “necessità” ineliminabile. La tacitazione della materia ha preso inizio, sotto il profilo storico, dalla platonizzazione cui l’aristotelismo è andato incontro. Ciò ha determinato la reductio della hyle a mera privazione e la presentazione della forma quale causa efficiente del sostrato: «La prima è un’interpretazione neoplatonica, fatta propria dalla prospettiva cristiana» (p. 29), mentre la seconda si sostanzia ancora del contributo aristotelico in cui privazione e hyle: «non risultano tra loro sovrapposte» (p. 29).
Per Aristotele tra movimento dei corpi e sostrato sussiste un rapporto non accidentale. Mentre creazionisti e neoplatonici sostennero il primato delle idee o del Dio creatore dal nulla, in Aristotele la materia: «esiste dapprima come materia prima, e poi come sinolo» (p. 30). La hyle ha una sua potenziale attualità. Insomma, lo Stagirita utilizza la concezione di “potenza” in funzione anti-eleatica. A questo punto, Ragnolini ricostruisce in modo organico i diversi momenti della tacitazione della hyle nel pensiero tardo-antico e medievale, ravvisando, tra gli altri, nel “panteismo” dell’eretico David di Dinant, con il quale polemizzò Tommaso d’Aquino, un ritorno a quella materia divina e animata propria dell’aristotelismo. Per questo, le autorità ecclesiastiche a più riprese e per lungo tempo misero al bando la dottrina “fisica” di Aristotele: in essa risuonava ancora l’eco del fr. 30 di Eraclito, che sancendo l’eternità del cosmo e l’esistenza della materia increata, metteva in discussione i presupposti della nuova fede. All’inizio del Settecento, secolo dei Lumi, Berkeley lancerà i propri strali contro tale concezione. Non stupisce, quindi, che Aristotele, in tarda età, fu allontanato da Atene con l’accusa di “ateismo”, la stessa che sarà rivolta a Bruno e a Spinoza, sostenitori, in modalità differente, del Deus sive Natura.
Fin dal III secolo d.C., ricorda l’autore, l’apologetica cristiana si rapportò alla hyle in termini anti-eternalisti. Venne affermata la temporalità del sostrato, non auto-sufficiente e ordinato da Dio. Successivamente, esso fu degradato a nihil concependo l’idea di creazione sostanziata da una metafisica della forma, nei cui succedanei teoretici si muovono le false opposizioni filosofiche su piazza, quelle degli analitici e dei continentali. Solo un filosofare atto a recuperare l’idea non dualista di materia-animata, può rappresentare l’uscita di sicurezza dallo stato presente del pensare.
Giovanni Sessa