Hegel: la via sapienziale all’antimodernità – Giandomenico Casalino
La Visione di Hegel è talmente alta da coincidere con il punto di vista del Dio, sicché per tentare di comprenderla è necessario propedeuticamente liberarsi dalla malattia mentale dell’individualismo, che ci proviene dal cristianesimo in forma “religiosa” e da Cartesio in forma cripto-atea e affinché ciò possa avvenire è bastevole, come inizio, avere la piena consapevolezza della patologia di ogni forma di rigonfiamento dell’Io, causa remota della ferocia satanica sottesa alla guerra da esso scatenata contro la natura, la storia, il divino, i popoli, la famiglia ed ogni identità sia biologica che culturale. In sostanza, la catastrofe dell’avvento e dell’imporsi del cristianesimo è consistita esattamente nell’assurda pretesa, risiedente in ciò che, proprio essendo staccati, non più facenti parte organica di una Comunità, di un mondo, ma, invece, proprio perché si è nella solitudine spirituale e nella livida separatezza del proprio “io”, del proprio luogo “interiore”, dove addirittura vi è la verità (Agostino d’Ippona…), si avrà la certezza del rapporto con il “proprio” Dio, con la forma sostanziale di una Divinità che parla e si manifesta solo a colui il quale possiede tale natura animica, in quanto dotato della fede nello stesso; maggior gravità che consiste quindi proprio nel fatto psichico che non vi è, in tale stato della coscienza, nessuna minima parvenza di una qualche consapevolezza di quanto possa essere distruttiva della stessa realtà dello spirito una così radicale frattura, una tale epocale scissione tra il Mondo e il Divino, la Polis ed il Sacro, e tra questo e la Natura tutta come phýsis che, solo divenendo un aggregato meccanicistico di “cose” prive di vita, (come in effetti è accaduto!…), può consentire che il Sacro, come potenza massima della Vita, come sublimazione della stessa, sia solo nel Dio cristiano, che è altro dal Mondo, nonché ed esclusivamente nel “cuore” del suo “fedele”, cioè dell’individuo che egli ha scelto, in virtù di suoi imperscrutabili fini. Il Divino è stato così strappato dal Mondo, inteso come Cosmo, talché esso non sarà più tale, ma luogo oscuro, caotico e, quindi, massa diaboli ac perditionis, transito e passaggio obbligato per quest’uomo che, ormai atomo, non avrà alcuna relazione con il Tutto se non di natura sofferentemente e tragicamente conflittuale: emergendo così, sin dagli albori della dominazione psichica di tale soggetto, il dramma, la vexata quaestio del “rapporto”, della modalità nonché della natura del “confronto” tra questo nuovo complesso coscienziale che è l’illusione dell’Io ed il “suo” Dio, autentica escrescenza psichica della sua egoità; divenendo poi, con l’eclissarsi moderno di tale superfetazione fideistica dell’Altro, il “suo” Mondo. In tale “momento” si manifesta la frattura, la scissione e quindi il “Due”, che è la sofferenza e la tragedia, la lacerazione della trama e dell’ordito, cioè della Divina Necessità, nella quale riposa unitariamente il Mondo; da qui nascono ed esplodono tutte le false problematiche, le illusorie “questioni” o le insormontabili aporie effettuali alla acquisizione della prospettiva dualistica moderna.
Tutti i rapporti tra l’allucinazione dell’Io da una parte e l’oggettivazione dell’Altro, situato di fronte allo stesso (Altro che è tanto il Dio quanto, poi, il Mondo…) sono ormai evidenti e avranno, nella sostanza, l’impronta gnoseologica come spinta iniziale ed aggressiva del soggetto teso a catturare, mediante la “comprensione”, quasi cibandosene, la natura “altra” dell’Altro, al fine di consentire di poi al soggetto medesimo di ingigantire la sua parvenza e di insuperbire vieppiù la sua oltraggiosa arroganza. I rapporti, i confronti tra le “Due” realtà, siano essi, in apparenza, di natura religiosa o politica, filosofica o sociale o animica, non sono altro che l’espressione fenomenologica della intrinseca protervia e dell’inevitabile aggressività di quell’atomo nonchè della sua inesorabile e pericolosa convinzione, oltremodo fanatica, di essere il “centro” del Tutto dove questo “centro” è il “vero” ed il Tutto non è poi tale se l’altro polo del “vero” è il Dio che, per codesta ideologia, è, concretamente e secondo il pensiero di Feuerbach, la pura esternazione alienante di tale individuo, anzi una autentica proiezione della sua coscienza, dotata di una potentissima carica deontologica, tale da risultare pericolosa nella sua assoluta legittimazione da parte della cultura di tale tipo umano.
Tutto ciò avviene poiché è causato da quella che tale soggetto psichico definisce la sua “fede” e cioè la irrazionale convinzione di essere strumento privilegiato, anzi unico, poiché sua “immagine somigliante”, di tale finzione trascendente, essendo in fin dei conti l’esecutore dei suoi disegni nonché il suo braccio armato; cosicché è questo stesso Dio, conosciuto, ascoltato, servito solo da tale tipo umano, che si incaricherà, suo tramite, di rendere, ad ogni costo, ed in modo oppressivamente intollerante ed omologante anche il “resto”, cioè quello che un tempo era il Mondo, il Cosmo, a sua “immagine e somiglianza”!
L’intero processo fideistico, codesta costruzione passionale, di cui è portatore questo piccolo ed esiziale uomo nuovo che è il cristiano, pervasa da un impotente e vile odio-paura nei confronti di tutto ciò che è “visto” e “conosciuto” come Altro dal suo Io, sarebbe a dire la Vita, il Mondo, la Polis, l’Impero, la Donna, l’Eros, la Morte, la Guerra, non è che, in termini strettamente filosofici e cioè concettuali, il riflettersi egocentrico (antropocentrico) di questo stesso individuo in uno specchio, che è poi il suo Dio che, in virtù dello stato di febbricitante eccitazione di cui è preda, lo farà apparire superiore, dominatore nei confronti di ogni altro vivente nonché “signore” del Tutto, quasi “copia” terrena e cioè immagine speculare del “suo” Signore che è nei cieli.
La storia della caduta dello Spirito, dal tramonto del Mondo Classico in poi, è rappresentata da questo paesaggio di desolazione in cui la “salvifica” veduta è un lacerante dualismo, prima di natura psichicamente religiosa ed in seguito rozzamente terrestre, in forza della successiva scomparsa del Divino (secolarizzazione), proprio perché fideisticamente posto sopra al Mondo e sempre secondo la dominante “conoscenza” meccanicistica e pragmatica della natura, erede del dualismo già cristiano. L’orizzonte, pertanto, della modernità, che vede l’alba con l’imporsi del cristianesimo, è quello di un Mondo che non è più visto e sentito come tale ma come disorganico aggregato di enti spogliati da ogni forma sostanziale di sacralità e vita e ritenuti nonché chiamati “non-Io” onde rimarcare ancor più la presunta e pretesa, da tale ideologia, differenza ontologica tra questo e l’Io che è il nuovo Dio, erede di quello cristiano (nel frattempo già morto); l’Io, pertanto, è il nuovo signore di tale apparato delle finzioni, colui che, quale nuovo creatore ex nihilo, conoscerà l’altro da sé poiché lo avrà creato, nel senso che, in virtù della concezione astratta e aprioristicamente quantitativa della prassi tecno-scientista, sviluppatasi e strutturatasi da Galileo in poi, la conoscenza, il sapere, la scienza, la stessa filosofia avranno per “oggetto” non più il Divino, ma la terra, il corpo anzi la “carne”, la fredda e desacralizzata natura (vista come complesso di formule e quantità matematiche), il meccanico mostro leviatanico dello Stato moderno, tutti attori principali del teatro della morte e della desolazione che è la modernità medesima. Il nuovo signore così dovrà “prendere”, possedere, aprire, smontare, analizzare e quantificare le “cose”, un tempo realtà viventi; aggredendo le stesse e manipolandole ai soli fini dell’uso e accantonamento delle medesime quali riserva tecnica, talché esso manifesterà a sé medesimo il suo illusorio potere, consistente ormai nel conoscere per fare e non più nell’agire per conoscere: costui è ormai faber fortunae suae!
L’umanesimo potenzialmente ateo, figlio dell’umanismo antropocentrico cristiano, risolve quindi, nel senso che pensa, l’intera Domanda filosofica sul Fondamento, nella condizione in cui è l’Io e solo l’Io questo fondamento, esso è il centro da cui si muove la res cogitans (la cosa che pensa…) che deve andare incontro all’altro da sé, all’oscuro e ignoto altro, trovando pertanto la sua ratio nel dubbio che, effettualmente, non può che sorgere come primo atto mentale di tale “cosa pensante”, dinanzi alle tenebre della non conoscenza da cui è avvolto l’altro (la cosa in sé di Kant…) e cioè la res extensa, (la cosa estesa secondo la quantità); quest’ultima infatti non è più il fáinomai greco che è l’apertura alla sofía e cioè l’alétheia, – tali termini, nell’ordine, significano il “manifestarsi” del Mondo nella Luce; la radice di fáinomai, infatti, è la stessa di fous che è la luce e di sofía che è la sapienza, la conoscenza – il suo svelarsi, il suo liberarsi dal velo dell’oblio – Lete, nella teologia orfica, è il fiume dell’oltretomba che, una volta attraversato, provoca la dimenticanza e quindi l’ignoranza della vita e della conoscenza che sono la Luce – lo svelarsi quindi è la Verità: per lo spirito indoeuropeo, pertanto, la Verità e la Conoscenza di essa sono lo stare (epistéme) delle cose nella luce del Mondo, il loro uscire e il loro sbocciare[1], avanzando, incontrando e pervadendo l’anima del vivente, che è aperta al Mondo, gioiosamente amica dello stesso in tutte le sue forme.
Se tale natura umana scompare, se gli enti non si vedono e non si toccano più come viventi, in quel “momento” quello che si trova dinanzi a codesto ormai singolo Io, in senso proprio atomistico, è solo il non-Io e cioè la negazione dell’Io, quasi un suo nemico, e quindi l’altro, l’oscuro oggetto che non emerge, non appare, non è più luminoso poiché non è più nella Luce; è, insomma, l’Ade, l’oscuro e umido mondo dei Morti, dove non c’è né conoscenza né vita, ma parvenza di vane ombre, come ci rammenta in guisa similare il divino Platone nel suo Mito della Caverna. Hegel esplicita, nella sua Fenomenologia, che la conoscenza nel suo complesso percorso di realizzazione, si manifesta sin nella percezione sensibile (che è già spirito ma non lo sa!) e quindi trova la sua prima ed esclusiva legittimazione nel chiuso della coscienza; se non si esce però da tale stato coscienziale, che è sempre di natura ancora soggettivistica e quindi non è apertura verso il vero Sapere, si resta inevitabilmente prigionieri dell’incantesimo dell’Io, dove inizia e tristemente si conclude l’intero processo gnoseologico dell’intelletto astratto e determinante; esso può avere solo due esiti o “soluzioni”: una è quella fondata sul dualismo cristiano e che ha per oggetto la tematizzazione del principio della adaequatio rei et intellectus e l’altra è quella espressa da Cartesio, sviluppata da Kant e da Fichte consistente sempre nel movimento dell’Io verso la res extensa o il noumeno inconoscibile oppure, nella ipertrofia del soggettivismo, nella “creazione”, da parte dell’Io, del non-Io stesso. L’essenzialità, comunque, in termini filosofici, dell’individualismo antropocentrico moderno, consiste nella convinzione, che è frutto di un modo d’essere della coscienza, che tutto il processo della conoscenza, finalizzato non più al sapere, alla Gnosi, e quindi al superamento della stessa dimensione umana in virtù dell’assimilazione al Divino, che è il fine dell’Opera Filosofica; inizia nell’Io, a causa dell’Io, si sviluppa e si muove dall’Io medesimo verso l’altro, il non-Io, che non è più il Dio cristiano ma l’aggregazione delle cose e dei pensieri, dei desideri e delle volontà di cui l’Io, essendone il “signore”, deve appropriarsi, deve possedere, dopo aver creduto di conoscerne l’essenza che, per tale stadio della coscienza, astratto ed empirico, pragmatico e finalizzato al solo uso tecnicamente orientato, ha l’esclusivo obiettivo di alimentare l’illusione di potenziare sé stessa, non può che essere simile alla sua natura medesima e cioè cieca materialità priva di vita, esprimentesi, al massimo, in fredde ed intellettualistiche elucubrazioni algebrico-matematiche.
Tale è il processo genetico essenziale della modernità, consistente nell’impoverimento e nel graduale inaridirsi dello spirito umano e proprio per la ragione del suo rinchiudersi sempre più nel piccolo guscio del suo Io che alla sua limitata veduta appare invece un enorme e capiente palcoscenico. Tutto ciò dinanzi al Sapere di Hegel, che è di natura straordinariamente ermetico-platonica[2] e, pertanto, in guisa rivoluzionario-conservatrice, integralmente collocato nella realtà vivente della spiritualità ellenica nonché arcaica, non fa che dileguarsi, scomparire come nebbia che abbandona l’orizzonte dinanzi alla luce del giorno ed all’incipiente calore del sole. La conoscenza, il cosiddetto problema gnoseologico (che tale non è mai stato se non nelle astrazioni dell’intellettualismo moderno ed a causa dello stesso uscire dal Mondo dell’Io, ponendosi di fronte allo stesso come ad un “oggetto” estraneo…) per Hegel, come per l’intera esperienza filosofica greca, non è altro che Gnosi, cioè processo iniziatico, itinerario normale e naturale, inevitabile e intrinsecamente umano, finalizzato al superamento dell’umano medesimo, nell’essere, nei limiti della propria condizione mortale, sempre più simile al Divino[3].
La filosofia, pertanto, è vita religiosa, è servizio divino (Hegel), è rituale di coabitazione gioiosa con e nella Natura che, essendo divina, non può che aiutare l’uomo medesimo, il quale saprà vedere se stesso nel mondo e quindi aprire il Palazzo chiuso del Re, che è lo Spirito destatosi dal suo sonno; il Sapere, è, quindi, solo ed esclusivamente processo anamnetico, ricordo e piena autoconoscenza e quindi serena consapevolezza di essere sempre stato ciò che si è dimenticato di essere e, poiché lo si è ignorato, non lo si poteva essere più, atteso che essere la natura che si è da sempre, essere il Divino che si è da sempre, significa conoscere l’essenza di “questa natura” come simile a quella del Mondo e, pertanto, ricordare di essere sempre stato il Medesimo ancorché “cacciato” dallo stato edenico o “decaduto” da quello primordiale che è la stretta comunanza con gli Dei.
La essenza indoeuropea del concetto di Sapere che Hegel difende e che è la continuità della Tradizione platonico-ermetica, non sa nulla, pertanto, di Io e non-Io, di confronto-conflitto tra tali due facce della stessa allucinazione, della medesima schizofrenica dicotomia dell’uomo moderno; la Conoscenza in Hegel è “qualcosa” di talmente evidente e necessaria che non può che essere la Conoscenza dell’Assoluto che ha per “oggetto” l’Assoluto medesimo in quanto è l’Assoluto che conosce se stesso e che è, quindi, il Sapere assoluto, non nel senso stupido (così come alcuni tra i moderni lo hanno interpretato…) del Sapere “tutto”, ma bensì nel significato molto più realisticamente profondo e rinnovatore della stessa piccola natura umana, in guisa che quella che altri continuano a definire “filosofia” come amore-ricerca di ciò che non si ha e non si può più avere, cioè la Sofia, quindi, la Sapienza; torni ad essere invece, come lo stesso Hegel esplicitamente rivendica, proprio ciò che qualifica la Conoscenza di ciò che si è e cioè dell’Essere e non sia più ricerca vana della Sapienza ma Sapienza acquisita poiché il fine della stessa non è, come nella follia moderna, il fare cieco e servo della mechàne (termine greco, padre della parola italiana meccanica, il cui significato è: artificiosità falsa e ingannatrice…) finalizzato alla creazione dell’illusione suicida del “potere”, del “possedere” che poi si risolve, per l’appunto, in un distruggere sia il Mondo che l’Io stesso terminando nell’oscurità satanica del subumano; ma, il Sapere, nel senso platonico-hegeliano, che è, infatti, il tornare all’Inizio, a ciò che si “era” e che comunque, si è sempre stato, in un processo circolare che è la “en-ciclo-pedia” (educazione circolare del fanciullo, in senso analitico-letterale). Il Sapere assoluto quindi non consiste nel possedere nozioni o conoscenze, poteri o capacità, argomenti retoricamente convincenti o “arcani” discorsi, ma è la consapevolezza fondata sulla evidenza, la illuminazione di tutto l’essere, consiste pertanto nell’essere nella Luce che è l’essere Luce che vede e conosce solo la Luce, nel senso che tale Conoscenza è assoluta poiché è libera e sciolta da qualsiasi vincolo o limite spazio-temporale, avendo per “oggetto” ciò che è fuori dallo spazio e dal tempo, cioè l’Intero che è il Vero ed è l’Assoluto nel suo significato esoterico, in una parola si tratta del Risveglio gnosico e quindi dell’effettuale riconoscimento che noi umani, più intensamente ed ancora più inderogabilmente di tutti gli altri viventi, siamo tenuti, trattenuti, legati e fasciati e quindi protetti da e con il Mondo dalla Divina Necessità (di cui parla la Tradizione Omerico-Ellenica), poichè il Medesimo è il Signore del Tutto poiché è l’Uno del Tutto; noi quindi non possiamo che conoscere gli enti tutti del Mondo per la ragione che non possiamo che conoscere noi stessi, atteso che noi e gli enti (tutti) siamo la stessa cosa: quello che noi chiamiamo Pensiero è Essere e quello che sempre noi chiamiamo Essere è Pensiero.
La Conoscenza è, quindi, la trasparenza, il movimento, il passaggio, la fecondazione inseminatrice, in forma di circolo, dell’Anima-Idea che vede sé stessa poiché va dall’Uno al Tutto e dal Tutto all’Uno, dove la massima ed assoluta gioia della stessa risiede nell’essere (ricordando) Uno nel Tutto e Tutto nell’Uno, nel Sapere che ciò che, ancora in senso limitato, chiamiamo circolo e movimento circolare è, in verità, immutabile e immodificabile Natura (Phýsis) che è sopra la stessa, è l’Intero dove non vi sono parti ma solo momenti, dimensioni del Tutto che è Uno.
Se restiamo, quindi, nell’immagine-realtà (l’immaginale) del Circolo, lo stesso, in Hegel, come in tutta la tradizione platonico-ermetica che è mistico-speculativa come in Eckhart e Boehme, consta di “due” movimenti di cui abbiamo già trattato nei nostri libri Lo specchio del mondo, La conoscenza suprema e Sul fondamento; tali “due” movimenti appaiono in codesta guisa solo nei “momenti” del percorso iniziatico, invero però il processo è unico poiché è la potenza del Sé-Ātman che, nel riconoscere se stesso nel riflesso, è se stesso, è un’unica Realtà, è lo Spirito come Nous cosmico. Il “primo” movimento, che è la originaria gelassenheit al Mondo (di cui hanno trattato sia Eckhart che Heidegger e che, molto limitatamente, noi traduciamo con la parola italiana “abbandono”, quando invece il termine tedesco possiede anche altri e più profondi semantemi quali: apertura distaccata nei confronti del Mondo; lasciare che il Mondo e gli Enti si presentino e vengano verso l’uomo nella radura luminosa [Lichtung] che li accoglie facendoli essere quello che sono nel loro apparire nella Luce); in sostanza è la natura spirituale dell’uomo indoeuropeo quale uomo aperto al Mondo[4] e, quindi, attraversato dalle Potenze Divine dello stesso, che sono le Essenze del medesimo; ciò consente a tale uomo di non essere schiavo dell’illusione dell’Io. Come è evidente nell’uomo omerico, egli è nella “sua” essenza vitale e spirituale, nel thymòs, nelle frènes, nella psychè, nel Vivente unitario che è, le medesime Potenze Cosmiche, cioè le stesse realtà Divine: il movimento è, pertanto, il procedere del Mondo come universo delle Idee che si riflette nel Sé di tale uomo che è, in codesta dimensione, integralmente passivo, essendo “invaso” dal Mondo, talché è lo stesso Mondo, riflesso quale Idea nel Sè, ad essere riconosciuto come la sua stessa natura più intima: quelli che per noi stupidi ed arroganti moderni, figli e nipoti dell’antropocentrismo cristiano, sono i “nostri” sentimenti, le “nostre” passioni, le “nostre” idee, e le “nostre” paure, per l’uomo indoeuropeo sono Dei, Potenze Cosmiche, certamente non “sue”, dalle quali è attraversato e pervaso; egli è, pertanto, nella sua essenza, Divino ed egli ciò lo sa, essendone serenamente consapevole. Sono quindi gli Dei medesimi e tutte le altre forze divine e semidivine la “sua” natura più profonda e ciò, lungi dal farlo sentire privo di volontà e di autonomia decisionale e quindi “schiavo” delle stesse (come l’idiozia degli interpreti moderni ha osato pensare, elucubrando sulla presunta e pretesa assenza di autocoscienza e di libertà in tale uomo…) lo dignifica ancor più concedendogli la convinzione ferma, fondata sul Sapere, di essere tutt’uno con l’Universo, aperto integralmente nei confronti dello stesso e dallo stesso liberamente accolto, quasi come abbracciato, in quanto fratello e figlio[5] del Cosmo medesimo; tale natura spirituale lo pone in solidale amicizia con il Divino, avendo la sua natura ed essendo esso Sé medesimo; egli è quindi Uomo cosmico, Uomo di Luce! In questa sapienza risiede la ragione arcaica della natura divina e quindi cosmica che, nello stesso mondo romano, fu riconosciuta a potenze spirituali quali: Spes, Concordia, Fides, Felicitas e altre; mentre noi moderni le riteniamo solo “sentimenti” umani…!
E questo è il “primo” movimento che, anche in Hegel, è presente come catartica passività iniziatica, cioè lavacro primordiale, quasi bagno purificatorio nel Tutto; il processo a questo punto diviene repentinamente attivo, atteso che l’effetto che si manifesta nello Spirito, la conseguenza stessa del Sapere relativo a quello che abbiamo definito “primo” movimento, è il Ricordo-Anamnesi di quanto sia patologica l’illusione dell’Io, di quanta sofferenza e dolore la stessa sia foriera e di come tale illusione quasi come nebbia nasconda ed impedisca di avere conoscenza vera del Mondo e degli Dei, che poi sono il Medesimo, negando all’uomo la realizzazione della sua più autentica natura che è, in sostanza, la natura soprannaturale e cioè la natura naturans, che è il Dio stesso.
L’Uomo cosmico indoeuropeo, pertanto, attivamente supererà e negherà in guisa risolutoria (tale è il significato del solve alchemico…) tutte le “scorie”, i “detriti” (in termini proprio ermetici) della superbia e dell’arroganza umane (cosa che non riuscì a Prometeo, causando così la sua caduta e rovina…), uccidendo definitivamente qualsiasi parvenza dell’illusione dell’Io, nell’identificazione integrale e sublimante con l’Uno (coagula); ecco che la Conoscenza è assoluta, nel senso che è oggettiva e cosmica poiché è il movimento universale del Dio che, dopo aver attraversato l’animo dell’uomo ed essersi visto nello stesso come in uno specchio, uscendo dal fondo dell’animo, ritorna verso il Mondo vedendo in esso, come in un “altro” specchio (che è sempre uno, equivalendo tale discorso alla identità essenziale tra microcosmo e macrocosmo…) Sé medesimo, giungendo così al Sapere assoluto; che è il riconoscimento della sua natura divina nell’uomo stesso che tale non è più, consistendo in ciò quanto nella Tradizione iniziatica è definito identificazione integrale.
Qui è evidente che l’uomo in quanto singolo atomo in uno con la sua finzione dell’Io, non ha alcuna, non solo rilevanza, ma bensì esistenza medesima: è l’Idea, dirà Platone, che, simile all’Anima, dalla stessa viene attratta per necessità cosmica e cioè Divina come, per la stessa ragione, quell’Anima, che ormai è Idea, vedrà e si riconoscerà nella Luce del Mondo delle Idee, che è la Verità del Cosmo stesso. Questa verità dimostra ciò che Hegel afferma, scrive e tematizza in tutta la sua opera: la Conoscenza è essere di una certa natura e non è assolutamente questione di Io e di non-Io, come si era elucubrato prima del suo Sapere; la Conoscenza è un processo cosmico necessario e inderogabile nel quale l’uomo ed il Mondo, il “soggetto” e gli Enti non sono altro che “vasi comunicanti” che, infatti, comunicano tra loro la natura che è comune ad entrambi: l’unica vera Realtà dell’universo è lo Spirito, il Nous dei Greci che è Zeus medesimo quale Arché del Cosmo.
La Conoscenza, quindi, non è un Sapere, se non è, innanzitutto, uno stato dell’essere, lo stato dell’essere che pertiene all’uomo non è umano ma, bensì, Divino, poiché come afferma Plotino, quella è la nostra Casa da cui proveniamo; lo stato dell’essere è la Contemplazione creatrice del Circolo che è la Triade: Essenza-Vita-Intelletto di Proclo come quella: Idea-Natura-Spirito di Hegel; lo stato dell’essere è l’Istante che è l’Eterno, come afferma Platone nel Parmenide, poiché non è in nessun tempo e in nessun luogo; noi viviamo nell’Eterno ma non lo sappiamo, noi siamo eterni ma non ne abbiamo Conoscenza e ciò equivale a non esserlo; pur vivendo nell’Istante non siamo l’Istante: il sorriso enigmatico dell’Apollo di Veio è il sorriso che svela e ri-vela che la Verità, l’Assoluto, il Divino è, semplicemente, ciò che vediamo e ciò che siamo, da sempre.
Note:
[1] M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, Milano 1990, pp. 24 ss..
[2] G.A. MAGEE, Hegel e la tradizione ermetica, Roma 2013.
[3] L. ROSSI, I filosofi greci padri dell’esicasmo, Torino 2000.
[4] G. CASALINO, L’origine. Contributi per la filosofia della spiritualità indoeuropea, Ed. Arya, Genova 2009, pag. 53 ss.; J. EVOLA, La dottrina del risveglio, Milano 1965, pp. 34 ss..
[5] In tale comunione, al contempo filiale e fraterna, vi è la profonda ed esoterica verità della identità primordiale tra la natura dell’uomo e quella Cosmo…!
Giandomenico Casalino