Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Giuseppe Tucci e la spedizione del 1948 – Andrea Morandi
Speciale Giuseppe Tucci – Quarta ed ultima parte
La spedizione guidata da Giuseppe Tucci nel 1948 fu, per l’orientalista, l’ultima in Tibet, e venne dedicata principalmente all’esplorazione della provincia di Ü (dBus). Dopo aver ottenuto il permesso di visitare Lhasa, Tucci si diresse verso est lungo Tsangpo visitando Samye, monastero fondato da Padmasambhava nell’VIII secolo e raggiunse Zingji. Nell’itinerario del ritorno attraversò la valle di Yarlung, dove documentò per primo le tombe degli antichi re del Tibet, sotto la cui dinastia il buddismo si diffuse nel Paese delle Nevi, tra il VII e il IX secolo. Membri principali della spedizione furono, oltre a Tucci, Pietro Francesco Mele[1], Regolo Moise[2] e Fosco Maraini.. Tucci iniziò a preparare la spedizione sin dal 1946, inoltrando le richieste di autorizzazione al viaggio al Foreign Office inglese, tramite il Ministero degli Esteri; il Foreign Office costituiva il tramite tra il Tibet e l’estero, perché non era stata ancora proclamata l’indipendenza dell’India. Tramite della richiesta fu il conte Carandini, allora ambasciatore a Londra; il Governo inglese tuttavia consigliò a Tucci di rivolgersi direttamente a Lhasa. L’orientalista venne aiutato dall’amico sir Basil Gould, Political Officer nel Sikkim e capo di una missione a Lhasa; Tucci chiese al Governo Tibetano l’autorizzazione a visitare Lhasa, Samye, Yarlung e gli altri luoghi celebri del Tibet centrale e sud orientale che lo interessavano. Nel giugno 1947 il Ministero degli Esteri gli comunicava, tramite Londra, che la domanda era stata accolta; lo studioso prese così accordi con la Società Geografica Italiana e con la Marina Militare, che aggregò alla spedizione il tenente colonnello medico Regolo Moise e fece in modo che le due direzioni generali di Sanità e di Commissariato provvedessero all’equipaggiamento sanitario e al vettovagliamento necessario. Come fotografo venne scelto Pietro Mele e, in un secondo tempo, anche Fosco Maraini come addetto alla ripresa cinematografica. L’onorevole Giulio Andreotti fu d’aiuto nel finanziamento della spedizione, poiché vi furono sovvenzioni dai ministri del Tesoro e della Pubblica Istruzione; un altro aiuto economico fu fornito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Mele fornì il materiale fotografico e cinematografico e ci furono altre agevolazioni da parte del Loyd Triestino (viaggio di andata), della Moretti (due tende da campo nuove), della Ducati (una microcamera e una radio), della Confindustria (binocoli) e della Confederazione olearia. Parte della spedizione fu poi, come al solito, finanziato da Tucci stesso.
Nel corso di questo viaggio fu raccolto materiale scientifico estremamente importante e vennero copiate iscrizioni, raccolte cronache, libri liturgici e teologici, studiati i templi e i luoghi di interesse storico; furono inoltre pubblicati il diario della spedizione e il lbro fotografico Tibet di Pietro Mele[3]; assieme a quella del 1937, questa spedizione ispirò a Fosco Maraini il suo libro Segreto Tibet. Mentre venivano portati a termine i preparativi della spedizione, avvenne a Roma quel famoso avvenimento durante il quale Tucci smascherò un “impostore” grazie alle sue conoscenze sul buddismo.[4] A Darjeeling, grande bazar di confine tra India e Tibet, popolato da mercanti di ogni razza, il professore cominciò a organizzare la carovana. La città era piuttosto vivace e attiva, costruita su colli circondati dalla giungla, e con davanti il maestoso Kanchejunga[5]. In breve tempo vengono aggiunti al gruppo un cuoco e il capo carovaniere Tenzin: entrambi avevano partecipato a molte scalate nell’Himalaya con i più noti alpinisti del tempo. Successivamente viene anche aggregato un lama mongolo di Urga, molto colto e preparato, chiamato L. Sangpo, dottore in teologia del monastero di Depùng, uno dei maggiori conventi della setta Gialla vicino a Lhasa. Con due piccole automobili Tucci, Moise, Mele e il lama partono per Gangtok, lungo la stretta strada della valle del Tista. A Gielle Khola viene raccolto Maraini, stanco e accaldato dopo il viaggio con i bagagli, e il 4 aprile raggiungono Gangtok (1667 metri), capitale del Sikkim[6], cittadina deliziosa con strade larghe e pulite, con il tempio e il palazzo reale. A Gangotk si affittano i cavalli per Yatung, il primo villaggio in territorio tibetano. Per procedere più velocemente e non suscitare diffidenza nelle autorità tibetane, il bagaglio viene ridotto al minimo, lasciando il materiale superfluo in custodia ad un mercante indiano; alla carovana vengono aggregati quarantuno cavalli.
Da Gangtok partivano due strade per il Tibet: una ad occidente per Lachen e il Donkhyala che portava a Kampadzong; l’altra, più orientale, valicava il Natula (4358 metri) e si ricongiungeva con la strada che partiva da Kalimpong ed entrava in Tibet attraverso il Jelapla (4387 metri). Tucci opta per il Natula, da lui già attraversato altre volte. A Changu, prima tappa dopo Gangotok, Tucci è portato in jeep per le prime dieci miglia, fino ad un ponte franato, poi a cavallo e a piedi gli altri diciassette chilometri fino al rifugio di Changu, un bungalow costruito in una conca nevosa con un lago. Mele e Maraini praticano un po’ di sci data la quantità di neve, che sul passo è piuttosto fonda. Sul Natula viene raccolta una pietra e depositata su di una roccia abitata dallo spirito che presidia la montagna; su bastoni sottili erano legate banderuole con su scritte preghiere e nastri multicolori offerti dai carovanieri di passaggio. Varcata la frontiera la spedizione arriva in un giorno a Yatung, piccolo villaggio lungo e stretto, posto tra due barriere di montagne boscose sulle rive del fiume Chumbi le case erano tutte di legno con il tetto in pietra ma, ad un paio di chilometri di distanza cominciavano le prime case tibetane, a Chema e a Pipitang, piuttosto imponenti, con ampie finestre incorniciate con legno decorato. Tucci è ricevuto dall’agente commerciale tibetano che lo invita per un tè tibetano[7], e incontra anche il capo del villaggio, chiamato ghenpo, che significa vecchio: egli aveva il compito di fornire provviste, legna da ardere e cavalli a chi possedesse il passaporto regolare. Non era possibile proseguire oltre Yatung senza il lasciapassare rilasciato da Lhasa. Il 13 aprile Tucci aveva mandato un telegramma alle autorità tibetane in cui le informava del suo arrivo e chiedeva un permesso per sé e per i compagni: tuttavia il permesso veniva concesso al solo Tucci, che si era dichiarato buddista. Questo telegramma di risposta lasciava poche speranze, tuttavia Tucci tentava con ogni mezzo di persuadere il governo tibetano affinché almeno il medico potesse seguirlo nel viaggio; la sosta a Yatung durava quindi più del previsto. Tucci prega un lama della setta rossa di compiere una cerimonia esorcistica chiamata barcè selvà, ovvero “eliminazione degli ostacoli”; questo rituale dura due giorni, dei quali il primo posto sotto il presidio di Padmasambhava, il secondo sotto Giampeiang, dio della sapienza.[8]; la cerimonia avviene nella cappella privata di un vecchio amico di Tucci, con una liturgia solenne e complicata di offerte, inni e gesti. Dopo l’esorcismo si passa al Ta, (vaticinio o l sperona che lo compie), dove una donna sulla cinquantina legge il futuro sullo specchio; dopodichè il lama riprende le invocazioni e viene posseduto dal dio; egli getta poi alcuni grani di riso sullo specchio e comanda alla donna di parlare: ella dice di vedere tre uomini che camminano verso Lhasa. Il messaggio che arriva il giorno dopo non conferma però la divinazione: il permesso di recarsi nella capitale è concesso soltanto a Tucci; il Tibet stava attraversano un periodo di forte chiusura al mondo esterno. Il lasciapassare inviato a Tucci gli garantiva, oltre al permesso di recarsi a Lhasa, la fornitura di cavalcature[9] e animali da soma e, dietro pagamento del prezzo corrente nel paese, alloggio, combustibile, barche per il passaggio di fiumi e cibo.
Il 24 maggio l’orientalista prende commiato dai suoi amici e parte da Yatung con venti cavalli e provviste in abbondanza, preceduto dal lama e accompagnato dal cuoco e dal capocarovaniere. La strada è poco più di un sentiero che congiunge l’India con il Tibet attraverso il Sikkim; insieme ai mercanti si incontrano anche monaci e pellegrini, tra cui abati di grandi monasteri, come l’incarnato di Dunkar, ora quattordicenne, incontrato da Tucci nell’”incarnazione” precedente, quando questo abate e teologo era molto vecchio. Tucci aveva l’abitudine di portare dall’Italia parecchie provviste, per non dover sopravvivere solo di cucina tibetana (tsampa [10]e carne di montone o yak), e aveva con sé carne in scatola, verdura, pasta e conserve di frutta. Viene quindi ripercorsa dall’orientalista per la quarta volta la strada della lana fino a Gyantse, normalmente percorribile in nove tappe e posta sotto il controllo di un agente del Governo indiano; i centri principali erano soltanto due, posti alle estremità: Yatung e Gyantse; in entrambi era posto un distaccamento di truppe indiane per la sicurezza dell’agente commerciale e della carovaniera. La carovana raggiunge Pharidzong, primo ingresso nel paesaggio tibetano e importante prefettura; i prefetti erano due, orientale e occidentale, uno laico e l’altro ecclesiastico. Pharidzong era il bazar dove convergevano le carovaniere della lana e in cui si stabiliva il cambio corrente tra la rupia e la moneta tibetana; da qui partivano i sentieri per un altro paese all’epoca proibito: il Bhutan. Lasciato Pharidzong, la strada proseguiva sul passo di Tangla, a 4600 metri; poi scendeva a Tuna e passando per Docen arrivava a Kala, in mezzo a laghi e montagne ghiacciate; era raro incontrare persone su queste strade: qualche pellegrini, qualche lama itinerante, qualche mercante o carovaniere; i villaggi erano scarsi, poveri e di poche case, anche i campi erano inariditi. Lungo la strada erano costruiti alcuni bungalow dove si poteva sostare e, in alcuni, anche telefonare a Phari o Gyantse, se le linee non erano guaste. Non vi erano molti monumenti da visitare o opere d’arte lungo questo percorso: quasi tutti i templi erano statti distrutti durante la guerra del 1904 e i pochi salvati erano stati completamente rifatti. In tutta la strada si trovavano solo tre templi di notevole interesse: Samara, Iwang e Nenying, descritti dettagliatamente da Tucci nel terzo volume di Indo-Tibetica[11].
Iwang, il più antico dei tre, era nascosto in una valletta a sinistra della carovaniera a metà strada tra Samara e Kangmar. Nella piccola cella vi erano immagini di Bodhisattva intorno a Buddha; vi erano poi pitture eseguite sul modello dell’arte khotanese introdotta nel Tibet da monaci che le guerre e la penetrazione musulmana a poco a poco facevano andare via dall’Asia Centrale. A Samara gli affreschi più importanti restavano nell’atrio, ma erano stati ritoccati; erano anche presenti statue di bronzo dell’XI secolo, con tanto di firma dell’autore incisa sul basamento, insieme con quella del monaco committente. Nenying era anch’esso uno dei monasteri più antichi della regione, circondato da un’imponente muro di cinta, con all’interno celle e templi, danneggiati però dalla guerra del 1904. Avvicinandosi a Gyantse la valle si allargava e diventava più verdeggiante. La città di Gyantse era la terza, in ordine di importanza, del Tibet. La sua popolazione, ai tempi della spedizione del 1948, oscillava tra le cinquemila e le settemila persone. L’autorità principale era il Chenciun, un dignitario ecclesiastico con funzioni di agente commerciale del Governo tibetano.
Tucci voleva sostare a Gyantse soltanto un paio di giorni ma, essendo arrivato in un giorno di festa, la sosta divenne più lunga. Vi era una compagnia di attori provenienti da Kyomolung. vicino Lhasa, e tutti gli abitanti erano corsi fuori città a vedere lo spettacolo: tutti i negozi erano chiusi e la città sembrava disabitata. Anche Tucci assiste allo spettacolo degli attori girovaghi: una rappresentazione con scene improvvisate e parodistiche di profeti, pellegrini, musulmani e cinesi, con sberleffi e allusioni sarcastiche. Rispetto a quando era passato qui nel 1939, l’orientalista nota una maggiore ricchezza, case nuove e prezzi delle mercanzie aumentati: in dieci anni il prezzo della vita nel Tibet era triplicato. Gyantse era sempre stata una città molto importante: nel XIV e XV secolo fu la capitale di un vasto principato che arrivava fino a Phari e Kampadzong ed ebbe una parte notevole in quel periodo travagliato della storia tibetana; poi la sua importanza lentamente declinò. Nella città era presente un cumbum, cioè un grosso ciortèn, chiamato Tondol, e una serie di cappelle affrescate. A Gyantse terminavano i bungalow: di qui in poi si doveva dormire in tenda o chiedendo ospitalità alle famiglie tibetane. A nord-est della cittò si trovava il campo dove venivano esposti i cadaveri, in maniera che avvoltoi, lupi e cani se ne nutrissero.
La strada per Lhasa passava ad oriente di Gyantse: lungo la valle del Nyeruchu costeggiava i campi di Tra ring, un feudo della famiglia omonima, con piccoli villaggi di case bianche, rovine di monasteri e casolari. In questa valle i Tibetani fecero resistenza alle truppe inglesi che, durante la guerra del 1904, dopo aver espugnato Gyantse, marciavano su Lhasa. Le testimonianze archelogiche si fanno ora più presenti, con parecchie rovine di villaggi e monasteri. Si passa sotto a Ribeche e ai due piccoli monasteri di Ringan, poi si incontrano le rovine di un gigantesco ciortèn[12], intorno a cui le carovane girano sulla destra. Più avanti, sulla sinistra del fiume, erano presenti file di 108 ciortèn che costeggiavano le rovine di un grande monastero e di un villaggio distrutto chiamato Piling; si passava per Gyaridong e Gyatrak, piccoli conventi e villaggi ridenti. Gobshi è la prima tappa: un luogo importante come nodo stradale, costituito da poche case e rovine di un forte; il nome stesso voleva dire “quattro porte”,cioè le porte delle quattro strade: quella a est, che andava a Ralung, chiamata anche strada della Legge perché giungeva a Lhasa,quella a sud chiamata strada di Gninro o del legno, perché dal sud (Bhutan) proveniva il legname; quella di Gyatrak o dell’orzo a ovest, perché sui campi fino a Gyantse cresceva abbondante l’orzo e, infine, a nord, quella di Dociag, o starda del ferro.
Fino a qualche decennio prima dell’arrivo di Tucci, Gobshi era una prefettura, poi, essendosi sempre più ridotta la popolazione, il paese perdette importanza e fu abbandonato. A circa un giorno di marcia, in una gola a sud-est, si trovava una cappella chiamata Gninrodemogon, considerata come uno dei monumenti più antichi di questa regione, ma nel 1948 completamente abbandonata: restavano pochissime pitture, risalenti al XIV secolo. Tucci si ferma poi a visitare il monastero di Kamodong, appartenente alla setta rossa, precisamente ai Gningmapa: era uno di quei monasteri detti “Serchim”, cioè di monaci sposati; era dedicato a Gurociovan di Lhobrag e posto sotto la sorveglianza di un monaco imparentato con questo celebre maestro del XIII secolo. Nel tempio non si trovava nulla di interessante, a parte una reliquia molto venerata: una pietra con orme di piedi attribuite a Padmasambhava. A Ralung si risale a 4500 metri e, dopo una sosta per la notte, Tucci visita il monastero omonimo a sei chilometri di distanza, a quasi 4900 metri, alle falde della catena del Norgincangzan. Più che un convento poteva essere definito una città conventuale, in cui monaci e monache avevano anche figli tra di loro; il monastero era uno dei più celebri della regione: fu sempre considerato come una delle roccaforti dei Caghiupà e residenza preferita di Ghiarepà di Tsang., Qui soggiornò e scrisse una guida del luogo uno dei maggiori maestri della setta, Pemacarpo, poligrafo e teorico dell’esoterismo tibetano. Il gompà era disposto intorno al tempio centrale, il Zuglacan, di enormi dimensioni; vi si accedeva attraverso un grande atrio, con pilastri altissimi che la tradizione diceva venuti dal Buthan miracolosamente volando nel cielo; sulla parete erano rappresentate le figure dei quattro protettori dei punti cardinali e la vita dei maestri. Le cappelle all’interno erano imponenti e maestose; in quelle a sinistra, giusto all’entrata, troneggiava una figura di Zepamè, dio della vita infinita, e vicino a lui Dugparinpocè, il maestro fondatore della setta Dugpa. A destra Sakyamuni tra i due discepoli Sariputra e Maudgalyana e gli dei guaritori. In una cappella minore c’erano di nuovo gli otto “guaritori”; in fondo, al centro, si apriva la cella principale dedicata a Maitreya, il Buddha futuro.
Successivamente Tucci, sotto consiglio delle sue guide, visita i templi di Drolma[13] e di Dorgeciàng[14]. Uno degli oggetti più preziosi conservati a Dorgeciàng era una lampada indiana del XII secolo, di bronzo dorato, foggiata a fiore di loto, con ciascun petalo lavorato a rilievo. Nel piano superiore erano venerate le immagini dei lama Dugpa: una galleria di statue rappresati la serie dei santi, il “lameghiù”, le persone fisiche nelle quali si incorpora il supremo maestro. Sopra, nel Uzè, ovvero nell’ultimo piano, si trovava Dorgeciàng circondato dal “lameghiù”. Il Goncàn[15] era il tempio più antico di Ralung:nel centro, in un grande ciortèn, erano racchiusi delle reliquie; sulle pareti vi erano affreschi molto importanti, ma in gran parte rovinati, che rappresentavano la vita di alcuni maestri della scuola.
Un altro tempio di notevoli dimensioni era quello dedicato a Dorgesempà, con pitture rappresentati la serie dei maestri e ai lati della porta i protettori dei punti cardinali, i quattro Ghialcèn, tutte risalenti al XVIII secolo. Circa cinquecento metri oltre la città conventuale sorgeva isolato un grande Cumbun, di poco più piccolo rispetto a quello di Gyantse, ma come quello contenente all’interno molte cappelle affrescate. Si conosce la data di esecuzione di queste pitture perché in una delle cappelle, dedicata ad Avalokitesvara, si vedeva l’immagine di Sonamtobghiè, reggente del Tibet dopo la morte del sesto Dalai Lama.[16]. Scendendo dal piano superiore si passava successivamente per le cappelle di Samara, Hevajra, Guhysamaja e Kalacakra, gli Ydam più venerati dalla setta Gialla. La guida conduce poi Tucci nelle altre cappelle tra cui quella di Zepamè, un altro Goncàn con figure nere e gialle, attribuite dalla tradizione a Pemacarpò.
Dopo aver concluso la visita al Cumbun Tucci visita il Potrai, palazzo dell’abate., dove erano raccolte le immagini di Zepamè, di Pemacarpò e degli altri maestri della setta. Dopo Ralung la strada proseguiva sul Karolà (5124 metri), in mezzo ai ghiacciai; a Nangkartse la carovana si accampa due giorni, per cambiare i cavalli e visitare il monastero di Samding. Questo gompà, costruito da Potopa Cioglè Namghiàl, era un convento famoso per l’incarnazione della dea Dorgepamò, dalla testa di cinghiale, che si reincarnava periodicamente: al tempo della visita di Tucci era una bambina di tredici anni. Vi erano pellegrini che stavano arrivando per una festa che si sarebbe svolta di lì a pochi giorni. Nel tempio maggiore l’immagine centrale rappresentava Sakyamuni circondato da otto Bodhisattva in piedi, sullo stile di quelli di Iwang, ma più recenti. Alcune pitture, di cui rimanevano poche tracce, risalivano al XVI secolo. Il Goncàn era ricolmo di spade, lance e corazze appese: secondo la tradizione erano tutte state prese agli Zingari che, durante la loro invasione del Tibet, tentarono invano di depredare il tempio.
Il monastero era costituito da di versi templi grandi e piccoli, con intorno le tende nere dei Drog pa, pastori nomadi che vagavano con le loro mandrie. Erano presenti enormi reliquiari d’argento con incastonate pietre semipreziose con i resti delle varie incarnazioni della dea. A Nangkartse Tucci incontra una sua vecchia conoscenza del viaggio del 1935: il figlio del prefetto di Davadzong, che lo riconosce subito, essendo molto rara la visita di europei in quelle zone. Il tempio era molto rovinato, si erano salvate però alcune statue di bronzo dorato della migliore epoca dell’arte tibetana, fra cui alcune di origine indiana. Nel Concàng erano conservate alcune thanka antiche del XV o XVI secolo. Una delle camere delle forte era indicata dalla guida come quella in cui era vissuto il quinto Dalai Lama. Vi era poi da visitare il tempio Lundùp, costruito sul fianco della montagna e appartenente ai Caghiupa; nel tempio principale erano venerati i Buddha dei tre tempi Dipankara, Sakyamuni e Maitreya; in questo tempio e nel Ducàng si potevano vedere molte immagini di bronzo di epoca antica, alcune sicuramente nepalesi.
Dopo Nangkartse la strada costeggiava il lago Yamdrog. Fra Nangkartse e Pede partiva la strada per Tashilumpo, che passava per l’imprtante feudo di Rinpùng. A Pede le rovine del forte si specchiavano nel lago placido, e da lì si diramavano le due carovaniere per Lhasa: una attraversava il Kampala e veniva chiusa il 15 giugno, quando il fiume ingrossava e rendeva il traghetto pericoloso; l’altra passava per il Nyapso la. Dato che era in tempo Tucci decise di passare per il Kampala, dove si imbatte in diverse carovane armate per paura dei banditi., nonché in un variopinto corteo nuziale. Appena valicato il Kampala, il paesaggio cambia e compare il Brahmaputra, chamato Tsangpo dai Tibetani, che esce da una stretta gola sormontata dai picchi rocciosi ghiacciati del Karag. A Chaksam si attraversava il Brahmaputra con una grossa zattera ma, anticamente, vi era un ponte sospeso con due grosse catene su cui poggiavano le traversine, agganciate a due pilastri: le assi di legno erano scomparse ma c’erano ancora le catene. Qui Tucci visita anche un monastero, dedicato all’asceta Tanton Ghiepò, celebre maestro del Quattrocento che progettò il ponte e divenne un santo. Il monastero era costruito sul fiume,con il corpo centrale costituito dal Ducang, la sala delle adunanze, dove non vi era nulla di notevole a parte i Buddha dei Tre tempi sulla parete di fondo, seppur rifatti e ridipinti da poco tempo; vi erano poi immagini di Zepamè e Cenrezig e una splendida statua di un Bodhisattva, con caratteristiche che ricordano l’arte cinese. Tucci non nota nient’altro di significativo dal punto di vista artistico in questo tempio. Attraversato il fiume, la strada correva verso Chushul, in mezzo a pietraie inframezzate da zone più verdi, scendendo a 3400 metri; il paese contava poche decine di case piuttosto ricche, boschetti, campi e in alto, sulla cresta di un dosso inaccessibile, le rovine di un forte. La città era deserta poiché si syava svolgendo una festa religiosa e tutti si erano recati in un monastero vicino per la celebrazione, che si concluderà tuttavia con una rissa di ubriachi.
Tucci prosegue poi per Natang[17], sempre costeggiando il Kychu, lungo una pista di trentacinque chilometri, tra rari villaggi e scarse coltivazioni. A Netang rimanevano tre templi, ormai ridotti in rovina dalle guerre. Il primo si chiamava Dolma lacàn: nella prima cappella, in un ciortèn di bronzo dorato, era conservata la veste di Atisa, in un altro ciortèn la tradizione raccontava fossero deposte le reliquie di Marpa, maestro di Milaraspa.. Seguiva una cappella dedicata a ventuno manifestazioni di Tara, in bronzo dorato, tutte sedute nella posizione prescritta dalle regole iconografiche, coperte da un paludamento di seta. In una cappella che si poteva far risalire ai tempi del fondatore, vi erano immagini della dea protettrice, una statua di Maitreya in piedi, del tardo periodo Pala e dietro, una grande statua di Buddha, che la tradizione diceva essere venuta dall’India, con tracce di pitture nepalesi nell’alone di legno. Seguiva poi una terza cappella, dedicata ai Buddha dei tre tempi, ciascuno con ai lati i proprio accoliti: quattro da ciascun lato, essi vigilavano le statue degli otto Bodhisattva in piedi, simili a quelle del tempio di Iwang., anche se più recenti.
Circa un chilometro prima di arrivare nel paese sorgeva il Cumbum lacang, edificio di proporzioni modeste, tutto intonacato di giallo, costruito per proteggere due grossi ciortèn: il primo, con una cupola sommatale, era quello meglio conservato e aveva intorno grossi festoni dipinti di colore scuro, il cui disegno era marcato con spesse linee nere come quello del Cumbum di Gyan, studiato da Tucci nella spedizione del 1939; l’altro ciortèn a sinistra era più irregolare. La tradizione affermava che all’interno di questi monumenti fossero conservati ts’a ts’a e forse anche i resti del grande maestro. Nella parte centrale vi era una cappella nella quale erano venerate immagini di Atisa circondato dai suoi discepoli più celebri: Dronton e Nagtso lottava.. Sulle pareti all’interno erano disposte molteplici figure di Drolma, di colore verde con i capelli neri, disegnate con marcate linee rosse. Il terzo tempio sorgeva vicino al villaggio ed era dedicato ai sedici arhat: al centro si vedeva Sakyamuni con ai lati due statue di Bodhisattva di bronzo, di fine artigianato indiano; molto più recenti erano invece le immagini di stucco dei sedici arhat dispiegati intornio, con aggiunte anche, come spesso avveniva, le figure del Hvasan, un monaco cinese, e di Dharmatala. Nel Goncan era presente una rappresentazione di Scengen, personaggio connesso dalla tradizione con Dharmatala. I custodi del tempio erano due anziani molto devoti.
La strada da Netang a Lhasa seguiva per la costa rocciosa che precipita sul Kyichu e continuava poi per una pianura satura d’acqua e cosparsa da banchi di sabbia, fino ad arrivare ad un tumulo di sassi, da cui era possibile scorgere Lhasa per la prima volta. Dopo essere passato dal convento di Taktà, il cui incarnato era un reggente del Tibet, e da Depung con le sue cappelle e monasteri, Tucci giunge infine sotto al Potala.[18]. A Tucci viene affidata come guida il giovane Namghial Traring, di famiglia nobile: egli viene descritto all’orientalista come un funzionario che parlava un ottimo inglese e aveva modi distinti. Al professore viene poi assegnata una casa di due stanze, con cucina, servi e custode; dalla finestra si vedeva il Bompori, che domina Lhasa, e subito fuori era possibile anche ammirare la massiccia mole del Potala. A Lhasa era giorno di festa: il quindicesimo giorno del quinto mese la gente si riversava fuori dalle case in riva al fiume per fare il bagno, giocare a dadi, bere il ciang, cantare e danzare. Tucci rimane confinato una settimana nella casa assegnatoli, perché i doni che aveva portato per il Reggente erano rimasti indietro per strada, e non sarebbe stato cortese girare per la città senza aver prima incontrato e omaggiato la suprema autorità spirituale del paese e il capo temporale. Ogni visita richiedeva infatti l’offerta di una sciarpa e di doni vari a seconda della dignità e del rango del funzionario. Le sciarpe erano di tre tipi principali diversi: nanzò, asci e zosciè; la prima era di seta molto pregiata, la seconda sempre di seta, ma di minore qualità e la terza era di una stoffa più ordinaria. Questi doni erano venivano posti da parte su un vassoio di legno, e mai direttamente consegnati nelle mani dell’ospite. Gli altri doni erano principalmente oggetti che potevano essere apprezzati dai tibetani di rango, come pistole, orologi di buona fattura, macchine fotografiche, radio, binocoli e penne stilografiche, nonché smalto per le unghie e rossetto da labbra per le signore. Le missioni cinesi e inglesi avevano motori per alimentari le stazioni radio telegrafiche, ed era in costruzione una centrale elettrica a circa sei miglia a est di Lhasa, per dare luce all’intera città.
Tucci, consultandosi con Traring, durante la settimana di pausa forzata stabilisce che, dopo essere ricevuto dal Dalai Lama e dal Reggente, andrà dai due tutori del Dalai Lama, poi dal ciambellano, dal tesoriere del Reggente, quindi dagli Sciape, i tre membri del Gabinetto; seguiranno i due ministri degli esteri, uno monaco e l’altro laico.[19]. L’orientalista viene anche visitato da Kukula, figlia del Maharaja del Sikkim, dal maggiore Kaisher Bahadur, ministro plenipotenziario del Nepal incontrato dal professore a Kathmandu nel 1935 e infine anche dal Kipug, l’interprete ufficiale che accompagnerà Tucci e Namghial Traring nelle visite alle autorità. L’unico strappo alla clausura volontaria di quella settimana viene fatto per la cerimonia di apertura della festa, a cui erano presenti dei ciochiong, ovvero degli indovini che divenivano veicolo di un dio che si esprimeva attraverso di loro, dando consigli o annunciando presagi; a questo seguivano danze di vario tipo. Al termine della settimana di “reclusione” Tucci si reca dunque a porgere omaggio al Dalai Lama, ancora fanciullo di quattordici in età scolare; la visita a Sua Santità era una faccenda piuttosto complicata e il cerimoniale prescritto molto elaborato, con prostrazioni, offerte e benedizioni. Egli era considerato un’incarnazione divina, epifania terrestre di Cenrezig; il giovane proveniva da Jekundo nel distretto di Amdo, in territorio cinese.
Il Reggente, capo effettivo dello stato fino a quando il Dalai Lama non fosse diventato maggiorenne, era scelto di solito fra gli abati dei quattro grandi monasteri della setta Gialla nella zona di Lhasa: Muru, Kundeling, Tsomoling e Tsecholing; nel caso di cui parliamo invece il governatore del Tibet era l’abate di Traktà, un convento piuttosto moderno a pochi chilometri dalla capitale. Egli era un incarnato, e abitava vicino al Dalai Lama, al di sopra della grande cappella del Norbulinga, piena di statue dorate. La cerimonia della visita è in questo caso molto più semplice, e il governatore vuole conoscere da Tucci varie notizie sul mondo occidentale e sull’opinione che gli occidentali hanno del Buddhismo. La giornata continua con la visita ai due yonzin, i tutori del Dalai Lama: uno è un bodhisattva, capo del monastero di Ganden e profondo conoscitore di logica e teologia, l’altro è il grande incarnato di Depung, principale precettore del giovane Dalai Lama. La giornata finisce con recandosi dal Cianzòd, amministratore del Reggente. Il giorno successivo Tucci va ad incontrare gli sciapè, alti funzionari del Tibet, due ecclesiastici (di cui uno assente poiché inviato come Governatore nel Tibet orientale) e due laici. L’amministrazione delle finanze era affidata a quattro Zipon, e vi erano anche quattro Zeciag (tre monaci e un laico) che amministravano il tesoro del Dalai Lama e quattro Laciags che provvedevano ai beni ecclesiastici. Veniva poi il ministero degli esteri chighialekung composto da due Zasa, il Surkhang padre dello Sciapè assistiti da un monaco, un laico e tre ufficiali di rango inferiore. Tucci fa visita agli Sciapè a casa, non negli uffici, per dare alla conversazione un tono più amichevole e confidenziale. Dopo tutte queste visite, che a Tucci paiono quasi un esame, egli comincia a sentirsi a suo agio e fra amici a Lhasa.
Il termine “Lhasa” vuol dire in tibetano “la terra degli dei”, epiteto giustificato dal fatto che essa si trova in un’ampia valle verdeggiante con campi e alberi; anche il clima era più mite rispetto al resto del Tibet. La popolazione era di circa trentamila persone, ma vi era un flusso continuo di carovane, pellegrini e mendicanti che transitavano nella città. Oltre a tibetani di ogni parte del paese vi erano anche vi erano nepalesi, cinesi, musulmani del Ladakh stabilitisi a Lhasa da molte generazioni con piena libertà di culto. Bazar e templi costituivano l’intelaiatura della città, intorno vi erano le case e sopra di esse brillavano le cupole dorate del Zuglacàn e del Ramoce. Il Zuglacàn, affollato da pellegrini, era la cattedrale di Lhasa, dove viene adorato il Giobò, immagine di Buddha che la tradizione ricorda come donata al primo re del Tibet, convertito al Buddhismo, da un imperatore cinese, ma in realtà più recente di qualche secolo. IUntorno a quest’immagine si svolgeva su tre piani una fila interminabile di cappelle con rappresentazioni del pantheon buddista. Oltre all’immagine del Giobò della quale erano molto interessanti stilisticamente la cornice, i pilastri ed il trono, di notevole Tucci nota una statua di Maitreya, Buddha del futuro, che era venerata all’ultimo piano. Esaminando una per una le innumerevoli cappelle l’orientalista trovò alcune tracce di pitture antiche in mezzo alle tante figure più recenti, per lui attribuibili al XV-XVI secolo. Fra le varie reliquie mostrategli, Tucci menziona una ciotola che sarebbe appartenuta al gran re Songonzengampo, custodita in specie di brocca d’argento.
Il Ramocè è l’altro tempio principale di Lhasa: secondo la tradizione sarebbe stato fondato da una delle mogli di Songonzengampo. Qui Tucci scopre un’iscrizione incisa su una piastra di rame dorato, opera nepalese attribuibile al XV secolo, posta sulla facciata di un tempietto dedicato a Sedon; la piastra era lavorata a sbalzo ed era divisa in vari riquadri, con scene della vita di Buddha. Lo studio delle statue e delle cornici porta Tucci a ritenere che i due Giobo siano molto più recenti di quanto la tradizione vorrebbe e sia le sculture nepalesi che le statue non siano anteriori al XII secolo. Il Ramocè era costruito sul modello solito: dall’atrio, sul quale erano dipinti i quattro protettori dei punti cardinali, si entrava nella sala dell’offizio, le cui pareti erano coperte da affreschi non più antichi del XVIII secolo; in fondo alla cella troneggiava l’immagine del Giobo, simile a quella dello Zuglacàng; le si rendeva omaggio girandole a destra nel corridoio per il passaggio.
Nelle vicinanze vi era il tempio di Zepamè, con l’immagine del dio nella cella e sulla parete i mille Buddha del Bhadrakalpa, tutti con le stesse fattezze. Il tempio del Ghaibum Lacàng[20], conosciuto anche come lo Sci tro[21], era stato rifatto a nuovo; vi dominava l’immagine di Padmasambhava e , sulla parete, lo spaventoso corteo dei Naragtondu, divinità infernali accoliti del dio della morte. Vi era poi un altro tempio dedicato ai Ciochiòng, protettori della dottrina e oracoli che predicono il futuro e ai quali era affidata la tutela delle sorti del Tibet: nel tempio vi erano lama delle sette Gialla, Rossa e Saskyapa, unite insieme per il destino del paese. Nel tempio di Zambhala, al piano superiore, aveva una raffigurazione di Sakyamuni con cornice di stucco e sulle altre pareti gli otto Bodhisattva in piedi: erano opere rifatte in tempi piuttosto recenti, sul modello di statue antiche, secondo uno schema che si ripresentava inalterato in tutto il Tibet centrale. Infine viene visitato da Tucci il Chakgpori, sulla cima di un colle isolato tra il Norbulinga e il Potala: era consacrato agli dei della medicina ed era anche un collegio medico; vi si arrivava per un sentiero ripidissimo.
Il Potala era invece un po’ fuori città, e ogni giono frotte di pellegrini salivano le sue scale per adorare gli dei e pregare. Qui la religione era sentita come in nessun altro luogo della terra: dominava tutta l avita, regolava il calendario, ispirava l’arte, un po’ come da noi durante il Medioevo, ma forse ancora di più. Tucci ha l’opportunità di visitare il Potala il quarto giorno del sesto mese, durante il quale tutte le cappelle, solitamente chiuse, erano aperte al pubblico. Il Ducàng, sala delle adunanze, aveva proporzioni gigantesche, con enormi pilastri grossi come torri che circondavano uno squarcio quadrato nel soffitto, da cui entrava la luce nel vano vasto come una piazza: per terra lunghe file di cuscini usati dai monaci durante le cerimonie solenni. Tucci viene condotto dalla guida ad esplorare tutte le cappelle, specialmente soffermandosi in quelle dove si trovavano i resti dei Dalai Lama defunti; pochi erano gli oggetti antichi: il Potala era stato saccheggiato più volte. Nella cappella dove erano custoditi i resti del settimo Dalai Lama, in un piccolo ciortèn d’argento, si sarebbero conservate le reliquie di Cianciub Őd, il re che nell’XI secolo aveva invitato Atisa a venire in Tibet per predicare il Buddhismo. In un altro sacrario si potevano vedere le opere d’arte più preziose del Potala: tre immagini, trasportate a Lhasa dal tempio di Khirong, al confine tra Nepal e Tibet, per sottrarle al pericolo delle invasioni nepalesi: le statue erano però coperte interamente da bende e paludamenti, ed era quindi impossibile per Tucci studiarle.[22] Sulla punta estrema del Potala fu scavata la grotta dove la tradizione vuole che il Srongzengampò meditasse: a guardia vi era una statua di Maitreya. La cappella più ricca era quella del tredicesimo Dalai Lama, morto nel 1933, con lampade d’oro massiccio, vasi e offerte d’argento dorato con pietre incastonate. L’orientalista, contrariamente a quanto riferito da altri viaggiatori, trova il Potala pulito e ben tenuto, però dice anche di trovarlo deludente dal punto di vista dell’archeologo e dello storico dell’arte, a causa dei saccheggi, in particolare da parte dei mongoli. Il bazar circondava i templi da ogni parte, ed era pieno di negozi specialmente cinesi e nepalesi.
Oltre alla città laica a Lhasa erano due presenti due città monacali: Depung e Sera; ai tempi della spedizione del 1948 nella prima avrebbero abitato settemilasettecento monaci e nella seconda circa un migliaio in meno. Più lontano, sulla cima di una montagna a più di quattromila metri di altezza, sorgeva Ganden, che contava tremilatrecento monaci. Queste erano vere e proprie città monacali, in cui abati, frati e seminaristi vivevano da soli o in piccoli gruppi, in case vicine raggruppate intorno ai templi, dedicandosi alla preghiera e alle pratiche mistiche e ascetiche. Depung sorgeva a circa sette chilometri ad ovest di Lhasa, in una vallata cinta da montagne. Questo convento prendeva il nome dal celebra luogo dell’India meridionale dove, secondo la tradizione esoterica, sarebbe stato rivelato dal Buddha un celebre testo della gnosi buddhista del kalachakra, la “Ruota del tempo”. Tucci si reca ad incontrare i quattro abati, essendo il monastero diviso in quattro seminari differenti, ciascuno dei quali retto da un campò, quasi sempre un incarnato, i cui resti alla morte venivano poi raccolti in ciortèn giganteschi laminati d’oro e d’argento. Terminata la visita agli abati Tucci comincia la visita del monastero: vi era la sala delle adunanze, infondo alla quale troneggiava la statua di Maitreya, divinità tutelare di Depung molto venerata e due belle statue di Padmapani molto antiche. Il primo collegio, chiamato Ngagtatsan, era dedicato allo studio dei Tantra; nella sala delle adunanze si aprivano sulle pareti molte cappelle: al centro i Buddha dei tre tempi con otto Bodhisattva; in alto pitture del XVII secolo rappresentavano i sedici arhat. Nel Losal tatsan era mostrata ai visitatori una raffigurazione di Sonamtagpa, grande erudito della setta Gialla, nel Gomangtatsan erano dipinte le 108 opere di Buddha e l’ultimo collegio, il De yan, era dedicato agli dei della medicina.
Preso commiato dalle guide che lo hanno accompagnato, Tucci scende a Nechung sulla strada di Lhasa, nella quale dimorava l’racolo si stato: tutto era moderno, a parte i vecchi pilastri del cortile, e non vi erano iscrizioni. Il convento di Sera era costruito a nord di Lhasa ed era diviso in tre collegi o seminari: Sera ce, Sera mea e Ngag pa; poi Tucci parte per il monastero di Ganden, distante circa cinquanta chilometri da Lhasa, passando prima da Yerpa, uno dei luoghi più antichi del Buddhismo tibetano. Yerpa era una città monacale scavata nella roccia, a dodici chilometri da Lhasa; vi meditarono con Padmasambhava e Atisa i pù grandi apostoli del Buddhismo tibetano. La rupe era cosparsa da grotte, alcune di difficile accesso, e nelle maggiori erano state costruite tempiettie cappelle; Tucci trascorre qui la notte e all’alba del giorno successivo comincia la visita delle cappelle, tra cui quella dedicata ai tre protettori del Tibet Avalokitesvara, Vajrapani e Manjusri, la grotta di Atisa con una statua dell’apostolo, quella dei sedici arhat con le statue dei santi in terracotta e alcuni affreschi del XVIII secolo. In questo luogo Tucci ha l’oppurtinità di conoscere e parlare con asceti e d eremiti, alcuni dei quali vivevano in esilio volontario murtai in grotte solitarie.
Nel Campa lacang vi era una statua di Maitreya con otto Bodhisattva, di stile cinese, ristuccate di recente ma probabilmente molto antiche. Oltre ai Bodhisattva si ammiravano simulacri del padre e della madre di Campa, Drolma e Namsè; vicino a Drolma era l’immagine di Mar ston, il maestro di Mar che fece costruire la grande statua a cui era dedicata la cappella; erano opere del XIII secolo manomesse durante le guerre e restaurate in tempi recenti. Nel Cioghialpug era venerata una grande statua di Ciagtongciaton, Avalokitesvara con mille braccia e mille mani: la statua non aveva alcun interesse artistico, e lo stesso può dirsi di alcune tracce di pitture, forse del XVI secolo. In alcune caverne che si aprivano sui fianchi della grotta principale si vedevano immagini di Srongzengampò con le due mogli. In un’altra cappella la guida indica a Tucci le statue di Begtse, di Pandenlamo, protettrice di Lhasa, e altre divinità terrifiche; in un angolo un frammento di un linga, simbolo maschile con cui l’esoterismo indiano rappresenta il potere creatore di Shiva, probabilmente portato qui da qualche maestro indiano delle scuole tantriche.; nella stessa grotta si conservava il cappello che Lha lun, uccisore del re apostata Langdarma, portava durante la danza nel corso della quale scagliò la freccia che lo uccis. Si passava quindi nell’angolo più segreto e antico: nel mezzo della grotta su un grande basamento a forma di trono stavano seduti quattro Buddha che Tucci identifica in Aksobhya, Amitabha, Amoghasiddhi e Ratnasmbhava; nel centro Vairocana con diadema a cinque facce, ciascuna delle quali racchiudeva un Buddha[23]; sulle pareti della grotta figure di Buddha e Bodhisattva: a sinistra Dipankara[24], a destra Maitreya e Lokesvara: tutte le immagini erano di grande finezza, probabilmente risalivano ai tempi di Atisa, eseguite da artisti indiani venuto forse in Tibet al seguito dell’apostolo. Nel Davapug, dove avrebbe meditato Padmasambhava, a Tucci viene offerto del ciang in una scatola cranica. Gli altri templi Treumaserpò, il Lamalacang, il Zogcang, con pitture del XVIII secolo, non offrivano elementi di particolare interesse; più in basso vi era la cella di Atisa e il Tsepamelacan, con le statue degli otto Bodhisattva e i due ciochiong Hayagriva e Acala, tutti restaurati in tempi recenti; su un pianoro, il trono di Atisa, dove secondo la tradizione il santo predicava ai suoi discepoli, all’aria aperta, con sopra la mole della montagna divina Lha ri.
Il 24 luglio Tucci scende a Dechen dzong e prosegue per Ganden, lungo una strada in salita decisamente ripida, essendo il convento posto su una montagna impervia che domina la valle del Kyichu. Al monastero Tucci si stabilisce in un ambiente di due stanze enormi laccate di rosso e d’oro. Il giorno dopo comincia la visita accurata dei templi rossi dai tetti dorati: nel sancta sanctorum di Ganden erano conservati i resti di Tsonkhapa e dei suoi due principali discepoli rinchiusi in due grandi reliquiari di bronzo dorato. Sulle pareti vi erano notevoli affreschi e nel Yangpacen Lacang vengono mostrati all’orientalista altri monumenti conenenti reliquie di alcuni dei più celebri Tri pa (lettori) del monastero di Ganden. In questo monastero Tucci riesce anche a vedere i nanten, ovvero gli oggetti particolramente sacri che non venivano mostrati senza prima aver otteuto un permesso spaciale dalle autorità del convento: le cose più interessanti erano un mandala del tipo lolan costruito, secondo la tradizione, da Chetrubgè, il cappello di questo maestro e alcune statue di bronzo. Dal sacrario dei nanten il professore passa poi a visitare la cella dove Tsonkhapa morì nel 1420, con pareti affrescate dell’epoca e il trono su cui sedeva il santo, di fattura nepalese del XV secolo.
Nel Campa Lacang si potevano vedere due statue del Buddha futuro, mentre nell’appartamento di Tsonkhapa vi erano stanze buie, basse, con le pareti ricoperte di affreschi anneriti dal tempo e dal fumo: pitture di stile nepalese con motivi in rilievo di stucco dorato. I collegi di Ganden erano due: Sciarze e Ciangze, la “punta est” e la “punta nord”: erano presenti arabeschi, dorature, pilastri imponenti e centinaia di pitture su tela che pendevano dal soffitto tra le colonne e anche diverse thanka ricamate, che la tradizione attribuisce a Gyaza, la moglie cinese di Srongzengam, ma in realtà opere ben più recenti su modello cinese. Ai margini dei conventi erano stati costruiti ricoveri per i pellegrini e locande per i monaci di passaggio che venivano a studiare a Ganden.; le donne non potevano invece passare la notte nel monastero. Dopo alcuni giorni Tucci parte da Ganden e scende a Dechen, fotografando lungo la strada immagini di Buddha, santi e Bodhisattva incise sulle roccie. A Dechen sorgeva un forte potente oggi in rovina e vi era un solo tempio notevole, dedicato a Campa, con una gigantesca statua di stile nepalese. Poco oltre Dechen vengono lasciati i cavalli e viene noleggiata una barca, passando di fronte a Tshkungtang, capitale di un feudo che ebbe grande importanza nella storia del Tibet, e infine si ritorna a Lhasa. Tornato nella capitale Tucci spende i giorni ancora a sua disposizione per visite di addio ai vari amici e autorità locali, che gli fanno visita e gli regalano parecchi libri di argomento religioso, storico, le linguistico come doni di congedo. Inoltre Tucci adotta una coppia di cani di Lhasa che porterà con sé in Italia.
Il professore decide di raggiungere Samye in barca, seguendo prima il corso del Kyichu e poi quello dello Tsangpo, senza così dover dipendere dalla carovana: noleggia quindi tre barche di giunchi e pelli di yak e salpa dalla Città Santa poco dopo mezzogiorno, per approdare due oro dopo a Ramagan, dove sorgeva un piccolo villaggio costruito sulle rovine di un famoso tempio; restavano soltanto, ai quattro angoli del tempio, quattro enormi ciortèn, e sull’angolo di nord-est un pilastro con una lunga iscrizione ricordava la fondazione del tempio e la devozione del re; alla sera Tucci si accampa a Magda, una capanna solitaria sulle rive del fiume. Il giorno dopo si reca a visitare il monastero di Samphu, uno dei più celebri del Tibet; la strada passava vicino alla tomba del suo fondatore, un piccolo sacrario con tetto di tegole smaltate di colore azzurro: purtroppo il professore non riesce a rintracciare il custode e nongli è possibile visitarlo. Il convento di Samphu era appartenente sia alla setta Gialla che ai Sakyapa, e non presentava praticare interesse storico o artistico. Nel tempio principale si apriva, in fondo all’aula delle adunanze, una cella separata con una grande immagine di Sakyamuni di fattura nepalese; su un altare vi erano le statue di Atisa e del fondatore del convento Lodenscerab, una statuetta di bronzo dorato con le fattezze di Tara. Sulle pareti della sala delle adunanze e dell’atrio erano dipinte le divinità principali dell’esoterismo della setta Gialla: Gigced, Ducor, Demciog, Sangduba: pitture di buona fattura ma nn anteriori al XVIII secolo.
Il giorno seguente Tucci ridiscende a Magda e ricomincia la navigazione fino a Chushu, approdando prima a Ushang, in una valle ridente sul fiume Kyichu. A Ushang il re Ralpacen aveva costruito un tempio ricordato dalle cronache, esistente ancora al tempo della visita di Tucci ma, sebbene mantenesse la pianta antica, era stato completamente restaurato. Vi erano quattro ciortèn piuttosto moderni, statue dei Buddha dei tre tempi restaurate sul modello antico e sopra la collina tracce di mura, probabilmente rovine dei castelli reali. Il 5 agosto l’orientalista raggiunge Chushul dove lo stesso giorno, poche ore dopo, arrivano anche Moise e Mele, che avevano aspettato a lungo a Yatung aspettando lungamente il lasciapassare che, seppur in ritardo, alla fine viene loro spedito. Fosco Maraini, non avendo ottenuo il permesso, era tornato in India da Yatung. La spedizione è dunque, seppur parzialmente, ricostruita: Tucci può ora di nuovo contare sulla perizia fotografica del Mele (le foto prese a Lhasa e lungo la strada dal fotografo ingaggiato nel Sikkim erano di qualità mediocre) e sulla preziosa assistenza medica e non del Moise. A Chushul sono ospiti di Tsarong, personaggio molto noto in Tibet poiché consigliere del precedente Dalai Lama e fautore della sua fuga in India per evitare la prigionia cinese; nel 1948 egli era Ministro delle finanze e presiedeva alla zecca e ai lavori pubblici.
Dopo due giorni si riprende la navigazione, sostando a Kongkadzong pe noleggiare le barche fino a Dorjetra. Nel villaggio di Sinpori viene visitato un tempietto famoso, fondato secondo la tradizione da un maestro indiano chiamato Vibhūticandra: il tempio, decisamente antico, era dedicato a Demciog e apparteneva alla setta Sakyapa; vi era una statua di Paocig, divinità tutelare del tempio, di origine nepalese, una lampada di pietra dal piedistallo massiccio e un piccolo pilastro davanti al tempio. Ricomincia poi la navigazione: in media la spedizione percorre sul fiume circa trenta o trentacinque chilometri al giorno. La prima sosta è a Dorjetra, un famoso monastero della setta Gningmapa nel distretto di Tra; vi risiedeva un incarnato, decimo della serie: un bambino di circa otto anni. Le cappelle erano piene di statue e di reliquiari contenenti i resti dei santi;il Ducang era la parte più antica del tempio, con affreschi comunque anteriori al XVIII secolo e una statua di Buddha con gli otto Bodhisattva.
A causa di una tempesta ul fiume, la spedizione non raggiunge Samye in un giorno solo ma è costretta ad attraccare a Zungkar; il 10 agosto vengono lasciate le barche e si prosegue a cavallo sino a Samye, uno dei monasteri più sacri del Tibet. Samye fu fondato nell’VIII secolo da Padmasambhava col favore del re Tisrondezen: fu più volte distrutto e ricostruito e rappresenta un’esposizione delle divinità del pantheon buddhista divisa in centootto cappelle; monaci appartenenti alla setta sakyapa, Gialla e Rossa convievano nel gompà. Il tempio era costruito da un muro perimetrale che correva intorno alle cappelle disposte ai quattro lati del tempio centrale, che si elevava per cinque piani; in ciascuno di questi piani i simboli delle statue rappresentavano una diversa sfera mistica: dalla prima, più rozza e materiale intuizione del divino, si saliva progressivamente alle forme più alte e sottili. Nel primo piano, al Giobo Sakyamuni nella forma giovanile e diademata facevano corona dieci Bodhisattva in piedi, di stile cinese; i due ciochiong Tamdin e Mighiova erano i guardiani delle porte. Nel secondo piano si ripeteva lo stesso ciclo con la sola differenza che i dieci Bodhisattva e i due ciochiong erano di stile tibetano. Nel terzo piano al centro vi era Nanparnangzè: quattro statue rivolte ciascuna verso un punto cardinale e perciò disposte spalla a spalla del tipo Vairocana del Kunrig. Nel quarto ed ultimo piano era presente una raffigurazione di Demciog circondato dai ringà. Questo tempio era costruito come un diagramma mistico, un mandala: i vari sacrai racchiusi nel recinto corrispondevano ai quattro continenti principali e ai continenti minori in cui la cosmologia buddhista spartisce l’universo; i quattro templi corrispondenti ai quattro continenti maggiori erano sisposti ai quattro punti cardinali e gli otto minori rispettivamente uno a destra e uno a sinistra di quelli; ai quattro lati del tempio centrale si trovavano quattro grandi ciortèn. Ad oriente sorgevano due piccoli tempietti dedicati al sole e alla luna. Vi era una cappella dedicata al fondatore del tempio, Pe dkar, piuttosto moderna. Non era rimasto quasi più nulla di antico in questi monumenti a causa dei ripetuti passaggi della guerra: restavano solo un’iscrizione all’ingresso del tempio e una campana di bronzo, dell’epoca della fondazione del tempio. Le cappelle maggiori erano costruite secondo le piante antiche: atrio e cella con corrodoio di circumambulazione intorno; alla immagine principale se ne affiancano altre in piedi o sedute, con l’unica eccezione della cappella a ovest, dedicata a Giampal, che aveva un’abside rotonda, unico esempio del genere da Tucci ritrovato in Tibet.
Dopo Samye Tucci sale sul colle di Haspori, ad un paio di chilometri, dove un giorno sorgeva il palazzo reale, e dove il professore trova invece un modesto tempietto completamente restaurato e privo di interesse; scendedo poi da Haspori nel ritorno a Samye si incontrava sulla strada un altro grande tempio, costruito sul modello di quello centrale: nel primo piano vi era un Giobo circondato da Bodhisattva in piedi, nel secondo il ciclo del Kunrig, con una statua nepalese antica; nei pressi sorgeva un tempietto di piccole dimensioni, con al centro una statua di Padmasambhava con intorno immagini in bronzo di Bodhisattva: forse le uniche statue antiche che restavano a Samye, sebbeno fossero opere nepalesi del XIV o XV secolo. A Samye i membri della spedizione assistono ad una danza sacra, accompagnata da un’orchestra di trombe, tamburi, timpani e clarini. Vicino a Samye sorgevano luoghi molto importanti per la storia religiosa del Tibet: Tragmar, Yamalung e Chimpu. A Tragmar sorgeva un piccolo villaggio, feudo dello Zong di Samye, ma intorno si scorgevano rovine e tumuli; il tempietto moderno sulla cima della collina era conosciuto come il palazzo di Tisrongdezen, e vi erano contenute modeste statue di Padmasambhava e di Namparnangzè come unico ornamento.; più in basso sorgeva ancora più piccola, costruita nel presunto luogo di nascita del re. A Yamalung, ai piedi di una montagna boscosa, Padmasambhava si era fermato a meditare; Tucci rimane deluso di questo monastero, poiché nonostante l’importanza storica del luogo, non nota niente di particolarmente interessante, tranne la grotta dove Padmasambhava si ritirava per invocare gli dei.
Essendo Tucci febbricitante, viene mandato Moise ad esplorare il luogo, ma non trova nulla di interessante. Il 15 agosto la spedizione riprende il cammino per Ngari Tratsang: esso era un monastero imponente, che dominava la valle simile ad una fortezza: nella in fondo alla sala delle adunanze vi era una bellissima statua di Ciampà; sulle pareti, quattro per parte, otto Bodhisattva, e ai due lati della porta Tamdin e Zambala, tutte statue di accurata esecuzione. Sulle pareti della sala dei raduni si potevano vedere affreschi del XVII secolo, grandi figure dei 31 Buddha e le “108 opere” del Buddha. Nel tempio superiore Tucci scopre una’immagine del Lotsava di Tanag, un ciortèn di bronzo contenente le reliquie del santo, opera nepalese del XV secolo, e un grande reliquiario a forma di campana di bronzo dorata, splendidamente decorata con viticci e figure di Bodhisattva, opera cinese del tempo dei T’ang, da Tucci definito come uno degli oggetti più notevoli visti durante questa spedizione. Il campo viene installato a Ngari Tratsang, e Tucci si dedica all’esplorazione della contrada di On, la valle che dal fiume sale a nord fino a Choding, in una vallata larga, fertile e cosparsa di villaggi e campi coltivati. L’orientalist oltrepassa un tempietto, dove Tsonkhapa si sarebbe ririrato per meditare, e prosegue fino a Choding, luogo celebre nella storia della setta Gialla, poiché quel maestro ebbe qui visioni e rivelazioni importanti. Anche il santo Ghiese soggiornò in questo luogo, e le sue reliquie si conservavano in un grande ciortèn di argento coperto da gemme e pietre semi-preziose. Nel tempio di Giobo vi era una statua nepalese con le sembianze di Giobo vie ara una statua che rappresentava Giobo stesso in mezzo a due Buddha, e vi era anche un thanka ricamato con figure di Bodhisattva, con il nome di ciascuno scritto in caratteri cinesi. Choding era costruito nella parte alta della valle di On, con di fronte, a ovest, il tempietto di Keru costruito anch’esso dal re Tisrongdezen: esso era stato riftto, anche se fedelmente al modelo antico. Vi era qualche capitello antico nell’atrio, nella cella in fondo al Ducan Sakyamuni circondato da otto Bodhisattva e due ciorchiong di stile cinese del secolo XVI, in stile cinese. Vicino sorgeva una cappella dedicata ad Atisa, con una statua moderna del maestro e un piccolo ciortèn bianco nello stile dei classici stupa dell’India.
A Ngari Tratsang bisogna poi lasciare le barche perché il fiume si restringe e la corrente diventa forte, cosicché viene ricomposta la carovana e si parte per Densatil, uno dei luoghi più celebri del Tibet, fondato da Pagmo tru, famoso asceta dell’XI secolo. L’eremo rimase per qualche tempo sotto il dominio di Digung e poi divenne il sacrario della famiglia dei Pagmotrù, che nel XIV secolo divennero padroni di quasi tutto il Tibet: qui si trovavano le loro tombe. Il monastero si trovava a 4200 metri di altezza, in cima alle cascate di un torrente: il giorno di arrivo della carovana il convento è in festa. Nell’atrio aperto del tempio centrale erano disposti giganteschi ciortèn, che racchiudevano i reti degli abati e dei principi di questo luogo, che si trasmisero di generazione in generazione il trono abbaziale e quello politico.: erano colossali monumenti di bronzo dorato eseguiti da atisti nepalesi, forse con l’aiuto di maestranze tibetane; ai lati, sulla base, erano raffigurati i quattro protettori dei punti cardinali che delimitavano l’area sacra e tenevano lontane le forze ostili. Al centro della parete stava, impassibile e sorridente, una immensa statua del Buddha tutta dorata, realizzata secondo i modelli dell’arte nepalese. Le statue ai lati del Buddha rappresentavano Campa e Cenrezig. Sugli altari erano custodite statue di ogni genere ed epoca, sia indiane che nepalesi; Tucci è poi condotto dalla guida in una capanna nell’interno del tempio, la stessa in cui meditò il Drongon Pagmotru e sulla quale si sviluppò in seguito questo tempio enorme; all’interno della capanna c’era una statua di Ripocè seduto in contemplazione. Tucci e Moise trascorrono la giornata con i monaci e con la Signora Pandezan, moglie di uno dei più ricchi mercanti del Tibet.
Il 20 agosto la spedizione arriva a Zangrikangmar, con il grande palazzo dei feudatari, il Sandub potang, il tempio dedicato a Maciglab, celebre asceta donna tibetana. Zangrikangmar era alle dipendenze del monastero di Ngari Tratsang, sotto la setta Gialla: era tutto restaurato, ma con ancora qualche statua antica nel nel tempio maggiore e qualche affresco. La strada si allontana poi dal fiume e la salita diventa una dura ascesa tra passi di montagna, oltre i 4000 metri di quota; la carovana passa per Oka, con rovine di un antico castello disabitato e poche case addossate alla roccia, in un luogo freddo e desolato. Tucci è qui invitato dal prefetto a cena e da lui accompagnato a cavallo nelle visite ai monasteri. A Oka restava solo un tempio nel quale si veneravano i Buddha dei tre tempi circondati da dieci Bodhisattva in piedi; tra le statue erano visibili tracce di antiche pitture. A Zinji, a circa 5 miglia a nord-est vi erano tre templi principali: il primo era dedicato a Maitreya, Buddha del futuro, con una statua di Campa gigantesca nella parte più segreta del tempio, scintillante d’oro, ritenuta una delle più antiche statue del Tibet; intorno alle pareti vi erano otto Bodhisattva, e alla sinistra e alla destra della porta Tamdin e Ciagdor, modellati nello stile cinese. In un grande ciortèn d’argento sarebbe stati racchiusi i resti di Taranatha, un celebre poligrafo tibetano, il cui convento tra Sakya e Tashilumpo era stato visitato da Tucci nel 1939. In una cappella minore erano raccolte molte statue antiche, tra cui alcune nepalesi; nella sala delle adunanze le pareti erano affrescate con dipinti non più antichi del XVII secolo; il prefetto si adopera per cpiare un manoscritto che tucci non era riuscito a farsi cedere dai monaci: una cronaca del monastero. Con un lungo giro l’orientalista ritorna da Zinji a Oka passando per Cholung: luogo celebre perché fu eremo di Tsonkhapa, costruito alle falde dell’Odegungchial, in un luogo ombroso, verde e ricco d’acqua: nell’eremo non vi era tuttavia niente di interessante dal punto di vista storico-artistico.
Partito da Oka Tucci torna a Ngari Tratsang dopo aver attraversato il fiume in traghetto, su un barcone pieno di pellegrini, preti, mercanti, cavalli e pecore. A poca distanza dalla confluenza del fiume di Yarlung con il tsangpo sorgeva Tsetang, fondata nel 1390 e divenuta un grande monastero governato dagli abati Pagmotru. Data la sua posizione vicino alla strada carovaniera, Tsetang era cresciuta d’importanza e di popolazione, e aveva un ricco bazar che riforniva le provincie a sud dello Tsangpo, conosciute con il nome generico di Lhokha (il sud). Vi erano anche, come a Lhasa e a Shigatse, mercanti kashmiri da lungo tempo insediatisi nel Tibet e di religione musulmana, dediti a lavori di sartoria e a piccoli commerci. La valle di Yarlung è uno dei luoghi più leggendari del Tibet, ricco di storia e leggenda: in questo territorio sacro erano presenti moltissimi templi e monasteri. A Tsetang vi erano un prefetto laico ed uno ecclesiastico, anche un cichiab, un supremo governatore con il compito di sorvegliare tutti i diciottoprefetti della zona a sud dello Tsangpo: egli era anche un lama, e accoglie Tucci premurosamente nella sua villa. La visita ai monasteri occupa l’orientalista per parecchi giorni Si comincia con il Ganden ciokorling, fondato da Sonantobghie: esso era un complesso immenso, popolato da parecchi centinaia di monaci governati da un abate., con cui Tucci fa conoscenza; il monastero era nuovo e non c’era quasi nulla di notevole. Un altro grande monastero della setta gialla era il Ngaciò nel quale, quando fu ricostruito, vennero raccolti reperti salvati dalle guerre, che giunse parecchie volte in questi luoghi. Nella sala delle adunanze di questo tempio si potevano vedere le statue di dodico Bodhisattva e del Ciochiong, insieme ca molte statue antiche tra le quali spiccavano due Buddha in piedi, quasi sicuramente di origine indiana, e un frammento di bronzo dorato con decorazioni, che risaliva al migliore periodo artistico nepalese. Da questi reperti e dai ricchi ciortèn nepalesi che si erano conservati nel tempio è possibile farsi un’idea dei tesori accumulati un tempo in questa culla della civiltà tibetana.
Nel vicino tempietto, detto Ciocang gningpa, ovvero “il tempio antico”, oltre che le solite statue di Buddha e Bodhisattva, vi erano anche statue antiche. Sopra una collina si ergeva il Samtanling, sede di un grande lama della setta Sakya di nome Sonamghienzèn, e di altri celebri asceti tibetani; non restava quasi più nulla. Scendendo per un sentiero tortuoso si passava vicino al tempio cinese dove troneggiava una grande statua del dio della guerra Kuan ti; il tempio risaliva alla fine del 1700, e la sua presenza era dovuta alla guarnigione di soldati cinesi che risiedevano un tempo a Tsetang. Prima di tornare al campo ci si ferma a Trebuling, un monastero Sakyapa nel quale si ammiravano alcune belle thanka che raffiguravano la serie dei maestri della setta. A circa otto chilometri a sud di Netong si incontrava il grande tempio di Tantrup, costruito, secondo la tradizione, da Srongzengampò, uno dei più antici templi del Tibet e simile a quello di Lhasa. Gli elementi più notevoli erano le statue dei Bodhisattva di bronzo che circondavano la statua di Namparnangzè in fondo alla cella; notevoli anche le statue dei custodi delle porte, di stile cinese, nella cappella dedicata al quinto Dalai Lama; nell’atrio era presente una grossa campana di bronzo con iscrizione, unico reperto antico rimanente del tempio originale. Nel piano superiore Tucci è condotto dalla guida ad una cappella dedicata agli ottantaquattro siddha, maestri delle scuole esoteriche dell’India a cavallo tra il Buddhismo e l’Induismo, rappresentati, secondo l’iconografia tradizionale, in terracotta; nel Goncang si venerava come protettore del luogo Tsangpacenpò, ovvero Brahma.
Proseguendo sempre a sud nella valle di Yarlung, dopo aver visitato il grande monastero di Riwocholing, si arriva Yumbulakang, il castello dove abitava il primo re del Tibet cui giunse, essendo piovuti dal cielo alcuni libri, la prima rivelazione buddhista: era una torre a forma di pagoda cinese che svettava su un basamento quadrato sulla cima di uno sperone sassoso. Tutto qui era stato rifatto, e l’unica cosa notevole nele vaire cappelle era una statuetta nepalese di Dolma. Si scende per un sentiero ripidissimo arrivando a Lharu menghiè, tempio della setta Gialla, descritto nella guida per i pellegrini posseduta da Tucci come uno dei luoghi più sacri della zona; il tempio era su due piani: nel piano superiore vi era una bella statua di scuola nepalese di Candromà , e una grande statua in bronzo del Buddha, di fattura insolita. Il tempio al primo piano era conosciuto come l’ Onlacang, che assomigliava ai Goncang, dove erano raffigurate le divinità più misteriose e terrifiche.
Pochi chilometri a sud sorgeva il Potrang, il palazzo dei re del Tibet: venne ricostruito a valle, sotto forma di una casa modesta con niente di antico, a parte un ciortèn nepalese, nel quale sarebbero conservate le reliquie di Tisrongdezen. In questa zona, culla della civiltà tibetana, Tucci non trovoò quasi nessuna rovina risalente al tempo dei re, eccettuati Tragmar, Pottang e Chongye, dove il professore riuscì a scoprire parecchi tontè[25]. Per andare a Chongye, limite estremo verso sud di questa spedizione, la carovana piega verso Trashichode, grande monastero Sakyapa ai piedi di una collina , in mezzo agli alberi. Nella sala delle adunanze le pareti erano coperte di affreschi murali che ricordano thanka, raffiguranti i sedici Arhat, i Buddha invocati durante la confessione dei peccati, Demciog, Kyedor (il patrono della setta), il Duchichorlo., tutte pitture del settecento; in fondo alla cella, stava una statua del Buddha con ai due lati i monaci Sariputra e Maudgalyayana. Nella cappella dedicata a Nantose, protettore della regione nord e dio della ricchezza, vie era la sua statua circondata dagli otto cavalieri della sua scorta, i tadag. In altre cappelle vi erano statue di bronzo o di stucco che rappresentavano il lameghiu, la serie dei maestri della setta Saskya. Uno degli elementi più notevoli era l’ingresso del tempio con le statue dei quattro Lokapala che, con il loro aspetto minaccioso, tenevano lontane le influenze ostili dal tempio. La carovana riprende poi la strada fino a Reciunpug; Reciung era stato il più grande scolaro ell’asceta e poeta Milarepa, di cui scrisse una biografia. Sulla grotta era stato costruito un convento che dominava tutta la valle, ricca di vegetazione e case. Il convento era dei Kaghiupa: nella sala delle adunaze erano affrescati episodi della vita di Buddha, nella cella le solite statue di Buddha, gli otto Bodhisattva e i due Ciochiong; in altre cappelle era raffigurata in statue di stucco la serie dei maestri della setta.
Laciato il fiume Yarlung la carovana comincia a costeggiare il Ciongyeciu, fino ad arrivare a Ciongye, dove era nato il quinto Dalai Lama, una delle più nobili figure della storia tibetana; le rovine del castello dove era nato, costruito sulla montagna, sbarravano la valle con mura merlate torrioni. Nell’ultimo pano della torre in cima allla fortezza vi era una cappella pericolante dedicata ai sedici arhat, senza opere antiche: la tradizione voleva però che sotto si trovasse la tomba di uno dei primi re del Tibet. Scendendo lungo il costone della montagna si giungeva allo Zon, ricostruito ai tempi dell’ottavo Dalai Lama sul disegno dell’antico castello dove dimoravano i principi di Chongye: la parte più bella era la sala delle adunanze, con il soffitto aperto da cui entrava la luce che illuminava le colonne massiccie. Il campo viene piantato in un parco alberato sulla sinistra del fiume, dove ai membri della spedizione vengono incontro il prefetto, la moglie e il cognato, monaco e teologo. Tucci cercava qui le tombe degli antichi Re del Tibet, delle quali quasi nulla si sapeva prima di questa spedizione, e su cui l’orientalista pubblicò poi un’importante monografia dal titolo The tombs of the tibetan kings. Tucci riesce a carpire alcune informazioni dagli abitanti del villaggio, e ben presto gli viene indicata la tomba del fondatore della dinastia tibetana: sull’altra sponda del fiume, in un tumulo circondato da resti di mura. Sul tumulo sorgeva un tempio, e tutt’intorno, nella campagna, altri tumuli[26]. L’identificazione degli altri tumuli, di cui si erano perse le steli, aveva come sola testimonianza la tradizione letteraria dal professore raccolta in antichi documenti. Per i Tibetani queste tombe non dovevano essere violate e profanate con degli scavi anche se, nel X secolo, quando l’ antica dinastia era caduta e la religione primitiva aveva preso il sopravvento, alcune tombe erano state saccheggiate.
Intorno a Chongye sorgevano vari templi, tra cui quello di Ribodocen della setta Ghelupà, con cappelle, templi e case dei monaci; sulle che partivano da Chongye in opposte direzioni, vi erano due conventi celebri: quello di Zeringjong, visitato da Moise, luogo di nascita di uuno scopritore di libri nascosti da Padmasambhava, i cui resti erano custoditi in un ciorten, e il monastero Gningmapa, totalmente rifatto in tempi recenti. La carovana riprende ora la strada del ritorno per Tsetang, sostando a Sonagthang, grande monastero di antica origine ma privo di opere notevoli e a Chandenlhakang, che Tucci non riesce a visitare a causa dell’assenza del custode. Da qui partiva un sentiero che conduceva alla “rupe di cristallo di rocca”, dove Padmasambhava si era rifugiato per le sue evocazioni, e dove vi erano grotte e piccoli eremi. A Tsetang la carovana si ferma per riposare e riorganizzarsi: ci sono alcuni problemi nel recuperare cavalli dai contadini riluttanti[27], cosicché Tucci è costretto a partire in ritardo, con la metà dei cavalli necessari e lasciando il bagaglio a Tsetang in attesa che giunga il resto della carovana. Dopo aver lasciato Tsetang la carovana, costeggiando il fiume Tsangpo, passa sotto Sheltra fermandosi a Ciasa, antichissimo monastero della setta Sakyapa: sull’architrave della porta, risalente con ogni probabilità alla fondazione del tempio, erano state scolpite undici figure di animali, e ai due lati, erano raffigurati quattro guardiani minacciosi. Al centro della cella rappresentazioni di Opamè, e Mitrupà; in un’altra cappella statue dei Buddha dei tre tempi con gli stessi tratti stilistici di quelli di Iwang e di Nesar.
In tre giorni si andava sa Ciasa a Mindoling, lungo una strada tra il fiume e le montagne; Tucci segue un cammino tortuoso secondo i luoghi da visitare, seguendo ora in particolare un libro tibetano scritto nel Settecento che guidava i pellegrini ai luoghi più sacri: essi coincidevano solitamente con quelli più antichi, che maggiormente interessavano l’orientalista. Questa zona era una delle più ricche del Tibet perché prosperava l’agricoltura, pur essendo utilizzate tecniche primitive. All’inizio della valle di Mindoling, a Tsongdüspa, sorgeva un antico monastero Sakyapa, con una grande raccolta di statue, alcune di grande interesse artistico; nel tempio, intorno alla statua cetrale, i soliti otto Bodhisattva, vestiti però all’indiana con il turbante attorno alla testa. Il convento di Mindoling sorgeva in mezzo ad una cerchia di montagne, con un grande Cumbum e altri edifici, rifatti però di recente. Questo monastero era celebre in tutto il tibet come uno dei luoghi più santi della setta Gningmapà; qui Tucci si intrattiene a lungo con i monaci.
Lasciando a ovest il villaggio di Tsongdüduspa si arriva, sempre costeggiando lo Tsangpo, a Dranang, dove si trovava un monastero Sakyapa non ancora restaurato e molto ben conservato, con statue di Bodhisattva coperte da tuniche di modello iranico con medaglioni istoriati con motivi di leoni e uccelli. Molti degli affreschi erano scomparsi, ma si vedevano scene dipinte in maniera raffinati con episodi della vita di Buddha, con uno stile che poteva ricordare le pitture bizantine[28]; il tutto era però pericolante e c’erano varie infiltrazioni d’acqua. Il Goncang era una galleria di bellissime statue, influenzate dallo stile cinese. A pochi chilometri da Dranang sorgeva il monastero di Champaling, costruito intonro ad uno dei più grandi Cumbum del Tibet, che conteneva al suo interno una cappella con una gigantesca statua di Maitreya. Sulle pareti di fianco erano riprodotte con estrema abilità figure di Bodhisattva; le cappelle si trovavano solo nella parte superiore, e sui diversi piani vi erano corridoi con qualche pittura di tipo cinese; nella cupola erano rappresentati cicli ispirati ai Nalgiorghiu, posteriori al XVIII secolo.
Proseguendo verso Kongkardzong Tucci si ferma a visitare il convento Sakya di Dambuciokor, completamente restaurato, della cui antichità restava il basamento di un pilastro con figure arabescate, e un’iscrizione cinese sull’ingresso di una cappella. Lasciata Citisho (luogo dove srgeva Dambuciokor), la spedizione sosta a Ravame, dove restava un tempietto Sakya con pitture del settecento e rere statue antiche, ed arriva poi Kongkaciodra, dove sorgeva un grande monastero Sakya fondato da Kunganamghial. A Kongkar Tucci è ricevuto da un giovane incarnato di Lhasa, ansioso di conoscere un occidentale e sapere notizie del mondo: i due stringeranno amicizia, e l’incarnato farà conoscere all’orientalista opere letterarie indiane, vergate sui manoscritti originali del IX o X secolo, prima di quel momento sconosciute in Occidente: un riassunto metrico della dottrina Buddhista e un poema su una delle vite anteriori del buddha. Con la guida del nuovo amico Tucci visita il monastero, che conteneva il solito gruppo statuario con i Buddha dei tre tempi e i Bodhisattva, alcuni affreschi di buona fattura che riproducevano scene della vita di Buddha. Sulle due pareti ai lati della cella erano dipinti i lama della setta Sakyapa e gli avvenimenti principali della loro esistenza, ritratti in scene vivaci e piene di movimento; nel Goncang era notevole una statua di Dorgecigè, dalla figura minacciosa ed espressiva. Da Kongkardzong la carovana si muove verso Gyantse percorrendo strade nuove: invece del Kampala viene traversato un altro passo più breve, anche se più faticoso, il Kabrolà, in mezzo a numerose tracce di rovine: nel XVII era stata combattuta una guerra che aveva portato devastazione in queste zone. Si scende sul lago Yamdrog fino a Gyantse.
Note:
[1] Pietro Francesco Mele fu aggregato come fotografo alla spedizione del 1948. A causa della mancata concessione del visto da parte delle autorità tibetane, dovette sostare a Yatung per circa due mesi. Ottenne il permesso molto tardi, e raggiunse Tucci il 5 di agosto, dopo che questi aveva già visitato Lhasa. Dal viaggio in Tibet con Tucci, Mele ha ricavato il libro fotografico Tibet, con introduzione di Giotto Dainelli, Napoli, Morano, 1956 (testo in inglese e italiano), che ha avuto varie edizioni. Le foto riportate dal Tibet sono state in seguito cedute al Museum für Völkerkunde dell’Università di Zurigo. Ha pubblicato inoltre reportages fotografici su Ceylon, India, Hong Kong, Afghanistan e Bhutan.
[2] Regolo Moise (Cherso (Croazia), 2 novembre 1901 – Roma, 1 novembre 1982). Si laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Roma nel 1925. Entra in Servizio Permanente Effettivo come Ufficiale medico della Marina Militare nel 1929. Dopo la specializzazione in Parassitologia alle Università di Amburgo e Roma (1931-1932), viene destinato all’Ospedale civile di Mogadiscio (fino al 1934). Nel 1935 è nominato Capo Servizio Sanitario della base di Assab (Eritrea). Tra il 1932 ed il 1936 conduce inoltre ricerche epidemiologiche ed entomologiche sulla malaria nella Migiurtinia. Resta in Africa orientale fino al 1941, quando viene fatto prigioniero dagli Inglesi. Partecipa alla spedizione Tucci in Tibet del 1948 ma, giunto a Yatung, riceve la comunicazione che le autorità tibetane gli hanno negato il visto. Attende a lungo il permesso a Yatung insieme a Mele e a Maraini e, ottenutolo, riesce a ricongiungersi con Tucci a Chusul, il 5 di agosto. Dal dicembre 1949 dirige il Centro Studi e Ricerche Malattie Tropicale della Marina Militare di Mogadiscio, nell’ambito dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia; direzione che poi lascerà a Concetto Guttuso nel 1953. Dal pensionamento, avvenuto nel 1962, sino al 1971 collabora con la Commissione medica per le pensioni di guerra.
[3] G. Tucci, A Lhasa e oltre. Diario della spedizione nel Tibet 1948, con un’appendice sulla medicina e l’igiene nel Tibet di R. Moise, Roma, La Libreria dello Stato, 1950; Id., «To Lhasa and Beyond», Arts and Letters, XXIV, 1950, pp. 35-41; P.F. Mele, Tibet, introduzione di Giotto Dainelli, Napoli, Morano, 1956.
[4] Il capo di una setta chiamata Bodha, che si autodefiniva “Buddha vivente”, “Grande abate del Bodha-mandala di Tashilumpo” (personaggio secondo Tucci mai esistito in questa città, da lui visitata due volte) e portavoce ufficiale del Tibet, attaccò verbalmente Tucci e lo minacciò di morte, nel caso si fosse recato in Tibet. Il professore lo sfidò pubblicamente parlandogli in Tibetano e rivolgendogli delle domande sui misteri buddhisti, alle quali l’individuo non fu in grado di rispondere, e fu costretto a lasciare l’Italia. Dalla Svizzera questo strano personaggio, che di nome faceva Cherenzi Lind, spedì ai giornali di Roma una lettera nella quale dava a Tucci un appuntamento a Darjeeling dove avrebbe risposto alle sue domande: a Darjeeling però l’orientalista non trovò traccia del suo “avversario”, che il Governo Tibetano rivelò in una dichiarazione non avere alcun rapporto con il Tibet.
[5] Il Kangchenjunga è la terza montagna più elevata della Terra. Situata al confine fra il Nepal e lo stato indiano del Sikkim, dal 1838 al 1849 è stata ritenuta la vetta più elevata del pianeta. Nel 1849 rilevamenti britannici appurarono che l’Everest e il K2 erano più elevati. Il Kangchenjunga è il più orientale degli “ottomila” dell’Himalaya. L’origine del termine Kangchenjunga è incerta e controversa ma una delle versioni più diffuse è quella che attribuisce alla parola la traduzione “cinque tesori della grande neve” con riferimento ai cinque picchi di cui è composto il massiccio. Fu scalato per la prima volta nel 1955 da Charles Evans, che guidava una spedizione inglese ma il primo tentativo di scalata risale al 1905, quando quattro membri della spedizione guidata dal noto poeta, occultista e scalatore britannico Aleister Crowley morirono a causa di una valanga. Valanghe e smottamenti sono molto frequenti per via delle abbondanti precipitazioni.
[6] Il Sikkim, chiamato drenjong dai Tibetani (Paese del riso), è un territorio posto tra Tibet, Bhutan, Nepal e Bengala.
[7] Il tè tibetano si ottiene facendo bollire a lungo il tè, lo si rovescia in un recipiente di legno a forma di tubo insieme con burro, sale e, avolte, un pizzico di soda, poi lo si agita ripetutamente. Dopo averlo riscaldato lo si serve in tazzine di rame, argento o giada, lasciadolo in una teiera in rame o in argento.
[8] Giampeiang veniva spesso rappresentato con il libro della gnosi nella mano sinistra e la spada, simboleggiante la conoscenza che squarcia l’ignoranza, nella destra.
[9] Tucci era comunque solito andare a piedi, tranne in caso cadesse malato, perché voleva condividere le fatiche e i pericoli dei carovanieri durante le lunghe marce nelle vastità del Tibet.
[10] Farina d’orzo mescolata con acqua di tè tibetano
[11] G. Tucci, Indo-Tibetica, voll. 1-3: «I templi di Gyantse», Roma, 1941.
[12] Era chiamato il ciortèn di Gya, forse in tributi ad un’asceta che portava questo nome.
[13] Drolma è la dea misericordiosa che aiuta chi la invoca nel momento del pericolo.
[14] Simbolo della verità che trascende le sue infinite, seppur effimere, manifestazioni.
[15]Il Goncàn era la parte più segreta di tutti i monasteri, dove si venerava lo yi dam della setta, ovvero l’aspetto terrifico della divinità protettrice della scuola, che assume quella forma per combattere le forze ostili che possono offendere la purezza del luogo.
[16] Egli fu un grande patrono della religione, a cui si deve la stampa delle scritture buddiste, il Kanghiur e il Tanghiur, più di trecento volumi, eseguita nel monastero di Narthang, vicino a Tashilumpo.
[17] Natang è un posto celebre nella storia tibetana, poiché vi morì, sulla via del ritorno in India, uno dei maggiori apostoli della diffusione del buddismo: Dipankara Atisa. Egli era nato da nobile famiglia nel Bengala occidentale a Vajrayogini, villaggio visitato da Tucci nel 1926. Divenne uno dei luminari della più celebre università buddistica, quella di Vikramasila, e da lì la sua fama giunse in Tibet. Un principe del Tibet occidentale lo invitò nel proprio regno perché predicasse e diffondesse il buddismo. Dopo qualche anno passato nel Tibet, Atisa giunse nel Tibet centrale e morì a Netang già vecchio nel 942.
[18] Il palazzo del Potala prende il nome dal Monte Potala, la dimora di Avalokitesvara; esso fu la residenza principale del Dalai Lama fino a che il 14° Dalai Lama fuggì a Dharamsala, India, in seguito all’invasione ed alla fallita rivolta del 1959. Attualmente il Palazzo del Potala è stato convertito in museo dal governo cinese. L’edificio misura 400 metri sul lato est-ovest e 350 metri su quello nord-sud, con pietre inclinate spesse 3 metri (5 metri alla base), con rame fuso attorno alle fondamenta per aiutare a proteggerlo dai terremoti. I tredici piani dell’edificio (contenente oltre 1000 stanze, 10.000 reliquiari e circa 200.000 statue) si alzano per 117 metri sulla cima del Marpo Ri, la “Collina Rossa”, con un’altezza totale di oltre 300 metri dal fondo della valle. Secondo la tradizione le tre principali cime di Lhasa rappresentano i “Tre Protettori del Tibet”. Chokpori, immediatamente a sud del Potala, è la “montagna dell’anima” (bla-ri) di Vajrapani, Pongwari è quella di Manjusri e Marpori, la cima su cui si trova il Potala, rappresenta Chenresig o Avalokitesvara. Il sito venne usato come luogo di meditazione da re Songtsen Gampo, che nel 637 costruì qui il primo palazzo al fine di onorare la moglie Wencheng, della dinastia Tang della Cina. Lozang Gyatso, il quinto Dalai Lama, iniziò la costruzione del palazzo del Potala nel 1645[5] dopo che uno dei suoi consiglieri spirituali, Konchog Chophel (morto nel 1646), fece notare che il luogo sarebbe stato ideale come sede del governo, situato tra i monasteri di Drepung e Sera e l’antica città di Lhasa. Il Dalai Lama ed il suo governo si spostarono a Potrang Karpo (‘Palazzo Bianco’) nel 1649. La costruzione proseguì fino al 1694, circa dodici anni dopo la sua morte. Il Potala venne poi usato come palazzo invernale dai Dalai Lama dell’epoca. Il Potrang Marpo (‘Palazzo Rosso’) venne aggiunto tra il 1690 ed il 1694. Il palazzo venne leggermente danneggiato durante la rivolta contro il governo cinese del 1959, nella quale i cinesi bombardarono le finestre del palazzo; si salvò anche durante la Grande rivoluzione culturale del 1966 grazie all’intervento in prima persona di Zhou Enlai, Primo ministro cinese di quel periodo che si oppose alla rivoluzione. Quasi tutti i 100.000 volumi di scritture, i documenti storici ed altre opere vennero rimossi, danneggiati o distrutti. Il Palazzo di Potala venne inserito dall’UNESCO tra i patrimoni dell’umanità nel 1994. Nel 2000 e nel 2001 vennero aggiunti al patrimonio il tempio di Jokhang e di Norbulingka. L’UNESCO evidenziò il problema dato dalla veloce urbanizzazione, che stava portando alla creazione di moderni edifici a ridosso del palazzo. Il governo cinese rispose emanando una legge che impediva la costruzione nei paraggi di edifici alti più di 21 metri. Dal 1º maggio 2003 il numero di turisti ammessi a palazzo è limitato a 1600 al giorno, con un orario ridotto a sei ore al giorno per evitare l’affollamento.
[19] In Tibet le cariche pubbliche erano generalmente abbinate: un monaco e un laico; persino il comandante in capo dell’esercito aveva come controparte un monaco, incontrato da Tucci alcuni anni prima a Gyantse come agente commerciale del Governo tibetano.
[20] Secondo la tradizione qui si combattè una grande battaglia tra Cinesi e Tibetani dove i Cinesi perdettero 100000 uomini.
[21] Questo termine significa che il tempio era dedicato alle divinità, nel loro aspetto placato o terrifico che compaiono davanti al principio cosciente del morto in uno stadio intermedio, come spiegato nel Bardö Thodol, il Libro Tibetano dei morti, che fu tra l’altro commentato da Tucci.
[22] In Tibet era consuetudine rivestire in questa maniera le immagini di maggior pregio e venerazione.
[23] Si trattava di un ciclo ben definito che si ritrovava in tutti i templi più antichi del Buddhismo tibetano coincidenti con l’epoca della seconda penetrazione della dottrina, coincidente con Atisa.
[24] Buddha anteriore a Sakyamuni.
[25] Tontè significa “pietra del fulmine”, ovvero oggetti di pietra o di bronzo che si trovavano scavando e lavorando nei campi: punte di freccia, statuette di divinità, fibbie, borchie e ornamenti di vestiti. Questi oggetti erano di difficile datazione poiché coprivano tutta la preistoria e la protostoria del Tibet. Alcuni di essi, ritrovati da Tucci, rappresentavano il Chiung, un uccello sacro della religione Bonpo; altri erano amuleti triangolari o circolari, prtati dagli abitanti del luogo come portafortuna.
[26] Veniva scavata nel tumulo una cella centrale, veniva calato il defunto in questa camera mortuaria, insieme con i servi e le armi, e veniva poi piantata una stele con iscrizioni. L’unica stele che rimaneva era quella di Tidesrongzen, della quale Tucci tenta con un lama di decifrarne l’iscrizione ormai pesantemente alterata dal tempo. Questa era in effetti un’enorme necropoli, e i pilastri che venivano piantati vicino alle tombe avevano un significato di axis mundi, tema ben presente nelle dottrine tradizionali orientali e non: il re tramite questi cippi piantati prendeva il possesso del suolo, traeva forza da esso e poneva sotto il suo comando le energie della terra e del sottosuolo, assicurando in questo modo anche la feritilità dei campi. Lo spirito degli antichi re defunti vigilava così sul paese.
[27] Tucci aveva il permesso di Lhasa per requisire i cavalli, dunque ogni prefetto aveva l’obbligo a fornirgli i trasporti dal suo territorio di competenza a quello vicio, secondo le tariffe stabilite dal governo; tuttavia i contadini cercavano di sottrarsi a quest’obbligo perché avevano da badare ai campi, e gran parte del denaro riscosso andava nelle mani degli ufficiali senza che loro potessero essere rimborsati adeguatamente. Chi trasgrediva agli ordini veniva giudicato davanti al tribunale e punito in genere a colpi di bastone.
[28] In effetti quest’analogia può essere considerata neppure troppo azzardata, dal momento che la scuola ellenistico-romana si era spinta fino nel cuore dell’Asia, arrivando ai confini della Cina. Affreschi come quelli di Dranang possono essere ritenuti un’eco indiretta di queste tradizioni artistiche e sincretismi culturali.
Andrea Morandi