Giorgio Colli e il misticismo secondo Ludovica Boi – Giovanni Sessa +
La giovane Ludovica Boi si sta affermando come esegeta di primo piano della filosofia di Giorgio Colli. Il nostro giudizio esce rafforzato dalle lettura del suo ultimo lavoro, L’aurora inapparente. Upanishad, Bruno e Böhme nella metafisica giovanile di Giorgio Colli, nelle librerie per Orthotes con prefazione di Francesco Cattaneo (pp. 225, euro 23,00). Si tratta di un testo non solo storico-filosofico, ma connotato da significative implicazioni teoretiche. L’autrice presenta e discute criticamente le fonti attraverso le quali il filosofo torinese, negli anni della formazione, sviluppò l’interpretazione mistica dei Presocratici. Più in particolare, dal volume si evince che Colli consolidò tale esegesi in uno sforzo di comparazione fenomenologica, nel senso in cui tale termine è stato esperito da studiosi quali van der Leeuw, Eliade, Kerény, W. F. Otto, oltre i riduzionismi di qualsivoglia approccio storicista. Inoltre, Boi sottolinea come tale lettura abbia giocato un ruolo centrale anche nelle opere mature del pensatore, financo in Filosofia dell’espressione. Ricorda come l’esergo di questo testo: «Questo è quello», sia tratto dalle Upanishad (p. 22).
Per Colli, scrive il prefatore, l’eccezionalità dei Presocratici: «sta nella fonte mistica della loro esperienza di pensiero, che li rende testimoni della vita nascente […] della physis» (p. 12). Tale esperienza era centrata sull’apertura della loro interiorità ai ritmi cosmico-naturali, palpitanti nella loro stessa corporeità, nel loro sentire. I Sapienti testimoniarono, con le loro vite e con il loro pensiero allusivo, l’abisso squarciato nella rappresentazione fenomenica, fondata sulla dicotomia soggetto-oggetto, dalla visione dionisiaca. Un’intuizione sintonica alla mistica del cristianesimo eterodosso del XIV secolo, all’identità Brahman-Âtman delle Upanishad, alla visione di Bruno, Böhme e Cusano. Tale concezione non è, al contrario, conciliabile con le mistiche della Grazia.
Il libro è diviso in due sezioni. Nella prima, Boi attraversa, con acume ermeneutico, l’esegesi colliana dell’esperienza presocratica: «imperniata sulla conoscenza ultrafenomenica in cui l’individuo giunge a identificarsi con il dio» (p. 20). Tale interpretazione è debitrice nei confronti delle teorie di Paul Deussen, Karl Joël e Erwin Rohde. Il primo fu traduttore e interprete delle Upanishad, il secondo pubblicò un’opera nella quale il vitalismo romantico e la Naturphilosophie sono letti in sequela alle intuizioni della Grecia originaria, di Bruno e Böhme. A Rodhe si deve una significativa lettura della psyché, integrata da Colli con gli assunti cui giunse, a proposito di Empedocle, Bignone, al quale va attribuito il merito di aver superato la contrapposizione di materia e spirito. Anche l’apporto di Macchioro, in tal senso, è stato, per il filosofo torinese, di grande rilievo.
Nella seconda sezione, l’autrice presenta la prossimità che lega la visione colliana alle Upanishad, alla filosofia del Nolano e a Böhme. La posizione di Colli si sviluppa nella distinzione tra interiorità ed espressione: «tra la dimensione inapparente al fondo di ogni vita e quanto di essa si traduce nel fenomeno» (p. 21). Una gnoseologia che fa aggio su sentimento e intuizione e che resterà tale anche dopo gli studi colliani dedicati a Kant e Aristotele. Tale gnosi gli ha consentito di portarsi oltre l’ottica parziale della “psicologia analitica”, per giungere a: «una descrizione organicistica e non meccanicista dell’anima» (p. 25). Nelle Upanishad, il pensatore torinese valorizza la cosmogonia: il mondo e il molteplice si sono sviluppati dal sacrificio dell’essere originario Prajâpati. Il suo sacrificio è suscitato dal desiderio della moltiplicazione, di infrangere l’unità, a cui gli enti, superando l’errore gnoseologico della rappresentazione modernamente intesa, tendono a tornare soteriologicamente. La filosofia, chiosa Colli, è qui pratica terapeutica, esattamente come in Grecia. Il politeismo induista interpreta le divinità quali: «modi in cui l’Uno-Brahman si dà nelle forme» (p. 87) e: «Al di fuori dell’Âtman, identificato con il Brahman, non vi è alcun soggetto né oggetto» (p. 89). Si tratta di una visione monista conseguibile in un attimo di vissutezza, cui la parola può solo cennare. Al realizzato vedantino manca il tratto “filologico”, la volontà di esprimere tale vissutezza, che al contrario fu proprio degli Elleni, in cui convissero il momento mistico e quello politico.
Per quanto attiene a Bruno, Colli si pone oltre l’interpretazione intellettualistica, propria di Gentile, del misticismo del Nolano, sostenendo che il filosofo degli Eroici furori non distinse spirito e materia, propugnando un’evidente continuità tra anima, mondo e dio, esperita nella: «identificazione del proprio fondamento vitale con il principio animante il mondo nella sua totalità», in un istante unificante (p. 121). A ciò Bruno giunse negli Eroici furori. Al contrario, nel De umbris idearum, si era arenato in una contemplazione priva di tensione. Fu l’idea di Vita-Materia, di materia animata, cui pervenne in De la causa, a liberarlo dalla stasi contemplativa, facendogli intuire la vicissitudine: «la stessa fonte e causa propulsiva degli eventi», la physis (p.126). L’Eros diviene per il Nolano forza unificante, vincolo che, simpateticamente, tiene assieme il cosmo, potenza gnosica. Atteone è simbolo di tale conoscenza: «si rende conto di essere lui stesso l’originario oggetto dei propri pensieri, la preda cui dava la caccia» (p.152). Per Colli, Bruno sarebbe venuto meno all’intento politico-civile dei pensatori aurorali, in quanto non si sarebbe servito efficacemente della dimensione del simbolo.
Aurora di Böhme, a dire di Colli, fu la trascrizione di esperienze vissute dal teosofo che, come scroscio di pioggia, lo costrinsero all’espressione. La scrittura dell’opera denota la tensione interna che pervase il tedesco, convinto che mai la parola può essere trascrizione fedele del vissuto. Per questo, la filosofia di Böhme si configura quale pensiero simbolico-immaginale: «L’immagine serve come strumento […] che tenta di suscitare nel lettore l’immaginazione di un’esperienza simile a quella cui si vuole alludere» (p. 164). Una prosa dionisiaca, simile a quella eraclitea, che conduce a intuire ciò che precede ogni separazione rappresentativa. Colli mostra particolare interesse per metafisica e cosmologia in Böhme. La realtà, per il tedesco, è risultato del processo di autorivelazione dell’Ungrund, principio infondato che trascende il piano stesso dell’essere come ciò che, nella sua più propria essenza, non è alcuna essenza. L’Ungrund non è quiete e trascendenza, ma brama. L’autorivelazione consta di sette determinazioni, che nella maggior parte dei casi sono corrispondenti a un elemento alchemico. Il cosmo è costituito da questo settenario e dall’inesausta azione ritmica di Amore-Odio. Tale ritmica fa capo all’unità divina, dal tratto corporale. Proprio come per i Sapienti, il Geist si dà nel Leib.
La filosofia di Colli, per queste ragioni, può aprire scenari inusitati nel panorama contemporaneo.
Giovanni Sessa
NdR: il volume ivi recensito sarà presentato dall’autrice nell’ambito del festival di cultura classica MythosLogos, diretto da Angelo Tonelli, Martedì 9 Luglio 2024, ore 21, presso l’Atelier Nuova Eleusis di Sarzana (Sp): l’evento sarà registrato e reso fruibile sul canale Youtube di Pagine Filosofali.