Giordano Bruno, un eretico alla corte di Rodolfo II – Mauro Ruggiero
Il 17 febbraio dell’Anno Santo 1600, una piccola corte di persone partì dalle carceri di Tor di Nona, sul Lungotevere, in direzione di Campo dei Fiori, scortando un uomo condannato dalla Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione, a morire sul rogo a causa delle sue idee giudicate avverse alla vera dottrina della santa fede cattolica. Quest’uomo era Giordano Bruno, al secolo Filippo, nato a Nola nel 1548; libero pensatore ed eretico errante: scrittore, filosofo e mago la cui mente è stata tra le più brillanti e illuminate dell’Europa del XVI secolo. Con in bocca una mordacchia per impedirgli di parlare, fu spogliato e legato ad un palo e successivamente venne bruciato vivo con la speranza che, insieme alla sua carne, bruciasse anche il suo pensiero che nei secoli successivi avrebbe invece valicato frontiere geografiche e temporali e avrebbe fatto di Bruno il simbolo eterno di tutti gli uomini liberi oppressi dal potere. Quando l’8 febbraio dello stesso anno, nella casa del Cardinale Madruzzo, Bruno fu costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte; egli non abiurò né si sottomise all’autorità religiosa “preferendo morte coraggiosa a vita pusillanime”. Secondo alcuni testimoni, il filosofo si alzò in piedi e indirizzò ai suoi carnefici la storica frase: «Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla».
Personaggio brillante e controverso, di Bruno si è scritto molto. Preso dapprima l’abito domenicano, lasciò in seguito l’ordine con l’accusa di eresia a causa dei suoi studi e delle sue idee poco ortodosse, e ripreso il suo nome di battesimo, Filippo, intorno all’anno 1576 inizia le sue peregrinazioni in Europa; un viaggio che durerà 14 anni il cui viatico e salvacondotto saranno l’esoterismo e la magia. Guadagnandosi da vivere insegnando e cercando la protezione di sovrani e mecenati, Bruno portò ovunque con sé il seme della tolleranza e della libertà di pensiero e, pur di difendere questi valori, non si sottrasse al sacrificio estremo. Per anni non fece altro che spostarsi di città in città senza tener conto delle barriere ideologiche, passando dall’Inghilterra protestante a Parigi e dalla Francia alla Wittemberg luterana, sempre intento a diffondere le proprie idee. Insegna a Parigi per cinque anni e frequenta gli ambienti esoterici di Ginevra, Lione e Tolosa. A Londra si ferma invece per due anni e lì incontra il grande bardo Shakespeare, il quale si ispirerà al mago italiano per la figura di Prospero, il personaggio protagonista della sua commedia La tempesta.
Tra le sue peregrinazioni, Bruno visita anche Praga attirato probabilmente dalla figura di Rodolfo II, alla cui corte si ritrovavano alchimisti, filosofi e maghi provenienti da tutta Europa, ai quali l’Imperatore dava protezione perché lo assistessero nella sua ricerca della pietra filosofale.
A Praga, Bruno giunse nella primavera dell’anno 1588 e vi si trattenne per sei mesi. Non si sa se il Nolano scelse la capitale boema per via della sua famosa università, o piuttosto perché nutriva la speranza di trovare protezione alla corte di Rodolfo, il cui cattolicesimo ambiguo era concentrato più sulla forma che non sulla sostanza; condizione questa, che lasciava sperare al Nolano di riuscire a ritagliarsi spazi d’azione simili a quelli che in passato si era ritagliato presso la corte di Enrico III in Francia Fatto sta che Bruno era a conoscenza degli interessi nel campo dell’occulto di Rodolfo e probabilmente voleva far leva sulle sue conoscenze magiche per riuscire a penetrare a corte. Praga, inoltre, era già nel Cinquecento la centrale segreta dell’esoterismo e della magia in Europa; una vera e propria capitale dell’occulto dove i fermenti culturali e religiosi erano particolarmente intensi. Ciò costituiva un importante richiamo per il filosofo italiano studioso di magia, cabala ed ermetismo, così come per i molti maghi, alchimisti e astronomi che popolavano la capitale rudolfina.
Una volta in città, il mago cercò di interessare l’Imperatore alle sue idee dedicandogli anche un libro che fece stampare nella capitale e che recava il titolo polemico di Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos; un opuscolo nel quale Bruno sviluppa la polemica contro l’interpretazione meccanicistica della natura e attacca filosofi e matematici del tempo ai quali contrappone la sua matematica e la sua geometria qualitativa, basate sul concetto di sfera e di minimo. Nella prefazione di quest’opera si possono trovare gli elementi chiave che illustrano il pensiero bruniano nelle sue linee fondamentali: l’alternanza di luce e tenebre, la decadenza della società del tempo e l’aspetto della vera religione naturale, molto vicina a quella egizia, immune da controversie e dispute, dove nessuno ha il diritto di criticare le opinioni altrui. È infatti la tolleranza, la chiave di volta dell’opera bruniana; una tolleranza che invita sempre a rispettare la ragione e l’amore per la conoscenza e per il vero, senza curarsi della dimensione religiosa, portatrice di violenza e oscurantismo. Sempre in questo breve periodo di tempo, Bruno fa stampare anche un’altra opera: il De lampade combinatoria Raymundi Lullii nella quale il filosofo commenta L’Ars Magna del pensatore Raimondo Lullo, dal quale egli apprese le sue famose mnemotecniche. Bruno dedica quest’opera all’ambasciatore spagnolo presso la corte imperiale, don Guglielmo de Haro, marchese di San Clemente. Ma non trovò a Praga la protezione che si aspettava né da Guglielmo de Haro né da Rodolfo II che non gli offrì una cattedra e neanche una sistemazione stabile presso la sua corte, ma che si limitò a ricompensarlo con il dono di trecento talari. Così si chiuse il breve soggiorno del filosofo e mago italiano in Boemia. Una volta incassato il denaro ricevuto dall’Imperatore, Bruno lascia la città al pricipio dell’autunno del 1588 per recarsi a Helmstedt, attratto dalla fama della sua università. Negli anni immediatamente successivi vaga ancora per l’Europa toccando varie città tra cui Francoforte, Zurigo e Marburgo, prima di far ritorno in Italia, a Venezia, intorno al 1592 sotto invito del patrizio Giovanni Mocenigo che voleva apprendere dal nolano i segreti della memoria e della magia. Ma quando Bruno manifestò la sua intenzione di ripartire per la Germania, il Mocenigo lo fece arrestare dall’Inquisizione con l’accusa di blasfemia e pratica di arti magiche. Da quel momento iniziarono per Giordano Bruno sette lunghi anni di prigionia e torture, nelle carceri veneziane e romane durante i quali il filosofo non rinnegò mai le sue idee che predicavano la tolleranza, l’anima del mondo, la natura angelica delle stelle e l’infinità dei mondi.
Verso la fine del XIX sec., un comitato internazionale al quale aderirono anche Victor Hugo, Herbert Spencer e Silvio Spaventa, si fece promotore dell’iniziativa di erigere un monumento in memoria del filosofo. Il 9 giugno del 1889, tra molte polemiche provenienti dagli ambienti cattolici, fu eretto in Campo dei Fiori, a Roma, un monumento in onore del filofoso, opera dello scultore massone Ettore Ferrari. Si dice che quel giorno, Papa Leone XIII, rimase inginocchiato davanti alla statua di San Pietro pregando contro «la lotta ad oltranza contro la religione cattolica». Sul basamento in granito del monumento dedicato al filosofo nolano, vi sono dei medaglioni recanti le effigi di uomini illustri vittime della repressione contro il libero pensiero: John Wycliff, Aonio Paleario, Michele Serveto, Erasmo da Rotterdam, Giulio Cesare Vanini, Tommaso Campanella, Paolo Sarpi e il teologo e riformatore religioso boemo, Jan Hus.
Mauro Ruggiero
(con la collaborazione della rivista praghese Cafè Boheme)