Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Filosofia della carta: Natura, metamorfosi e ibridazioni secondo Massimo Donà – Giovanni Sessa
La filosofia in ogni epoca ha rappresentato il contraltare del senso comune. Un sapere, quello filosofico, quando è effettivamente tale, che contrasta ciò che del reale appare nella sua immediatezza empirica, la “positività” delle cose. Tale aspetto connota di sé il pensiero di uno dei più “originali”, nel senso che il suo pensare è rivolto all’ “origine”, filosofi contemporanei, Massimo Donà. Tale asserto è esemplarmente testimoniato dall’ultima fatica del pensatore veneziano, Filosofia della carta. Natura, metamorfosi e ibridazioni, comparso nel catalogo di Baldini+Castoldi, con prefazione di Carlo Petrini (per ordini: info@baldinicastoldi.it, pp. 232, euro 18,00). Con questo nuovo studio, Donà dà tratto materico, elementale alla sua ricerca, in sequela con altri suoi testi dedicati all’acqua e alla natura. L’incipit del volume presenta una breve storia della carta, che muove dalla “leggenda” di Ts’ai Lun, un notabile cinese che notò come, sulla superficie d’acqua di un lavatoio, le fibrille liberate dai panni in forza dell’azione delle lavandaie: «andavano a formare un vero e proprio tessuto» (p. 20), che essiccato sarebbe diventato il primo foglio di carta.
La varie tecniche produttive messe in atto nel corso delle tempo alle più diverse latitudini, non modificarono, se non marginalmente, l’iniziale metodo di produzione di questo materiale, fondamentalmente centrato sulla divisione, distinzione di parti di materia e la loro successiva unificazione nel foglio. Attualmente, l’attenzione posta sulle procedure di riciclo della carta ha evidenziato che, attraverso complicate tecniche di lavatura e nuova divisione, si possono avere a disposizione nuovi fogli bianchi. Ciò significa che: «con il riciclo, la produzione della carta avrebbe ritrovato in qualche modo le proprie origini» (p. 24), in quanto nata essa stessa da riciclo di parte di stracci. Quest’osservazione, chiosa Donà, pare confermare l’intuizione hegeliana, secondo la quale: «l’andare avanti è un tornare indietro» (p. 26). Solo tornando all’origine, come avviene alla carta, ci si fa latori, nell’ambito temporale, di autentica novità, rendendosi: «liberi da qualsivoglia “soffocante” legame con il passato» (p. 27). Se l’inizio è veramente tale, nessun passato può rintracciarsi prima di esso o in esso. Si tenga presente che: «ogni inizio è prodotto dal raggiungimento della fine» (p. 27), come nel caso della carta riciclata. Ogni volta, come aveva ben inteso Deleuze, si ricomincia: «sempre a partire dal nulla» (p. 29). Non v’è né in natura, lo aveva ben compreso Klages, né nella storia, alcun ritorno dell’identico, ma del simile, del sempre nuovo.
Donà ci invita a meditare sulla dinamicità ciclica della natura. Di fronte al ritorno annuale della primavera, non proviamo forse, ogni volta, stupore ed entusiasmo? Tale spettacolo: «ci si profila davanti agli occhi come se lo incontrassimo per la prima volta» (p. 30). La natura è continua metamorfosi, riciclo perpetuo, in essa nulla è superfluo. Con la rivoluzione industriale: «Siamo noi che ci siamo presuntuosamente […] arrogati il diritto di ferire la fin troppo “saggia” circolarità della natura» (p. 32). Da allora abbiamo letto il “nuovo” come destinato a eliminare il “vecchio”. Siamo andati contronatura. Situazione grave, perché: «in verità tutto è natura» (p. 37). La physis deve essere intesa grecamente, quale: «orizzonte entro cui tutto vive e perciò stesso si muove […] nulla muove la natura dall’esterno; anzitutto perché nulla può dirsi esterno alla natura» (p. 38). In ogni ente, in ogni cosa è: «la natura a muoversi verso se medesima» (p. 39). In tale concezione, ben lo sapeva Goethe, la natura è espressione di un principio infondato, la libertà che può dar ragione non solo della “regola”, dell’ordine formale della natura, ma altresì delle sue non normabili eccezioni: «Il principio di tutto[…] è necessariamente incondizionato […] nessun fatto può dunque contraddire il suo nomos» (p. 41). Dovrebbe, pertanto, essere istituita una modalità di rapporto con il mondo atta a imitare il movimento della natura: «in cui, solamente, si manifesta la vita delle sue espressioni determinate» (p. 47). Questo è il tentativo messo in atto dall’arte moderna, si pensi, rileva Donà, a Kandinsky, che nelle sue creazioni tentò di dar volto al movimento puro.
Una visione della natura presente in Bruno, Goethe, Nietzsche, Bergson e, per certi tratti, propria di Gentile e Deleuze. Una concezione in cui l’unità non indica qualcosa come un presupposto, non rinvia a un altrove, ma ai molti, al: «differire con il quale finisce di fatto per coincidere» (p. 50). L’immutabile sta nell’incessante metamorfosi, nel continuo ritorno all’origine, nel “medesimo” che si dà come sempre diverso, come avviene nel ciclo della carta. Ogni esistenza testimonia una polarità: «che la medesima cerca sempre di sciogliere…distinguendo-e-separando i suoi estremi» (p. 52), l’essere e il nulla. Nessun ente è ciò che dice di essere: «Tutto si trasforma prende strade spesso imprevedibili, magari in virtù di eventi […] forse le cose sarebbero potute andare diversamente» (p. 57). Tutto si trasforma per poter rimanere quel che era già in origine. In ciò, la storia della carta ha valore esemplare. Il bianco, colore di tale materiale, fa si che la molteplicità che su di essa si iscrive, non possa ferire la sua unità, in quanto le due dimensioni si danno in unità.
La filosofia di Donà ci invita, con Empedocle, a pensare in uno essere e divenire. Il filosofo greco, alla luce dei due principi cosmici, Amore e Odio, colse l’inquieto essere degli enti: «ché tutto […] tende allo stesso tempo a unirsi al proprio altro e a separarsi dal medesimo» (p. 87). La contesa dei due principi è l’origine della vita, e giustifica gesti caritatevoli come azioni bestiali. Leggendo in “amicizia” Parmenide e Eraclito, Empedocle recuperò il sapere pitagorico, la Sapienza delle origini. Il bianco della carta, quindi, custodisce il possibile, mentre il nero è: «un nulla senza possibilità» (p. 99). Il fondamento: «è infondato proprio in quanto fondamento di tutto; e da nulla, dunque, fondato» (p. 113). Per questo, nulla può opporsi alla fantastica capacità narrativa della natura che tutto ricicla, che tutto torna a raccontare: «in modo sempre identico proprio in quanto sempre differenziantesi» (p. 131). E’ alla “fantasia” che bisogna guardare, per cogliere i limiti delle logiche concettuali, distinguenti, in quanto: «solo la fantasia ci consente di fare del consueto una perfetta metafora dell’inconsueto» (p. 135), solo essa coglie ciò che anima l’irripetibile singolarità delle cose.
L’origine della carta, in cui distinzione e unità si davano in uno e il suo riciclo che, a quell’inizio riconduce, mostrano che tutto in natura è ibrido e, come sapeva Anassagora, che “tutto è in tutto”.
Giovanni Sessa