Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Fata ac remedia Romana: libri Sibyllini nella tarda Antichità – Claudia Santi
In epoca repubblicana, ogni prodigium1 era interpretato come un segnale di crisi, come il segnale che la pax deorum, l’alleanza che legava gli uomini e gli dei, era compromessa. Il senato ordinava ad un apposito collegio sacerdotale, i viri sacris faciundis2, la consultazione dei cd. libri (Sibyllini), un repertorio oracolare dal quale i sacerdoti derivavano i piacula, i riti espiatori con cui ripristinare la pax deorum3. Fata ac remedia Romana: questo il contenuto del libri, secondo l’efficace definizione di Servio4, ossia i rimedi rituali per far sì che si potessero compiere i fata di Roma. Il sistema prodigium–piaculum, come pratica espiatoria, è testimoniato con certezza in Roma a partire dal V secolo a.C.5, e, al contrario di quanto avviene per altri istituti sacerdotali di Roma antica, nel caso dei viri sacris faciundis non sono attestate proiezioni fondanti e convalidanti in età monarchica6; al posto di un racconto che riguardi le origini del sacerdozio, troviamo il “mito” di acquisizione in Roma dei libri Sibyllini, venduti secondo la tradizione da una anziana donna al re Tarquinius, al termine di una movimentata contrattazione durante la quale la donna, ad ogni rifiuto del re di acquistare la raccolta di nove libri al prezzo richiesto, ne aveva distrutto un terzo, finché Tarquinius non si era deciso ad acquistare i tre libri superstiti al pieno prezzo iniziale7. I libri Sibyllini furono custoditi nelle fondamenta del tempio di Iuppiter Optimus Maximus8, finché Augusto non ne ordinò il trasferimento nel tempio di Apollo sul Palatino9. Il trasferimento dei libri Sibyllini, operato per volere di Augusto, segnò, a livello religioso, un autentico punto di svolta. Sottratti al patrocinio giovio e confluiti nella tutela apollinea, i libri tendevano ad omologarsi, divenendo uno degli strumenti attraverso cui si esplicavano le capacità salvifiche del dio. Di fatto, la pax deorum poteva essere garantita da riti celebrati a cadenza fissa, primi tra tutti i ludi Saeculares, che potevano configurarsi come una cerimonia espiatoria generale10, o la pronuncia annuale di vota per la salus del princeps11. Parallelamente, le notazioni di prodigia publica diventano, nelle nostre fonti, piuttosto rare, anche in conseguenza del fatto che venne meno l’uso di annotare gli eventi principali dell’anno sulla tabula pontificis12. Ancora più raro è il ricordo delle cerimonie espiatorie, in occasione di prodigi; quando sono registrate, si riducono a cerimonie di routine13, senza apportare alcun elemento di innovazione nel sistema teologico e cultuale.
A ridurre le occasioni di ricorso ai libri Sibyllini in epoca imperiale contribuirono, tuttavia, anche altri fattori. Innanzi tutto, il superamento della dimensione demitizzata, che aveva caratterizzato la religione di Roma nell’età repubblicana14, e la conseguente riproposizione di una prospettiva mitico-metastorica aprirono la strada al recupero della nozione di prodigium come di un signum inviato dagli dei, fornito talvolta anche di quel carattere predittivo che l’introduzione della pratica della consultazione dei libri aveva rimosso, attribuendo a priori ad ogni prodigium un’interpretazione negativa15. La nozione di prodigium andò quindi progressivamente avvicinandosi alla sfera semantica di praesagium–portentum, ossia di segnale che contiene un messaggio: gradatamente finì per azzerarsi la distanza tra praesagium e prodigium, distinguibili ormai solo per il grado di intensità del significante16. Esauritasi la fase demitizzata della religione romana, i signa in grado di anticipare il futuro apparirono più validi a livello ideologico e più utili a livello sociale. In relazione a questo slittamento semantico e ideologico della nozione di prodigium, si assistette anche alla riabilitazione della figura del vates17 e all’incremento del prestigio degli haruspices. I loro interventi furono sempre più richiesti e, a partire dal 47, essi furono organizzati in uno dei quattro amplissima collegia18. Scorrendo le narrazioni relative all’età imperiale, si ha l’impressione che l’interesse nei confronti degli eventi prodigiosi, se non riferiti alla persona del princeps, si avvii a decadere nel corso dei primi due secoli dopo Cristo, anche in considerazione del fatto che la salus impetrata dagli dei tendeva a spostarsi dalla dimensione collettivo-comunitaria (salus rei publicae) a quella personale, coincidendo con la salus del princeps, o tutt’al più assumendo una dimensione dinastica, la salus Augusta (cfr. le celebrazioni per la guarigione di Livia, terza moglie di Augusto).
Allo stesso modo, il concetto di pax deorum quasi scompare negli autori di età imperiale, soppiantato dalla pax Augusta, ossia della pax elargita e assicurata dal princeps. In tale contesto, le fonti hanno maggior cura di registrare i prodigia che alla nascita del princeps indicano il destino glorioso che lo attende o che fanno presagire la sua imminente scomparsa. L’opera di Suetonio offre diversi esempi di questo nuovo orientamento. Ogni Cesare ha la propria esistenza segnata da una o più predizioni di imperium; ogni passaggio di potere appare preannunciato da una serie di presagi di significato inequivocabile19. Il prodigium viene quindi utilizzato per offrire una giustificazione alla posizione sovraordinata di un civis e per legittimarne a livello religioso il potere. Questo tipo di signa allusivi dell’imperium vengono diligentemente annotati e riferiti dalle fonti, in ragione proprio del loro carattere fatale. Si tratta di un processo fortemente influenzato da modelli greci dove, a partire da Alessandro, il prodigio cd. carismatico conobbe una larga diffusione, applicandosi a molte figure di sovrani ellenistici. In ambito romano, se si esclude il caso di Servius Tullius, l’unico proiettato in età monarchica, l’archetipo, più che in Augusto, sembra rinvenibile in L. Cornelius Sulla: secondo Plutarco, mentre Sulla si trovava a Laverna, durante la guerra sociale, si aprì nel suolo una profonda fenditura da cui scaturì una fiamma altissima e brillantissima che si alzò fino al cielo; gli indovini predissero che un uomo biondo di bellissimo aspetto avrebbe assunto la guida della città e l’avrebbe liberata dai mali che la affliggevano20. Quell’uomo non poteva essere che Sulla, cui la foltissima capigliatura bionda conferiva una bellezza davvero singolare. Se nei primi secoli dell’Impero il sistema prodigium-piaculum ha, nel complesso, una presenza marginale, e sembra rinviare ad un sistema di divinazione in fase di declino, nella storiografia dell’età successiva, e in particolare nell’Historia Augusta, si assiste ad una ripresa di interesse nei confronti dei libri Sibyllini. È probabile che Adriano ne abbia disposto la lettura in occasione delle diverse calamità verificatesi durante il suo impero21; quasi sicuramente, anche il lectisternium piacolare22 celebrato da Marco Aurelio per fermare la pestilenza fu eseguito per ordine dei libri23. Le indicazioni nelle nostre fonti si fanno più circostanziate in coincidenza con quella che è stata definita la “febbre divinatoria del III secolo”24. Durante l’impero di Gordiano III, la celebrazione delle prescrizioni rituali rinvenute nei libri Sibyllini sembrò porre fine alla devastazione provocata dal violento terremoto che si registrò nel 24125. Nel 247, Filippo l’Arabo, un imperatore con marcate inclinazioni verso il Cristianesimo, organizzò le celebrazioni dei ludi Saeculares per i mille anni dalla fondazione della Città secondo le modalità prescritte dai libri Sibyllini26, anche se quasi sicuramente non si ritenne necessario ricorrere ad una nuova consultazione. Sotto Gallieno, nel 262, si verificò un tremendo terremoto, accompagnato da diversi giorni di tenebre; si udirono orribili fragori provenire dalle profondità della terra, e molte abitazioni furono inghiottite con i loro abitanti; altre persone morirono a causa dello spavento27. Gli effetti più devastanti si registrarono in Asia Minore e in Libia, ma anche la città di Roma venne interessata dal sisma28. I libri Sibyllini, consultati in quella occasione, ordinarono di celebrare un sacrificio in onore di Iuppiter Salutaris29; evidentemente l’intervento si rivelò efficace ed il dio, coerentemente con la sua epiclesi, concesse la salvezza-preservazione (salus), facendo cessare anche una violenta pestilenza che aveva colpito l’Italia e la Grecia e che aveva provocato in un solo giorno cinquemila vittime30. L’episodio in questione è di particolare rilievo, perché testimonia il ricorso ai libri da parte dello stesso imperatore che, nel 260, aveva ordinato la fine della persecuzione nei confronti dei Cristiani, ordinata dal suo predecessore Valeriano31. L’ultima consultazione del III secolo, disposta da Aureliano nel gennaio del 271, fu motivata dalle devastazioni compiute dai Marcomanni nel territorio dell’Impero e dallo scoppio simultaneo di diverse sedizioni a Roma; i libri Sibyllini indicarono le località in cui celebrare sacrifici, in modo da arrestare l’avanzata dei barbari32. Sembra che in questo caso il ricorso al repertorio della Sibylla non sia stato motivato dall’annuncio di prodigi, ma da una situazione di profonda crisi politica. La prassi non sembra anomala, perché non mancano antecedenti in tal senso: la prima consultazione dei libri, che secondo Livio si daterebbe al 461 a.C., sarebbe stata causata dalla situazione politica interna di tensione tra patrizi e plebei33; la consultazione del 217 a.C., sollecitata dal dictator Q. Fabius Maximus, sarebbe stata determinata dalle tre gravissime sconfitte militari subite dalle legioni romane ad opera di Annibale e non dal verificarsi di prodigia34. È interessante notare come, nonostante la crescente diffusione del Cristianesimo e la configurazione fortemente sincretica della religione romana di quell’epoca35, le consultazioni di questo periodo riferite dalle fonti mantengano i caratteri tradizionali del sistema divinatorio sibillino, così come si era andato fissando in epoca repubblicana. Non è un caso che, attraverso la testimonianza riferita all’epoca di Aureliano, ci siano pervenute le uniche notizie di cui disponiamo circa la procedura seguita durante la consultazione36 (procedura che era rimasta segreta per oltre sette secoli).
Dopo la lettura ordinata da Aureliano, bisogna attendere l’inizio del IV sec. per trovare nelle fonti nuovamente il ricordo dei libri Sibyllini. Alla vigilia della battaglia del Ponte Milvio, combattuta a Roma il 28 ottobre 312, mentre Massenzio celebrava dei ludi, scoppiò una sedizione: il popolo accusava il generale di trascurare la salus publica e dubitava della vittoria su Costantino37. Massenzio, incerto circa il da farsi, dal momento che una predizione gli aveva annunciato che sarebbe morto se avesse lasciato Roma38, ordinò la consultazione dei libri Sibyllini: repertum est illo die hostem Romanorum esse periturum39. Incoraggiato da queste parole, Massenzio uscì dalla città e mosse contro Costantino40; come è noto, la superficialità con cui fu interpretato il responso dei libri gli fu fatale. In questo caso, le fonti accreditano un uso predittivo dei libri Sibyllini; il generale, stando a quanto ci riferisce Lattanzio, confermato in questo particolare da Zosimo41, avrebbe ricevuto dalla lettura dei libri un’autentica previsione del futuro, espressa, come era d’uso, in un linguaggio simbolico, ambiguo e polisemico42. Questo tipo di risposta sembra riprodurre il clima tardo repubblicano quando emerse a tratti un uso predittivo e carismatico dei libri Sibyllini. Nel corso dei secoli, come abbiamo visto, il sistema divinatorio fondato sul prodigium–piaculum mediato dalla lettura dei libri sembra, comunque, aver mantenuto le sue caratteristiche originarie, anche in considerazione del fatto che l’istituzione del collegium degli haruspices aveva, per così dire, ripartito le competenze tra i sacerdozi, integrando, a livello ufficiale, l’esegesi dei signa volta a indagare il futuro. Per queste ragioni, il racconto di Lattanzio e di Zosimo ci appare poco persuasivo: per quale motivo Massenzio si sarebbe dovuto rivolgere ai libri Sibyllini e non piuttosto agli haruspices per ottenere previsioni circa l’esito della battaglia? Vi è da aggiungere che, come è noto, anche Costantino prima della battaglia ricevette una predizione espressa, al contrario di quella del suo rivale, in termini inequivocabili. L’apparizione del monogramma e la predizione- prescrizione “hoc signo victor eris”43 gli annunciarono il successo che avrebbe riportato nella battaglia decisiva, purché avesse adottato il simbolo cristiano. Si può affermare che, in un certo senso, la vittoria di Costantino su Massenzio sancì anche la verità del signum inviato da Dio, rispetto all’opacità semantica dei signa della divinazione di ambito politeista.
E di fatto, dopo questa data, l’unica consultazione dei libri Sibyllini riportata dalle fonti, che può ritenersi senz’altro storica, si colloca sotto Giuliano: l’occasione sembra fornita da un terremoto verificatosi a Costantinopoli, quando l’esercito era in procinto di partire per l’impresa partica nel marzo del 363; il responso avrebbe tra l’altro sconsigliato all’imperatore per quell’anno di uscire dai confini44. Questa testimonianza, benché isolata, è tuttavia di estremo valore, in quanto fornisce la prova che a quella data la lettura dei libri veniva ancora effettuata secondo i canoni tradizionali, pur assolvendo, in parte, ad una funzione predittiva. Dunque la consultazione ordinata da Giuliano non differisce, a livello morfologico, dal modello tradizionale, che si era andato fissando nel corso del V secolo a.C.; né si può pensare, in questo caso, ad un revival, dal momento che le testimonianze relative all’epoca precedente da noi esaminate (salvo che nel caso dubbio della consultazione voluta da Massenzio) hanno confermato che l’istituto religioso della lettura dei libri si era mantenuto inalterato nel tempo. Inoltre, l’incendio divampato sul Palatino, durante l’impero di Giuliano, offre modo alle fonti di annotare che i libri si salvarono a stento, grazie all’intervento di molti cittadini che accorsero a prestare aiuto per domare il fuoco45, indicando così che il repertorio oracolare era all’epoca ancora integro e continuava ad essere custodito nel tempio di Apollo, dove era stato trasferito da Augusto. Il fatto poi che ancora sotto Giuliano molti cittadini fossero disposti a sacrificare la loro vita pur di salvare i libri dal rogo del tempio, sta a dimostrare quanto radicato e diffuso fosse, nella popolazione pagana di Roma, il sentimento religioso di devozione nei confronti della raccolta di oracoli attribuiti alla Sibylla.Si può dire che ancora in pieno IV secolo fossero valide le parole di Dionisio di Alicarnasso, quando, a proposito dei libri, ricordava che non vi era niente che i Romani ritenessero più venerabile e sacro dei libri Sibyllini46.
Dopo la data del 363, si incontrano solo due riferimenti ai libri, entrambi nell’opera del poeta epico Claudio Claudiano, riferimenti troppo generici perché si possa pensare ad effettive consultazioni. Il primo “pandite pontifices Cumanae carmina vatis”47, compare nel proemio del poemetto polemico in Eutropium, composto nel 39948, ed ha, a nostro parere, inequivocabilmente il sapore di un topos: secondo l’autore, il console Eutropius avrebbe avuto tutti i caratteri di un monstrum, ossia di un essere deforme apportatore di sciagure, e perciò con ogni mezzo si doveva cercare di intendere che cosa gli dei volessero annunciare agli uomini attraverso quel segno mostruoso. Il secondo accenno è contenuto nel Bellum Gothicum, poema composto nel 40249. L’autore riferisce una serie di presagi infausti, che avrebbero provocato il panico tra la popolazione; aggiunge, inoltre, che la gente, divenuta molto loquace, come sempre accade in queste circostanze, avrebbe moltiplicato i racconti relativi a sogni, a prodigi, a segnali divini50. Tutti si chiedevano che cosa indicasse il volo degli uccelli, che cosa presagisse il fulmine caduto dal cielo, “quid carmine poscat / fatidico custos Romani carbasus aevi”51. Come si può osservare, da questi versi possiamo, tutt’al più, ricavare la notizia che, in quel frangente, i cittadini di Roma avrebbero sollecitato una lettura dei libri, per sapere che cosa gli dei richiedessero per placare la loro ira. Ma niente altro. Non solo; qualche verso più avanti, Claudiano per enfatizzare il ruolo avuto da Stilicone, afferma che dubiae salutis dux idem vatesque fuit52. Dunque, secondo il poeta, non vi sarebbe stato altro intervento, se non quello del generale, al quale, tra l’altro, l’autore fa pronunciare una breve orazione in cui esorta tutti a farsi coraggio e a non illudersi nell’aiuto che può provenire da quelli che egli definisce vana vota53. Nessun elemento, nei versi di Claudiano, sembra avvalorare l’ipotesi di un’effettiva consultazione; anzi. Essi, tuttavia, testimoniano che, nei primissimi anni del V secolo, il repertorio oracolare era ancora intatto e conservato a Roma. Di fatto, fino all’inizio del V secolo, i libri Sibyllini, pur non più consultati, sopravvissero in un clima di relativa indifferenza. Gli editti emanati da Costantino in materia di divinazione lasciano in questo caso trasparire un orientamento non univoco54: da una parte, egli nel 321 raccomandava il ricorso agli aruspici, nel caso che un fulmine avesse colpito il suo palazzo o qualche altro edificio pubblico, e consentiva che i privati cittadini, secondo la consuetudine, si servissero degli aruspici, purché non celebrassero sacrifici domestici espressamente vietati dalla legge55, dall’altra, già in precedenza aveva proibito (ma forse sarebbe più appropriato dire, sconsigliato)56 i sacrifici cruenti,57 rendendo, tra l’altro, di fatto impraticabile il rito dell’extispicium, che traeva i suoi responsi dall’esame delle viscere della vittima sacrificale. Esaminando i suoi rescritti, sembra che Costantino ritenesse la riconosciuta autorità degli aruspici in materia fulgurale in qualche modo compatibile con l’orizzonte ideologico cristiano che si stava delineando, o per lo meno non apertamente in conflitto con esso (al contrario di quanto affermato per i sacrifici cruenti). Anzi, l’imperatore stesso si mostrava non immune da una certa superstitio, dal momento che non solo tollerava, ma addirittura sollecitava l’intervento degli aruspici58. Nonostante i vari tentativi di sanare l’evidente contraddizione della legislazione di Costantino in materia di divinazione59, la contraddizione resta60. Le fonti pagane, in particolare, insistono nel sottolineare tanto l’ambiguità di Costantino in materia di divinazione quanto l’uso strumentale che ne faceva: secondo Zosimo, l’imperatore, dapprima si sarebbe mostrato molto ossequioso nei confronti degli indovini, in quanto ne avrebbe derivato diversi benefici; in seguito però, dopo l’esecuzione del figlio Crispo e l’uccisione della moglie Fausta61, avrebbe cominciato a temere che attraverso la divinazione altri potessero avvalersi della precognizione del futuro, a suo discapito; per questo avrebbe deciso di sopprimere tali pratiche62 . Ricordiamo, tra l’altro, che Costantino mantenne fino alla morte la carica di pontifex maximus, che rimetteva nelle sue mani il pieno controllo dello svolgimento dei riti, dei culti, della liturgia, delle feste e delle cerimonie della vita religiosa Romana.
Con riferimento alla divinazione, la legislazione di Costanzo appare più restrittiva: in un provvedimento emanato intorno al 357, quando Giuliano era stato già nominato Cesare, si proibisce, a pena della morte, la consultazione di aruspici, mathematici, harioli; e si ordina: sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas63. Dopo l’effimero tentativo di restaurazione politeista operato da Giuliano64, nel 371 Valentiniano I dichiara di ritenere che l’aruspicina non abbia nessuna compartecipazione con i maleficia, ed esclude che l’aruspicina o alcuna altra religio tramandata dai maiores sia un genere di crimine65 (in questa religio tramandata dai maiores riteniamo che sia possibile vedere anche un’allusione ai libri Sibyllini). L’imperatore conclude precisando che non intende perseguitare la pratica dell’aruspicina, ma vietare che essa venga esercitata a scopo di danno66. Nel 381, però, il clima cambia radicalmente: un rescritto di Graziano, Valentiniano e Teodosio proibisce le pratiche cultuali pagane, ordina di venerare Dio con caste preghiere e vieta di profanarlo con dira carmina67. Come ha sottolineato M. Salzman, a partire dall’epoca di Teodosio, dopo un periodo iniziale caratterizzato da una certa ambiguità, emerge, nei provvedimenti legislativi, una netta condanna nei confronti dei riti divinatori68. Tali pratiche, ricomprese complessivamente all’interno del concetto di superstitio69, vengono ora vietate, mentre prima di questa data, al contrario, esse erano non solo tollerate, ma addirittura autorizzate70. L’anno successivo, Graziano abolisce i privilegi concessi ai collegi sacerdotali (auguri, vestali ecc.)71 che quindi dobbiamo ritenere fossero ancora in carica, anche se non si trova più traccia di una loro operatività; viene anche rimossa dall’altare nel Senato la statua della Vittoria (gesto che, come è noto, provoca la reazione indignata di Simmaco). Incoraggiata dalla tragica morte di Graziano, avvenuta dopo questi decreti e dalla giovanissima età del suo successore, Valentiniano II, l’aristocrazia pagana riprende influenza nella vita pubblica. Simmaco diviene praefectus urbis e ottiene che vengano abrogati in parte i provvedimenti di Graziano. Nel 385, tuttavia, ecco un’altra presa di posizione, la più decisa nei confronti della pratica divinatoria:
“ne quis mortalium ita faciendi sacrificii sumat audaciam, ut inspectione iecoris extorumque praesagio vanae spem promissionis accipiat vel, quod est deterius, futura sub execrabili consultatione cognoscat. acerbioris etenim inminebit supplicii cruciatus eis, qui contra vetitum praesentium vel futurarum rerum explorare temptaverint veritatem”72.
Gli imperatori appaiono molto decisi nella loro opera di sradicamento dei riti divinatori, ma l’insistenza con cui sono costretti a tornare sull’argomento, tradisce la vitalità che le forme religiose pagane ancora mantenevano. Eppure, da questo punto non si tornerà più indietro; i culti pagani e la divinazione in ogni loro forma verranno puniti con la morte 73; i privilegi residui, ancora concessi ai sacerdoti, saranno del tutto aboliti74. Intorno alla fine del IV secolo, allorché l’intolleranza nei confronti dei residui di paganesimo raggiunse uno dei punti più alti, anche contro i libri Sibyllini si cominciarono a levare le voci della propaganda anti-pagana, che tra l’altro accusava i libri di aver ordinato sacrifici umani (accusa che non si sopirà neanche dopo la loro distruzione)75: in particolare, si faceva riferimento alle vivisepolture celebrate nel Foro Boario in almeno tre occasioni (228, 216 e 114 a.C.)76. Pur trattandosi di episodi isolati, della loro storicità non è lecito dubitare, in quanto troppo circostanziati e ben documentati dalle fonti77. Dal punto di vista storico-religioso, per queste vivisepolture, tuttavia, si dovrebbe parlare di uccisioni rituali a scopo espiatorio e non propriamente di sacrifici umani, dal momento che appare certo che le vittime non fossero destinate ad un essere extraumano78. Ma tali sottigliezze classificatorie certamente non interessavano gli autori cristiani, che al contrario trovavano in questo genere di riti espiatori materiale utile a fini polemici79. Vi è inoltre da notare che questo è il periodo in cui si dà massimo impulso alla cristianizzazione dell’Impero e per il Cristianesimo diviene essenziale, tra l’altro, una trasformazione della concezione del male: per i pagani, e per i sistemi politeistici in generale, la concezione del male era, infatti, essenzialmente persecutiva80. Osservava a proposito Nietzsche, in riferimento all’antica Grecia: “Allora gli dei servivano a giustificare, entro una certa misura, l’uomo anche nel male, servivano come cause del male; in quel tempo essi non si assumevano la pena, bensì, come è più nobile, la colpa”81. Anche a Roma la causa del male era una causa esterna: si riteneva, infatti, che l’ira deorum fosse originata non già dal peccato, ma dall’ignoranza degli uomini, dalla loro inscitia, che si manifestava soprattutto in ambito rituale. Il male, determinato, come abbiamo detto, per lo più da una negligenza rituale, era però sempre emendabile attraverso opportuni interventi espiatori. Tale è la funzione della divinazione in generale e tale era la funzione dei libri Sibyllini in particolare; per tutto il corso della loro lunghissima storia (V secolo a.C. – IV secolo d.C.), essi svolsero un ruolo fondamentale per il ripristino del patto e della pace con gli dei. L’episodio dell’incendio del tempio di Apollo all’epoca di Flavio Giuliano e dell’opera offerta da comuni cittadini per mettere in salvo i volumi mostra come, ancora alla seconda metà del IV secolo, essi fossero tenuti in grande considerazione da parte della popolazione pagana di Roma. Ma la concezione del male sottesa delle pratiche divinatorie doveva per forza di cose apparire ben presto incompatibile con la soluzione prospettata dal Cristianesimo, e la divinazione da rimedio dei mali, qual era nella concezione politeista, finì per diventare causa del male, nella religione cristiana, attraverso l’elaborazione della dottrina che la attribuiva all’intervento dei demoni82. Tale dottrina si fondava, come è noto, sull’identificazione degli dei del paganesimo con i demoni della religione cristiana: gli autori che hanno trattato il tema si dimostrano significativamente concordi nel valutare la divinazione come un opus diaboli. Parallelamente, nella prospettiva cristiana, l’unica pratica espiatoria ammessa e ammissibile fu l’imposizione del segno della croce, cui fu anche affidato il compito di purificare gli spazi contaminati dalle esecrande cerimonie sacrificali pagane83.
In questo clima di profonda intolleranza nei confronti di ogni forma di divinazione maturarono le condizioni per la distruzione del repertorio oracolare dei libri Sibyllini. Ignoriamo la data precisa di questo avvenimento, ma una delle nostre fonti, il poeta pagano Rutilio Namaziano ne attribuisce la responsabilità al generale Stilicone. Alla morte di Teodosio, Stilicone assunse la tutela dei due figli dell’imperatore, Arcadio e Onorio, che erano ancora in giovane età; il generale, di origine vandala, servì con fedeltà e impegno, ma venne accusato di tradimento per essersi comportato con eccessiva condiscendenza nei confronti di Alarico, dopo averlo sconfitto nella battaglia Verona; caduto quindi in disgrazia, venne giustiziato nel 40884. Il poeta Rutilio Namaziano indica in Stilicone la causa principale della rovina di Roma e pronuncia nei suoi confronti una violenta invettiva: lo ritiene, tra l’altro, un divulgatore e un traditore del mistero dell’imperium85; lo accusa di aver mischiato, in preda ad un accesso di furor, cose somme e cose infime86 e di aver bruciato i libri della Sibylla87. Per caratterizzare l’azione di Stilicone, l’autore ricorre al termine furor “follia”, che in latino esprimeva il concetto greco di μανία con una connotazione esclusivamente dispregiativa, dal momento che a Roma non veniva riconosciuta una dimensione positiva né alla possessione né all’entusiasmo profetico88. Stilicone dunque, secondo Rutilio Namaziano, avrebbe agito come un dissennato e, senza rendersi conto delle conseguenze delle sue azioni, avrebbe distrutto sia i fatalia pignora (che fino a quel momento avevano garantito la preservazione di Roma) sia la sua vita, ancora nel pieno dell’età89. La notizia che indica in Stilicone l’autore del rogo dei libri appare confermata indirettamente da un episodio avvenuto pochi mesi dopo la morte del generale vandalo. Quando, alla fine del 408, durante l’assedio di Roma da parte di Alarico, con la peste e la fame che mietevano vittime, si pose il problema di invocare l’aiuto celeste, secondo Zosimo, un gruppo di cittadini originari della Tuscia suggerì al prefetto urbano di compiere alcuni riti, che erano stati già celebrati con successo in una città della loro regione90. Il prefetto informò il Papa, il quale diede il suo consenso, a condizione che i riti si svolgessero di nascosto; fu però obiettato che, se compiuti di nascosto, i riti non avrebbero avuto alcuna efficacia91. Ma quando si trattò di organizzare un corteo solenne che, raggiungendo il Campidoglio, impetrasse il soccorso della divinità secondo gli usi tradizionali, nessun senatore si mostrò disposto a prendere parte ad una tale processione e la proposta perciò decadde92. Dalla notizia di questa “processione mancata”93, che Santo Mazzarino ha proposto di assumere come segnale della definitiva “conversione del senato”94, possiamo dedurre che, a quella data, il repertorio oracolare non esistesse più, dal momento che pur essendo ambientato l’episodio in un quadro religioso pagano, con continui richiami alla tradizione patria, manca nelle fonti ogni riferimento ai libri della Sibylla.
La seconda ed ultima testimonianza circa la distruzione dei libri si rinviene nel poema Apotheosis di Prudenzio, poeta latino di fede cristiana. L’autore vi accenna nella parte dedicata ai nemici della fede sconfitti dalla venuta di Cristo: Prudenzio si entusiasma nel vedere la desolazione che regna nei santuari oracolari ormai abbandonati 95 e si compiace del fatto che anche i libri della Sibylla non esistano più: “Non spumat anhelus / fata Sibyllinis fanaticus edita libris”96. I toni polemici di Prudenzio appaiono molto accesi; egli in questo caso, pur non usando le stesse parole di Rutilio, sembra far riferimento allo stesso ambito concettuale: per qualificare i sacerdoti incaricati della consultazione dei libri, ricorre infatti a due aggettivi, fanaticus e anhelus, entrambi allusivi di uno stato di follia e di possessione. In realtà, il sistema di divinazione prodigium–piaculum connesso alla consultazione dei libri Sibyllini, era stato, nella fase repubblicana della religione romana, il principale agente di rimozione di quelle componenti oracolari-invasanti che sembrano trasparire dai frammentari indizi che possediamo circa l’arte divinatoria in Roma in età monarchica97. In tale prospettiva, i libri si sono rivelati prodotto e al tempo stesso strumento della demitizzazione, consentendo di adattare ad un orientamento religioso demitizzato un prodotto originariamente connesso con la mantica oracolare. Gli aggettivi fanaticus e anhelus, pertanto, mal si attagliano ai sacerdoti incaricati di consultare il repertorio della Sibylla, sacerdoti che non pronunciavano profezie o vaticini, ma esaurivano il loro compito nell’indicare le prescrizioni espiatorie, atte al ripristino della pax deorum. Del resto il “fanatismo” non era percepito dai Romani neanche come carattere specifico della Sibylla: Cicerone, commentando la tecnica di composizione degli acrostici, tipica della profetessa, notava che questo sistema di scrittura non era proprio di uno scrittore invasato (furens), né di un folle (insanus), ma di un autore che lavorava con diligenza98. Cicerone perciò rigettava con fermezza l’idea che alla base dell’ispirazione della Sibylla vi fosse un fenomeno di enthousiasmos-invasamento99. Per intendere appieno il senso del giudizio di Prudenzio dobbiamo quindi riportarlo all’ideologia cristiana del tardo-antico, che condannava come comportamenti folli tutte le manifestazioni di opposizione alla vera fede. Nel rescritto di Graziano, Valentiniano e Teodosio del 381 era classificato come vesanus ac sacrilegus, folle e sacrilego, chi, nonostante i divieti, entrasse nei templi per compiere i riti della religione politeistica; nell’Editto di Tessalonica, con termini quasi identici, gli eretici sono definiti dementes e vesani100. La letteratura cristiana offre diversi esempi di tale accezione: per Agostino, ad es., i nemici della fede e coloro che non si convertono sono affetti da insania, furor atque dementia101. Il furor che si manifesta soprattutto nelle cerimonie divinatorie è presentato talvolta anche come causa delle persecuzioni contro i Cristiani, come nel caso della persecuzione ordinata da Diocleziano, furioso perché il rito della litatio delle vittime sacrificali non aveva avuto successo a causa della presenza di Cristiani tra la folla102. Nonostante la palese tendenziosità dimostrata da Prudenzio nel trattare l’argomento, la sua testimonianza è per noi di primaria importanza, in quanto consente di restringere l’arco temporale entro cui avvenne la distruzione dei libri agli anni compresi tra il 402 (data di composizione del Bellum Gothicum di Claudiano) ed il 404-5, periodo di composizione del poema Apotheosis103. A questo punto, sembra possibile datare con una buona approssimazione104 l’episodio. Non si sarà lontani dal vero, indicando nell’adventus a Roma di Onorio nel 404, allorché l’Augusto assunse il suo sesto consolato e celebrò il trionfo, l’occasione che potrebbe aver spinto Stilicone a compiere tale gesto105. Bisogna ricordare infatti che, se a partire da Costantino, nei loro adventus gli imperatori avevano evitato di ascendere al tempio di Iuppiter Optimus Maximus sul Campidoglio106, essi non avevano, al contrario, alcuna possibilità di tenersi lontani dal tempio di Apollo sul Palatino, poiché su questo colle sorgeva il palazzo imperiale del quale, fin dai tempi di Augusto, il santuario del dio costituiva quasi una dipendenza. Sappiamo che Onorio risiedette nel palazzo sul Palatino per tutto il periodo in cui si trattenne a Roma107.
Inoltre, come ha sottolineato A. Fraschetti, la cristianizzazione dello spazio di Roma, nella zona del Palatino, non intervenne prima della metà del V secolo108; dunque all’incirca fino al 450, questo polo preservò l’assetto e l’aspetto che aveva prima dell’affermazione del Cristianesimo. Pertanto, nel tempo sia pur limitato della loro permanenza in Roma, gli imperatori di questo periodo erano costretti, per così dire, a condividere i loro spazi con quelli che essi consideravano idoli, talismani e amuleti pagani, ancora custoditi nelle loro sedi tradizionali. Tra questi dobbiamo comprendere anche i libri Sibyllini, dei quali i cittadini di Roma invocarono invano la lettura nei giorni luttuosi della guerra gotica; la loro presenza nel tempio di Apollo poteva essere ignorata, finché l’Augusto si trovava lontano da Roma, ma diveniva senz’altro imbarazzante quando egli risiedeva nel suo palazzo sul Palatino. In tale contesto, la decisione di Stilicone di distruggere i libri Sibyllini custoditi nel tempio di Apollo sul Palatino si configura come una sorta di operazione di “bonifica” nell’ambito di una programmatica de- sacralizzazione dello spazio urbano di Roma, preludio ad una sua successiva cristianizzazione. Essa peraltro risulta coerente anche con l’indirizzo tenuto da Onorio, in materia di legislazione religiosa. Onorio appare infatti molto impegnato su questo versante per tutta la durata del suo lungo impero; tuttavia, in questa intensa attività legislativa, il maggior numero di provvedimenti in campo religioso si concentra nel biennio 404-405. Nel 404, Onorio promulga delle norme a favore degli Ebrei e dei Samaritani, concedendo o rinnovando loro esenzioni e privilegi109; nel 405, proibisce la celebrazione di ludi durante l’ultima settimana della Quaresima e durante la settimana di Pasqua, a Natale ed all’Epifania, periodi espressamente dedicati alla penitenza110 e colpisce con due editti il Manicheismo, lo scisma donatista e l’eresia montanista111. Il programma politico di Onorio è sintetizzato efficacemente nella frase: “Una sit catholica veneratio, una Salus sit”112. Nell’Impero ormai cristianizzato, ormai non c’era più spazio per la salus che i libri Sibyllini avevano assicurato e garantito per tanti secoli della storia di Roma113; non c’era più spazio per una Salus al di fuori della catholica Ecclesia.
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109 Cod. Theod. XVI 8,16.
110 Cod. Theod. II 8, 24.
111 Cod. Theod. XVI 5, 38.
112 Ibid.: “Ci sia una sola religione cattolica, ci sia una sola Salvezza”.
113 Per la distruzione dei libri Sibyllini come suggello di un’epoca cfr. Santi 2005, p. 209.
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Note:
1 Un elenco delle tipologie dei prodigia in Dion. Hal. VI 5; per la nozione di
prodigum in Roma cfr. Santi 1996; Santi 2008, pp. 89-102.
2 Per il collegio dei viri sacris faciundis cfr. Santi 1985; Santi 2008, pp. 112-220
3 Per il concetto di pax deorum cfr. Montanari 2006.
4 Serv. ad Aen. VI 72.
5 La prima consulazione storica si colloca nel 461 a.C., come attesta Liv. III 10, 7; per un esame critico delle consultazioni riferite dalle fonti antecedentemente a questa data cfr. Santi 2000.
6 Cic. De div. II, 80 riferisce intorno agli augures e al rex-augur Romulus; Liv. I 18, 7-9 relativamente al rituale di inauguratio di Numa; cfr. Santi 1985, 27-28.
7 Gell. Noct. Att. I 19, 1-9; Dion. Halic. IV 62, 4; Plin. Nat. hist. XIII 88; altre fonti: Lact. Div. inst. I 6, 10-11; Serv. Ad Aen. VI, 72; Solin. II 17; I. Lyd. De mens. IV 47; App. Reg. VIII. Per un esame del “mito” di acquisizione dei libri Sibyllini cfr. Sabbatucci 1989, pp. 169-170; Santi 2008, pp. 103-112.
8 Dion. Hal. IV, 62, 5.
9 Ignoriamo la data esatta del provvedimento: Verg. Aen. VI 72 ss., e Tib. II 5 accennano già alla presenza dei i libri Sibyllini nel tempio di Apollo e ciò farebbe pensare, come opportunamente rilevato da Gagé 1955, pp. 546 ss., che il trasferimento sia stato disposto prima del 19 a.C., anno di morte di entrambi i poeti, e quindi verosimilmente tra il 21 ed il 19 a.C.; Suet. Aug. 31, 1, lo colloca dopo l’assunzione da parte di Augusto della carica di pontifex maximus, facendo slittare perciò la data almeno al 12 a.C.
10 I Ludi Saeculares furono sempre celebrati facendo riferimento alla celebrazione di età augustea ordinata dai libri Sibyllini e organizzata dai decemviri sacris faciundis; in proposito cfr. Forsythe 2012, pp. 69-76.
11 Suet. Aug. 97, 1; per l’istituto della nuncupatio votorum cfr. Bellocci 1979.
12 Già Liv. XLIII 13, 1-2 lamentava che nelle fonti, a partire dalla metà del II sec. a.C., venisse meno la menzione dei prodigia.
13 Per le espiazioni in età imperiale cfr. Gagé 1955, p. 677.
14 Per demitizzazione si intende il processo di rimozione dei temi mitici dalle figure divine; la teoria della demitizzazione venne formulata da Koch 1937 relativamente alla figura divina di Iuppiter Optimus Maximus; i temi mitici si trovano in Roma riversati su personaggi delle origine e della proto-storia, talvolta anche della storia, percepiti come storici; per gli sviluppi della teoria della demitizzazione nell’opera dei diversi studiosi cfr. Montanari 1988, pp. 17-60.
15 Santi 1996.
16 Canetti 2010, pp. 153-154.
17 Sul vates in età augustea cfr. Dahlmann 1948; Lutz 1973.
18 Per l’organizzazione degli haruspices sotto l’imperatore Claudio cfr. Heurgon 1953.
19 Cfr. il presagio di imperium in Suet. Tib. 14, 4-5.
20 Plut. Syll. VI 11-13.
21 Script. Hist. Aug. Hadr. XXI 5-6.
22 Il lectisternium era una cerimonia celebrata a livello pubblico e privato che consisteva nel recare offerte ai simulacra degli dei esposti su lecta; il primo lectisternium fu eseguito dai viri sacris faciundis a seguito della consultazione dei libri nel 399 a.C. a causa di una gravissima epidemia di pestilenza e di un’annata di carestia; in proposito cfr. Santi 2008, pp. 139-145.
23 Script. Hist. Aug. Marc. Aur. XIII, 1-5; cfr. Gagé 1955, pp. 677-678.
24 Sfameni Gasparro 2002, p. 70.
25 Scrip. Hist. Aug. Gord. III 16, 1.
26 Pavan 1990.
27 Scrip. Hist. Aug. Gall. V 2-3. 28 Scrip. Hist. Aug. Gall. V 3-4. 29 Scrip. Hist. Aug. Gall. V 5. 30 Ibid.
31 Mazzarino 1976, pp. 527-533 sottolinea come Gallieno sospese la persecuzione e restituì le proprietà ai Cristiani.
32 Scrip. Hist. Aug. Aurelian. XVIII 4-5.
33 Liv. III 10, 7; cfr. Santi 1994; Santi 2006.
34 Liv. XXII 9, 7-10; cfr. Montanari 1976, pp. 208-261.
35 Dodds 1965 ricostruisce efficacemente il quadro dell’epoca; cfr anche Lane Fox 1986.
36 Scrip. Hist. Aug. Aurelian. XIX-XXI.
37 Lact. De mort. persec. XLIV 7.
38 Lact. De mort. persec. XLIV 1.
39 Lact. De mort. persec. XLIV 8: “Vi si trovò predetto che quel giorno il nemico di Roma sarebbe morto”.
40 Lact. De mort. persec. XLIV 9.
41 Zos. II 16, 1; per il valore di questo notissimo episodio cfr. Odahl 2004, pp. 108- 109.
42 Randén 2013.
43 Euseb. Vita Const. I, 28: “Τούτῳ νίκα” (con questo vinci); nel momento in cui la Vita di Costantino di Eusebio venne tradotta in latino alla fine del IV secolo, la frase originale era stata dimenticata e si tradusse dal greco con diverse varianti come “in hoc signo vinces” (in questo segno vincerai), o “hoc signo victor eris” (con questo sarai vincitore); in proposito cfr. Odahl 2004, p. 184.
44 Amm. Marc. XXIII 1, 7.
45 Amm. Marc. XXIII 3, 3.
46 Dion. Hal. IV 62, 4: “οὐδὲν οὕτω Ῥωμαῖοι φυλάττουσιν οὔθ᾽ ὅσιον κτῆμα οὔθ᾽ ἱερὸν ὡς τὰ Σιβύλλεια θέσφατα” (Nessuna cosa né santa né sacra i Romani custodiscono così come i vaticini della Sibilla).
47 Claud. In Eutr. I 11: “Aprite, o pontefici, i versi della profetessa di Cuma”.
48 Relativamente alla datazione dell’In Eutropium di Claudiano, se l’anno è certo il mese rimane controverso, cfr. Long 1992, pp. 149-164.
49 Per la datazione del Bellum Gothicum di Claudiano, Garuti 1979, pp. 93-95, attraverso l’esame dei riferimenti interni, propone di situare la composizione del poema dopo la battaglia di Pollenza e prima della battaglia di Verona.
50 Claud. Bell. Goth. 227-266; per la figura di Claudiano come poeta di corte cfr. Cameron 1970.
51 Claud. Bell. Goth. 231-232: “Che cosa richieda con il suo carme fatidico il libro custode del destino di Roma”.
52 Claud. Bell. Goth. 268-269: “Egli stesso fu guida e profeta dell’incerta salvezza”. Contra Pricoco 1998, p. 565, il quale ritiene che vi sia stata un’effettiva lettura dei libri nell’anno 402; Belayche 2004, p. 157, colloca questa presunta consultazione “en 405-406 pendant le raid de Radagaise ou plutôt en 407”, senza però indicare su quali argomenti basi la sua ricostruzione che contrasta con la cronologia dell’opera di Claudiano, generalmente accettata. Le date proposte ci appaiono, francamente, inverosimili, anche in considerazione del fatto che la responsabilità di questa iniziativa ricadrebbe proprio su Stilicone, e dunque sulla stessa persona cui le fonti attribuiscono la distruzione di libri.
53 Claud. Bell. Goth. 273: “Vani vóti”.
54 La bibliografia su Costantino ha assunto proporzioni enormi, cfr, da ultimi, Dillon 2012; Barnes 2013.
55 Cod. Theod. XVI 10, 1 pr.; i provvedimenti contro l’aruspicina privata sono riportati in Cod. Theod. IX 16, 1; Cod. Theod. IX 16, 2. La mancanza di qualsiasi riferimento ai libri in Cod. Theod. XVI 10, 1 pr. è, a nostro parere, dovuta al fatto che i libri non potevano essere consultati da privati; così, Cod. Theod. XVI 10, 1 pr. può dunque essere assunta per chiarire l’atteggiamento di Costantino nei confronti della divinazione in generale. Per un commento a Cod. Theod. XVI 10 cfr. De Giovanni 1991, pp. 126-138; per la ricezione di questo provvedimento in ambiente pagano cfr. De Giovanni 1985, pp. 37-38 e De Robertis 2001; per un esame sistematico della legislazione in materia cfr. Desanti 1990.
56 Nella forma in cui sono riportati dalle fonti, infatti, questi provvedimenti, come ha notato Bradbury 1994, pp. 137-139, sembrano più simili a precetti morali che a vere e proprie leggi.
57 Il testo di questo provvedimento non ci è giunto, ma esso appare presupposto in altre costituzioni, come quella di Cod. Theod. XVI 10, 1 pr.; per questo problema cfr. Fraschetti 1999, pp. 23-27; Onida 2003, pp. 73-169.
58 Briquel 1997.
59 Onida 2003, p. 114.
60 Sulle “contraddizioni proprie dei grandi tramonti” cfr. le osservazioni di Mazzarino 1988, p. 121.
61 Come è noto, il rimorso per le morti del figlio e della moglie, considerati nella prospettiva etica e religiosa del politeismo scelera inespiabili, sarebbe stata, nella storiografia pagana, la vera motivazione che avrebbe spinto Costantino a convertirsi al Cristianesimo.
62 Zos. II 29, 1-5; sulla versione pagana della conversione di Costantino cfr. Paschoud 1971.
63 Cod. Theod. IX 16, 4: “Taccia per sempre la curiosità della divinazione”.
64 Mazza 2009.
65 Cod. Theod. IX 16, 9.
66 Cod. Theod. IX 16, 9.
67 Cod. Theod. XVI 10, 7.
68 Salzman 1987, pp. 172-174.
69 Sachot 1991.
70 Cfr . Harries – Wood 1993, pp. 146-147.
71 Lizzi Testa 2009.
72 Cod. Theod. XVI 10, 9: “Nessuno abbia l’ardire di fare sacrifici per ricevere attraverso l’ispezione del fegato o l’esame delle viscere speranza di una vana promessa o, ciò che è peggio, per conoscere il futuro attraverso un’esecrabile consultazione. Condanna a morte per coloro i quali contro il divieto tentino di esplorare il presente o il futuro”. Il riferimento alle cose presenti non deve meravigliare: la divinazione, anche se di solito si concentra sul futuro, si occupa di tutte le dimensioni temporali inaccessibili all’uomo comune: Epimenide, ad es., vaticinava quasi esclusivamente sul passato, e individuava soprattutto le cause delle malattie (anche il sistema divinatorio dei libri Sibyllini era prevalentemente connesso ad eventi passati); all’oracolo ci si rivolgeva anche per avere notizie sul presente, in caso, ad es., di un parente lontano o in guerra; presso molti popoli, lo stregone aiuta anche a ritrovare gli oggetti smarriti.
73 Cod. Theod. XVI 10, 12 pr. 1.
74 Cod. Theod. XVI 10, 14.
75 Così Oros. IV 13, 3; cfr. Ratti 2012.
76 Le fonti per il 228 a.C. sono Plut. Marc. III 4; Cass. Dio XII 50; Zon. VIII, 19; per il 216 a.C. Liv. XXII 57, 2-7; per il 114 a.C., Plut. Quaest. Rom. LXXXIII .
77 Santi 2004, pp. 137-145.
78 Per la distinzione tra “sacrificio umano” e “uccisioni rituali” cfr. Brelich 2006, p. 25: nella prima categoria rientrerebbero “soltanto” quei riti di uccisione che sono rivolti ad un destinatario sovrumano (divinità, antenati, spiriti, “feticci”, e, perfino, persone apparentemente umane alle quali però si conferisce uno status sovrumano come certi re o capi), mentre per gli altri riti sarebbe preferibile usare un termine più generico, come quello di “uccisioni rituali”; cfr. anche Xella 2010.
79 Ratti 2012.
80 Augé 1982, p. 70.
81 Nietzsche 1984, p. 93 (corsivi nostri).
82 Per la divinazione come opera dei demoni cfr. Aug. De div. daem.
83 Cod. Theod. XVI 10, 25.
84 La complessa e per certi aspetti contraddittoria figura di Stilicone è analizzata in profondità da Mazzarino 1942.
85 Rut. Namat. De redit. II 41-42.
86 Rut. Namat. De redit. II 43-44.
87 Rut. Namat. De redit. II 51-52: “Sibyllinae fata cremavit opis”.
88 Santi 2008, pp. 21-32; Ruggiero 1992.
89 Rut. Namat. De redit. II 55-56.
90 Zos. V 41, 1; per questo episodio cfr. Fraschetti 1999, pp. 270-293.
91 Zos. V 41, 1-3.
92 Zos. V 41, 3.
93 L’espressione è presa da Fraschetti 1999, p. 270.
94 Mazzarino 1974, p. 378.
95 Prudent. Apoth. 438-443.
96 Prudent. Apoth. 439-440: “Il sacerdote invasato e posseduto non emette più schiumando i responsi fatali derivati dai libri Sibyllini”; per un esame della figura di Prudenzio cfr. Ludwig 1977; per un confronto tra Rutilio Namaziano e Prudenzio cfr. Gärtner 1984.
97 Santi 2008, pp. 28-32.
98 Cic. De div. II 54, 112: “Atque in Sibyllinis ex primo versu cuiusque sententiae primis litteris illius sententiae carmen omne praetexitur” (e nei libri Sibyllini, l’intero carme risulta dal primo verso di ciascuna frase, mettendo di seguito le prime lettere di quella frase, tr. di S. Timpanaro). Il testo di Cicerone è stato variamente integrato ed emendato; per le difficoltà di traduzione cfr. Timpanaro 1988, pp. 393- 394.
99 Ibid.: “Hoc scriptoris est, non furentis, adhibentis diligentiam, non insani” (questo modo di comporre è proprio di uno scrittore non invasato, che ci si applica con diligenza, non di un folle); cfr. Santi 2008, pp. 162-163.98 Cic. De div. II 54, 112: “Atque in Sibyllinis ex primo versu cuiusque sententiae primis litteris illius sententiae carmen omne praetexitur” (e nei libri Sibyllini, l’intero carme risulta dal primo verso di ciascuna frase, mettendo di seguito le prime lettere di quella frase, tr. di S. Timpanaro). Il testo di Cicerone è stato variamente integrato ed emendato; per le difficoltà di traduzione cfr. Timpanaro 1988, pp. 393- 394.
100 Cod. Theod. XVI 1, 2, 1: “Insensati e folli”.
101 Aug. Serm. 278, 1, 1; De civ. Dei I 1. Il fenomeno è analizzato da Zuccotti 1992.
102 Lact. Div. inst. IV 27; De mort. pers. X 1-6.
103 Le opere di Prudenzio sono state composte tutte tra il 392 ed il 404-405; la datazione dei singoli scritti si interseca con il problema della destinazione della Praefatio; anche ammettendo, in accordo con quanto proposto da Lana 1962, pp. 12- 25, che la Praefatio fosse destinata a fare da Introduzione solo al Cathemerinon, la datazione dell’Apotheosis non può scendere al di sotto del 404-405, in quanto dopo questa data non si hanno più notizie dell’autore; in proposito cfr. Bastiaensen 1993, 103.
104 Demougeot 1952, p. 87 indica come arco di tempo il 404-408, un range troppo ampio per poter essere preso in considerazione.
105 La communis opinio data la distruzione dei libri Sibyllini al 402; a questa
communis opinio si conforma acriticamente da ultima anche Piccaluga 2005, p. 199
- 12, senza alcun riferimento né alle fonti né alla bibliografia; tale data non ci appare convincente in quanto in quell’anno Stilicone era impegnato a respingere i Visigoti (tra l’altro appare dubbio che il generale abbia raggiunto Roma) e non si comprende per quale motivo, nel pieno di una campagna militare, il generale avrebbe dovuto preoccuparsi di prendere un tale provvedimento.
106 Fraschetti 1999, pp. 9-63.
107 Claud. Sext. Cons. Hon. 35.
108 Fraschetti 1999, pp. 123-138.
(fonte: Chaos e Kosmos XIV, 2013 – www.chaosekosmos.it)
Claudia Santi,
docente di Storia delle Religioni presso Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli