Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Evola, l’Alchimia ed il Tradizionalismo – Marco Pucciarini
E’ oramai scontato per chiunque come l’Alchimia non sia più da considerarsi semplicemente come l’antenata della moderna Chimica; una letteratura che si è andata via via accrescendo, soprattutto in questi ultimi anni, ha sempre più mostrato come sia complessa e variegata la realtà che con il termine Alchimia si congloba. E’ ben chiaro come l’Alchimia sia strettamente connessa con la tipologia dell’esperienza religiosa e psicologica dell’uomo, come essa rientri in una generale fenomenologia religiosa, carica di continui richiami alla fruizione della sacralità come fatto centrale della vita interiore di chi la praticava. Come veri e propri pionieri in questa ricerca, cioè sul senso dell’Alchimia, vengono indicati Carl Gustav Jung e Mircea Eliade, in maniera sistematica, viene completamente ignorato il contributo che Julius Evola ha dato per la comprensione di quell’eteroclito materiale che l’Alchimia abbraccia. Questo atteggiamento nei confronti dell’Evola è non solo antiscientifico ma rivelatorio di una profonda ignoranza del pensiero di Evola e non solo su questo determinato argomento.
In queste note non si vuole tessere una apologetica dell’Evola, ma semplicemente dimostrare come egli, per lo studio scientifico della Alchimia, abbia portato un contributo, non indifferente, per una sua più puntuale collocazione e comprensione. Il problema dell’Alchimia nella prospettiva della psicologia del profondo era stato già affrontato da Herbert Silber nel volume Probleme der Mystik und ihre Symbolik (Vienna 1914); Jung riprese questo tipo di approccio e giunse, dopo una serie di studi preliminari, a pubblicare il frutto dei suoi sforzi nell’opera Psicologie und Alchemie nel 1944. Detto volume contiene l’elaborazione e l’ampliamento di due precedenti studi che Jung dedicò alle ricerche sul significato dell’Alchimia e che furono presentati dallo stesso Jung nelle conferenze di Ascona, si tratta di Traumsymbole des Inclividuationsprozesses e di Die ErlӦsungvorstellungen in der Alchi-mie [rispettivamente editi in Eranos-Jahrbuch, III (1936) e IV (1937)]. Quel che si vuole far notare è l’ordine cronologico di pubblicazione.
Mircea Eliade aveva iniziato ad affrontare la problematica relativa al significato dell’Alchimia nel 1935 con il volumetto Alchimia Asiatica, in rumeno, a cui avevano fatto seguito la Cosmologie si Alchimie Babiloniana del 1937, e Metallurgy Magic and Alchemy pubblicato nella rivista da lui stesso fondata, Zalmoxis, nel 1938. Questi lavori preparatori confluirono poi nella opera Forgerons et Alchimistes del 1956.
Stando alle date di edizione sembrerebbe dunque che lo Jung non abbia affrontato la problematica relativa all’Alchimia prima del 1936 e che giunse alla formulazione di una opera di vasto respiro solo nel 1944. Eliade si sarebbe occupato di Alchimia a partire dal 1934 o 1935, ma bisogna attendere sino al 1956 per avere una sua opera che dal punto di vista del fenomenologo delle religioni affronti questo argomento in maniera globale. Ed Evola?
La Tradizione Ermetica dell’Evola vide la luce nella sua prima edizione nel 1931 presso la Laterza di Bari, ma l’opera era stata anticipata da vari lavori dell’autore in cui già erano contenuti tutti i temi che poi verranno ampiamente sviluppati nell’opera del 1931. Si tratta del saggio Sull’Arte dei Filosofi d’Ermete, apparso in UR nel 1928; della prima stesura della Tradizione Ermetica pubblicata su Krur nel 1929, e dello studio sulla Dottrina della Palingenesi nell’Ermetismo Medioevale uscito su Bilychnis nel 1930. E’ altresì da notare che nel 1932 curava, sempre presso la Laterza, l’edizione di una opera di un ermetista italiano del ‘600, Cesare della Riviera, dal titolo Il Mondo Magico degli Heroi. Quest’opera è significativa poiché l’Evola la arricchiva di un ampio commento che aveva le sue basi teoriche nei lavori già editi sull’argomento.
E’ sufficiente una semplice comparazione delle date di pubblicazione per vedere sia come Evola si sia interessato all’Alchimia ed al suo senso sin dal 1928, e che la sua opera La Tradizione Ermetica preceda sia l’opera dello Jung che quella dell’Eliade. Con questo non si vuole sostenere che l’uno o l’altro abbiano tratto un « suggerimento » su come « leggere » l’Alchimia dall’Evola, ma semplicemente che anche Evola ha un posto di primo rilievo nella storia degli studi sull’Alchimia.
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I termini « Tradizione » e « Tradizionalismo » sono ormai da tempo divenuti una sorta di luoghi comuni e, come tali, hanno perso quella caratteristica di novità «rivoluzionaria» sia sul piano esistenziale che culturale che avevano per chi per primi li usò: Guénon ed Evola. Molti oggi si riconoscono nell’idea di Tradizione, ma pochi hanno realmente compreso il significato « liberatorio » racchiuso in espressioni come « Mondo della Tradizione » o « Visione Tradizionale del Mondo ». La maggior parte di coloro che amano definirsi tradizionalisti, non hanno fatto altro che assumere il pensato di quei primi formulatori, l’Evola ed il Guénon. Tale assunzione è avvenuta nel modo più supino senza revisione critica, senza verifica interiore e quindi senza che si venisse a produrre una nuova spinta creativa.
Non ci si fraintenda, non vogliamo dire che le categorie sussunte dall’Evola e dal Guénon siano oggi superate, ma semplicemente che quello che dell’Evola e del Guénon va preso è il sostrato universale del loro pensare, meglio, del pensare universale che essi hanno mediato facendo sì che l’uomo moderno potesse riattingere a quelle categorie dell’arcaico e dell’Universale che da tempo, quest’ultimo, aveva dimenticato; è stato come un vento di primavera che richiama alla vita un mondo oramai vecchio e sclerotizzato. Non bisogna però fermarsi semplicemente qui, altrimenti si tradirebbe lo immane sforzo d’intuizione intellettuale compiuto dall’Evola e dal Guénon.
Tradiscono il mondo della Tradizione, proprio coloro che non sono stati in grado di fare un passo ulteriore nell’assunzione di quei valori eterni ed universali che definiscono la visione « vera » ed autentica della vita, dell’uomo, del mondo e dei rapporti che fra questi termini si intessono nel divenire e nell’Assoluto. Insomma, che danno una risposta certa ed inconfutabile, perché fatta di pura certezza affiorante nella interiorità di ognuno, priva di contenuti dialettici e discorsivi, si ricorda e si è come folgorati dallo stupore, dalla meraviglia. In cosa consista questo ulteriore passo è presto detto. Molti non hanno capito che la « visione tradizionale » debba divenire una potente attualità che anima ed orienta in « trasparenza » l’uomo che non solo vuol recuperarsi ad un esistere pieno, senza fratture, senza angoscie, ma che vuole anche che questo esistere sia quello del qui ed ora. La « trasformazione » dei valori universali che si ridestano nella esperienza interiore e che chiedono di integrare il qui ed ora in una totalità che non ammette separazione fra «dentro» e «fuori», ma solo un continuo fluire da questo a quello e viceversa; questo è quello che la maggior parte dei tradizionalisti non ha afferrato.
La quasi totalità di essi assume le categorie del « tradizionale » senza trasporle nell’attualità del loro vivere odierno, fare ciò equivale a non capirle affatto, a non riconoscerle; con troppa facilità si dimentica che l’Universale non è solo il retaggio del passato, oramai spento, ma che è anche la potente attualità che vive nel presente, per quanto esso possa essere misterioso ed imperscrutabile e che è gravida di prospettive per il futuro.
Molti consciamente od inconsciamente si fanno solidificare da una presunta ed imminente dissoluzione del mondo, o si lasciano cullare dalla sensazione di impotenza cosmica che loro deriverebbe dall’essere uomini del Kali-Yuga. Epoca nella quale regnerebbe sovrana l’oscurità e la degenerazione della spiritualità e non si accorgono, i poveri « di spirito », che così facendo si precludono da se stessi ogni possibile « fare » in senso Tradizionale. A parte ogni considerazione sulla dottrina dei cicli cosmici che è molto più complicata di quanto i più credano, a tal proposito bastino due considerazioni: nelle scienze cosmologiche Indù la dottrina dei cicli venne a formarsi in periodo tardivo (almeno per quanto riguarda la redazione scritta di essa), circa VI sec. a.C.; e che, in secondo luogo, le cifre, i calcoli che si riferiscono a tale dottrina, accanto a considerazioni simboliche cui possono dar luogo, hanno un preciso e matematico significato di compunto astronomico che stabilisce la durata del Ciclo su rigorosi dati di allineamento planetario. A titolo informativo sarà sufficiente in questa sede dire che la durata del Kali-Yuga è prevista in 432.000 anni terrestri a partire dal 3102 a.C.. Tutto questo è chiaramente detto nei testi e nei commentari Indù concernenti la dottrina dei Cicli (ci riproponiamo di tornare sull’argomento in un prossimo studio).
Per cui quei tradizionalisti che si sentono impediti dal poter fare qualcosa per loro stessi dall’imminente fine di « questo mondo », possono mettersi il cuore in pace (d’altra parte R. Guénon ha ampiamente diffidato dal cadere nelle illusioni millenariste). Assumere un tale atteggiamento distrae dalla questione più importante: capire quali siano i compiti che attendono coloro che prendono coscienza della « visione tradizionale » nel Mondo Moderno. Per quanto profonde possano essere le tenebre, una luce sempre brillerà in esse e basterà orientarsi verso quel lume perché anche in noi la luce sì ridesti a se stessa ed illumini, sconfiggendole, le tenebre che ci opprimono.
Poco sopra abbiamo introdotto il concetto di « trasparenza », ora cercheremo di svilupparlo e definirlo. Se si inquadra l’opera di autori come Guénon ed Evola come quella di chi, per primo, traccia o riscopre, adattandola, la visione del mondo che è di sempre, ne conseguono due importanti deduzioni. La prima è che con ogni probabilità sia l’uno che l’altro risulteranno incompleti, contraddittori nella loro opera, ma questo non è l’importante poiché quello che conta è di avere chiare le linee di intuizione dalle quali essi si sono mossi per organizzare la struttura della loro dialettica; inverare in se stessi quelle intuizioni è il compito.
Il senso della loro incompletezza è dovuto al fatto che essi sono stati i primi e gli unici ad « inventare » la concezione tradizionale (usiamo inventare nel senso letterale del termine e cioè dell’attuare in modo utile ed opportuno quanto si presenti come frutto della riflessione. Diamo ovviamente a riflessione il suo significato globale non limitato alla sola sfera razionale). Molti, subito, obietteranno che i nostri due autori non hanno inventato nulla, che sono stati gli espositori di una verità perenne, ecc.; si farà notare, a chi così obietta, che il precipuo « inventare » che qui si attribuisce ad Evola e Guénon, non è tanto l’intuizione della Verità ma il modo con cui questa Verità è stata presentata per ridestare la coscienza dell’uomo d’oggi, ed in ciò sta anche il senso della loro « originalità ». Le categorie di « Tradizione » e di « Tradizionalismo », possono essere utili e necessarie in prima istanza, Ma non lo sono più dopo che la dialettica si è sviluppata autonomamente nella interiorità di ciascuno divenendo « trasparenza » del concepire (ovviamente qui per dialettica si intende l’accezione platonica del termine e non la pura e semplice discorsività).
E’ l’ignoranza di questa trasposizione che fa sì che Possano esistere dei tradizionalisti staccati da un qualsiasi rapporto autentico con il Sacro, ed adoratori di una inesistente « Tradizione » che amano riscoprire sotto quella o quell’altra espressione religiosa o dottrina soteriologica, ma mai nell’esperienza religiosa sic et simpliciter (prendiamo il termine religione nel suo senso più vasto comportante un rapporto fra l’uomo e quell’altro da sé che è anche altro in sé); essi sentono l’irresistibile necessità di aggettivare con il termine « tradizionale » la « fede » che presumono di praticare. Costoro non hanno capito che nel momento in cui acquisivano la dialettica tradizionale nell’approccio o nell’interpretazione di una religione, di un simbolo, ecc., dovevano immediatamente dimenticarsi di essere « tradizionalisti » per essere semplicemente ciò che avevano abbracciato, ed in questo sta il senso più profondo di ogni processo di conversione.
E’ solo agendo in questo modo che quelle Verità di cui si professano convinti assertori, possono guidare in « trasparenza » la loro penetrazione dell’esperienza religiosa che grazie al « finto » concetto di « Tradizione » hanno riscoperto. Ciò che differenzia i tempi « arcaici » da quelli moderni sta nel fatto che « ieri » il mondo era informato consciamente dall’istanza del sacro, mentre « oggi » il mondo è informato consciamente dalla istanza del profano, della merce. ed inconsciamente da quella del sacro senza la quale né il mondo né l’uomo potrebbero essere; la differenza è in questo, niente di più ma nemmeno niente di meno.
Rifugiandosi nel passato si disattende un altro compito, quello cioè del capire che il mondo moderno, per quanto sia <<altro>> da quello tradizionale, è il mondo in cui viviamo; capire l’universale e trasportarlo nell’attuale, questo è il compito, sta a noi rinsaldare la frattura per vivere pienamente, e non frammentariamente in una costante alienazione dell’oggi. Da quanto sin qui detto emerge come la Tradizione sia, propriamente, una nozione dell’essenza , assenza di qualcosa che è deficiente all’esperienza del vivere moderno. Scoprendo la Tradizione si rivela ciò che è assente e deve essere reso attuale nell’esperienza dell’essere <<qui ed ora>> : ma una volta afferrato questo che senso ha il più parlare di Tradizione?
Marco Pucciarini
è docente di Storia delle Religioni nel biennio di specializzazione dell’Istituto Teologico di Assisi (ente aggregato alla Pontificia Università Lateranense di Roma) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Assisi (Pontificia Università Lateranense); ha insegnato Storia delle Religioni presso l’Università degli Studi di Perugia dove ha diretto varie tesi di laurea. Ha curato, in collaborazione con il Museo della Letteratura romena di Bucarest, la Mostra bio-bibliografica dedicata a Mircea Eliade (Assisi, 1997); ha diretto la ricerca sui nuovi movimenti religiosi: £ ’Arcobaleno del Sacro in Umbria (2003). È autore del volume La morte e il morire nel mondo antico. Idee sulla sopravvivenza e i destini dell’uomo nello Antico Oriente. Con un’Appendice sul Sacrificio (1997). I suoi interessi di ricerca vanno dalle religioni del1’Italia pre-romana (vedi, Riti, sacrifici e dèi nelle Tavole Iguvine (1997), alle religioni dell’India (v., Atman e non-atman nell’insegnamento del Buddha (2016), La Yogatattva Upanishad e l’Atmabodha di Shankara (2009), ai testi della mistica ebraica (v., Il Sefer Yetzirah. Note di Lettura (2007), alle problematiche delle nuove forme del sacro (v., New Age.‘ Ambigua metamorfosi del sacro o paradosso della profanità? (2000), all’esoterismo (v., Comprendere 1’esoterismo come tipologia storico-religiosa (2012), alla metodologia della ricerca storico-religiosa (v., Ripensare il «Politeismo» (2011). E membro della Società italiana di Storia delle Religioni e partecipa a varie iniziative per il Dialogo interreligioso. Suoi ulteriori contributi si possono vedere a
http://unipg.academia.edu/marcopucciarini.