Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Esempi di poesia contemporanea: i componimenti di Marco Toti e di Francesco Innella – Giovanni Sessa
Marco Toti, del quale conoscevamo finora la produzione saggistica di ambito storico-religioso, ci ha sorpreso, e non poco, con la sua ultima opera, Dal fondo di tutte cose. Lessico poetico 1999-2017, pubblicato da Thule, con prefazione di M. P. Allotta. Il volume raccoglie la sua significativa produzione poetica (per ordini: marco76toti@yahoo.it, pp. 71, euro 15,00) ed è testimonianza viva della ricerca, spirituale ed esistenziale, dell’autore: in qualche modo, il “volto celato” del suo universo ideale. Un percorso lirico, quello contenuto in queste pagine, segnato da slanci conoscitivi, momentanei arretramenti e cadute lungo la Via, così come da illuminazioni improvvise. Alcune immagini evocate dalla parola di Toti, ci hanno riportato al climax della lirica michelstaedteriana, segnata dalla delusa tensione alla Persuasione che si evince, tra le altre composizioni del goriziono, in Itti e Xenia. L’animo di Toti è funestato: «dallo sciabordio di quest’onda […] E all’incorrotto cielo/sale umbratile pianto.» (p. 14). La dimensione desiderativa, la “brama” di vivere, sono esperiti quali impedimenti al dis-velarsi del Reale, cui egli mira oltre la dimensione meramente rappresentativa del mondo: è il fondo, l’Abisso da cui tutto si dischiude e si mostra.
Le cose, viste, distinte, determinate nell’approccio logocentrico, concettuale, sono: «il mal dissimulato empito:/È la nemesi D’un Tempo indimenticato» (p. 19). Tale realtà sta oltre il velo dell’apparenza, in quanto siamo ingannati da “illusioni ferali” : «Brama e terrore/Di vivere/Che occulta la vita/Come mendace manna.» (p. 21). L’enigma, il mistero che avvolge la vita, si fa ascoltare nei versi di Toti e, al suo confronto, non si può che sospendere il giudizio: «Forse del divenire/È l’essere il senso/Profondo?/Io vago,/Errabondo» (p. 23). Il dubbio, di fronte agli insistiti tentativi di “conoscere”, pare assalire l’autore: «O forse,/Quel che scorsi,/Tremolante/ per onirici veli,/Era niente?» (p. 27). Se così fosse, si tratterebbe di quella “pienezza” nientificante, di cui hanno detto i mistici, di cui ebbe contezza Eckhart. La lirica di Toti è, infatti, pervasa da afflati mistici, vissuti con speranza, ma anche, com’è naturale, pervasi da estrema incertezza: «La verità mi sfugge […] Navigare/È fuggire/È naufragare» (p. 29). Il senso ultimo della queste totiana, si appalesa in questi versi: «Appare/Nel crepuscolo/L’indistinto […] Lo prendo/Come un cesellato dono/dell’arte superba/D’un Artista/Che non conosco ma amo.» (p. 31). Essi suggellano il tratto unitivo di un sapere nesciente, sofia che si nutre: «Del vuoto di Te, Amore immortale» (p. 35) colmante, definitivamente persuasivo. Un’esperienza palpitante è quella che Toti trascrive sulla pagina. La sua poetica sottrae la parola, il dire, al linguaggio denotativo, convenzionale. Essa si metamorfizza in icona, immagine possibile della Parola.
Anche la poesia di Francesco Innella è sostanziata da tensione lirica alla liberazione. Lo si evince dalla sua ultima silloge compositiva, Kimera. Poesie dell’Io (pp. 54, edita da Amazon). Egli, con il filosofo Andrea Emo, una cui citazione è l’incipit della silloge, ha contezza che poeta è uomo assiso sulle rive del fiume della vita: egli spera di trarre dalle acque fulgenti, spesso deludenti dell’esistenza, immagini guizzanti, testimonianti la presenza, nei molti, del medesimo, dell’origine. Immagini, non idee: solo le prime alludono al tratto negativo dell’Uno, al ni-ente originario, fuggevoli e iconoclaste proprio quanto lo è il principio. Per questo, Innella è consapevole che solo: «Un giorno/le nostre egoità/tramonteranno nell’Eterno » (p. 7), nel quale l’Io, con le sue effimere certezze, si annienta. Come rileva in postfazione Davide Morelli, la poesia di Innella è trascrizione di contesa interiore, in forza della quale l’autore ha superato la propria “notte dell’anima”, rivoltando l’inconscio in conscio.
In questi versi, a trovar voce e, prima ancora, ascolto, sono “antiche presenze”, immagini archetipali che rendono l’iter vitale, con i suoi inciampi, delusioni e rare riuscite, cammino in direzione della consapevolezza. A tanto, possono bastare le semplici cose della vita, la bellezza baluginante nella natura e, ancor più, i ricordi: «A vent’anni/il mio desiderio/si spegneva/sul corpo di una donna,/mente il sole/tramontava indifferente/sulla mia inquietudine» (p. 33). Dall’inquietudo e dallo smarrimento della coscienza, in processo anagogico, la parola poetica conduce Innella in faccia all’abisso della vita: «Abitiamo nel profondo mistero/dell’assenza, pozzo in cui/ si infrangono coscienze» (p. 28). Anche per lui, come per Toti, la dimensione desiderativa tende a ridurre la realtà umana, al dato puramente esistenziale. Chi senta in sé, prorompente, il bisogno della consistenza, prende atto che: «Difficile è far comprendere/un verso che salta alla gola/in un meriggio d’angoscia/ad un cuore imputridito di vita» (p. 25). Memore del monito agostiniano: «Guarda in te stesso!», il nostro autore, poetando, persegue la Via interiore: «La via interiore/si dipana/in una discesa dolce/e nel mistico silenzio/l’ego si appanna/e tace» (p. 19). Nei versi della poesia Il dolore, egli insegna che solo liberandoci del peso in eccesso del nostro Io, come fanno le piante in autunno con le foglie: «la libertà avrebbe/il sopravvento/sul nostro dolore» (p. 45).
La libertà: ecco infine riconquista, al termine del percorso, l’origine, il principio infondato della nostra vita. L’Io è ormai alle spalle, ricordo obliato, trasfigurato nel Sé. Scoperta rasserenante e luminosa.
Giovanni Sessa