Ernesto De Martino: Tarantismo, Sud e Magia – Valentina Ferranti
Nacque a Napoli, fucina inestimabile per un ricercatore. E tale fu, nel senso più appropriato l’etnologo Ernesto De Martino. Siamo nel mezzogiorno quindi, luogo senza confini che dalla Campania fertile abbraccia l’estremo sud in odore di Magna Grecia. Regione unica deprivata dalle politiche dell’unificazione d’Italia/conquista coatta, di ricchezze economiche e relegato ai margini dei giochi culturali. Un senso di presunzione-superiorità ha infangatole terre del sole costringendole ad una marginalità che è solo dolo e forze di potere. Ernesto De Martino decise di ridare voce a quei luoghi e lo fece da una base solida, ovvero partendo dalla dimensione “storica”. In questo seguì il pensiero crociano. Come per Benedetto Croce, così anche per l’etnologo, ridurre l’esperienza umana ad una indagine di tipo scientifico (pseudo-conoscenze impregnate di utilitarismo e mera applicazione per Croce), precludeva la vera conoscenza che è esclusivamente storica. Ben presto E. De Martino si allontanò dalle idee del pensatore abruzzese – partendo comunque dallo storicismo crociano – per la sua attività futura, poiché Croce negava alle “plebi”, ai così detti “primitivi”, un qualsivoglia ruolo attivo nella storia. Complice la vicinanza con il pensiero di Antonio Gramsci, De Martino ridiedeparola al vulgo e all’aspetto sociale dei fenomeni culturali. Il suo sguardo antropologico fu scevro da pregiudizi autocratici,fino a smantellare il concetto di ‘mentalità primitiva’ e/o subalterna nella prospettiva certa che vi era dinnanzi a lui una umanità doppiamente distante la cui esperienza di vita non poteva essere compresa poiché marginalizzata. Sancì quindi l’irruzione nella storia delle masse prive di storia. Lo fece come fine ricercatore là dove il suo sguardo di antropologo cercò e riuscì a strappare dall’oblio il mondo magico del sud; la religiosità popolare che non trovava spazio dopo l’agguato del cattolicesimo e il depauperamento da parte della cultura predominante.
Forte di questo quadro che escludeva le masse dalla storia, in senso crociano, e che non considerava il ‘magismo popolare’ come fatto incisivo nell’ottica di una analisi autentica di costruzione del mondo delle classi non dominanti, E. De Martino estese e accolse il binomio gramsciano: culture egemoniche e culture subalterne (si rivedano gli studi di A.M.Cirese) e lo estese oltre che ai rapporti di classe a quelli tra culture. De Martino non fondò mai una scuola, ma possiamo dire che diede vita all’antropologia meridionalista che superò Croce, Gramsci e l’ideologia marxista per divenire il punto di partenza altissimo per l’etnocentrismo critico, dinamico, esterno o interno alla propria cultura di appartenenza. Una sorta di umanesimo etnografico attento all’errore di base insito alla nascita della scienza antropologica, per cui si innalzava la propria cultura a base di riferimento per analizzare le altre, o quelle differenti posizioni culturali subalterne innestate in quella dominante. Tenne inoltre a sottolineare come l’incontro tra l’etnologo e il soggetto dell’inchiesta non è mai neutro. Lo studioso ha il vizio di interpretare la cultura ‘altra’ in base alla propria griglia interpretativa e attraverso i propri pregiudizi culturali. Per questo ci riferiremo a Ernesto De Martino come al padre dell’etnocentrismo critico. Premessa doverosa poiché fu il primo che diede lustro al sapere magico ridando storia al mondo magico e voce alle ‘plebi’ subalterne che ancora ne erano custodi. Individuò così una differente costruzione di quelle realtà e ristabilì la veridicità insita nel mondo magico. Superò con tale convinzione lo sguardo evoluzionista che vedeva nelle forme di rappresentazione magica un vizio d’irrazionalità. I poteri magici sono reali poiché efficaci. De Martino analizza inoltre il dramma storico del mondo magico-contadino che stava perdendo forza risucchiato da una acculturazione lineare e spietata. Diremmo che lui ha offerto una convincente spiegazione sulla ‘ineliminabilità’ di quel mondo e di ogni suo aspetto.
La storia di cui parla Ernesto De Martino sta quindi nel rapporto tra precarietà dell’esistenza, ordine e disordine di una data comunità che lotta per la sua sopravvivenza avvalendosi di risorse altre. La saldatura tra magia e storia/microstoria è così attuata e la continuativa dialettica tra l’alternativa entro irrazionalità e razionalità perde di senso e giudizio, così come l’acuta osservazione dell’accordo tra magia e forme egemoniche di vita religiosa evidenti nel cattolicesimo popolare. Viene così superata, a personale avviso, anche la tendenziosa valutazione su ciò che è superstizione e ciò che non lo è. Non vi è in questo il rischio di un relativismo culturale poiché siamo nell’ambito del superamento del giudizio etnocentrismo. Questo aspetto è evidente nelle magistrali opere di De Martino che ci restituisce, grazie ad una attenta etnografia, fenomeni ‘religiosi’ minori prevalentemente contadini ed un tempo appartenenti anche alla cultura egemonica. Forse per questo uno dei suoi testi più importanti titola La terra del rimorso. Il Sud tra religione e magia. Terra del rimorso è l’Italia meridionale, le campagne del Regno di Napoli. Siamo in quella che un tempo era Magna Grecia e De Martino, negli anni del dopoguerra, giunge in Salento. Sua intenzione analizzare il fenomeno del tarantismo. Un’equipe di ricercatori parte da Roma. Un musicologo, uno psichiatra, uno psicologo, un medico per valutare l’ipotesi del tarantismo come malattia. È il 1959. Destinazione Galatina, festa di San Pietro e Paolo. Le ricerche hanno ora inizio sul campo e si basano su un presupposto: l’esigenza di un’analisi storico-culturale e non della riduzione del fenomeno ad una forma di aracnidismo o ad un semplice disordine psichico.
Tutto andava valutato anche il fatto che il tarantato sfuggiva ad una definizione nosologica. Scriviamo ‘sfuggiva’ perché il fenomeno è ormai estinto. Ne resta un simulacro spoglio, ovvero un concerto musicale, un ballo scalmanato… una reinvenzione della tradizione che simula non vive. E sono sempre le donne ad esserne protagoniste allora come ora. Sono loro le più ‘morsicate’ dal ritmo e dal ragno. Le due cose coincidono poiché la musica era centrale in alcuni momenti del rito. Ad ogni malessere una cura. Non quindi una malattia vera e propria data dalla puntura velenosa della taranta e neanche il tarantismo come malattia psichiatrica. Prime conclusioni per De Martino che notò come, durante la festa di San Pietro e Paolo a Galatina, giungevano tarantati da tutto il Salento mentre nel comune stesso le persone erano immuni al pizzico. Lì e nelle campagne limitrofe vigeva una limitazione sacra. Galatina era liberadal tarantismo! In via Garibaldi, era sita la chiesa di San Paolo. Negli Atti degli Apostoli (28;1-6) si narra di come il Santo, morso alla mano da una vipera nell’isola di Malta, restò immune al veleno. Nel Salento, e come in tutto il Sud Italia, molti guaritori venivano chiamati Sanpaolari poiché curavano dai morsi velenosi. Un condizionamento religioso, una bolla sacra e la cappella dedicata all’apostolo come luogo di guarigione. Ma da quale malessere? Le genti del posto dicevano di essere state pizzicate dal ragno e ciò avveniva ciclicamente, come uno scherma rituale: durante i primi caldi, nel periodo del raccolto e quindi all’approssimarsi temporale della festa di San Pietro e Paolo. Dopo tale periodo il fenomeno si diradava. Altro dato già evidenziato, le morsicate erano prevalentemente donne. Tutto ciò porta ad una interpretazione simbolica del tarantismo in cui gli uomini facevano da cornice per esorcizzare, attraverso la musica, l’avvelenamento simbolico. Il morso, il veleno, la guarigione fanno parte di un orizzonte mitico-rituale culturalmente condizionato in cui la crisi trova sfogo ed è accettata dalla comunità poiché all’interno di precise norme condivise e controllate proprio dallo spazio protetto del rito. La crisi nevrotica delle tarantate è culturalmente modellata ed è corale. L’intera comunità partecipava ed il ragno permetteva tale crisi, anzi diveniva colui che portava alla luce le oscure pulsioni dell’inconscio che avrebbero condotto alla pazzia se non disciplinate da uno spazio ritualmente protetto. Taranta quindi, lycosa tarantula, dalle abitudini sotterranee e notturne. Si accoppia durante la stagione calda, momento in cui depone le uova. I piccoli, avvolti nel bozzolo escono nel pieno dell’estate… Nell’immaginario collettivo l’aracnide diviene un mostrum mitico simbolicamente plasmato poiché da un punto di vista tossicologico il suo morso provocherebbe solo una reazione locale e non un avvelenamento atto a giustificare la crisi fisico-emotiva delle pizzicate. Le donne iniziavano ad avvertire malessere, a muovere il corpo come fossero il ragno stesso. Corpo tabuizzato del femminile, disciplinato e senza parola. Ecco che la taranta dava voce a quei corpi liberandoli dalla sofferenza. Le tarantate potevano pubblicamente mostrare il disordine, mimando i movimenti del ragno e l’atto sessuale, senza esserne giudicate. Iniziava quindi una danza scomposta che si ballava assieme al ragno, diventando il ragno stesso. Le donne si muovevano come lui che saltava – tarantella – ma non erano sole durante la possessione-trance, tutta la comunità partecipava proteggendo i corpi e cingendoli. Un rito sociale, un esorcismo riordinatore chiuso in un cerchio, mentre la musica incalzante provocava la crisi estrema affinché la cura leliberasse. (Il primo documento che narra del rapporto tra taranta, danza, musica e tarantato è il Sertum papale de venenis composto nel 1362 da Guglielmo di Marra di Padova).
La crisi non esplodeva mai assumendo caratteri antisociali, non sarà mai crisi individuale anche negli esorcismi richiesti nelle case. I conflitti emotivi e culturalmente orientati trovarono così nel tarantismo il loro ordine simbolico. Orizzonte che svanì proprio quando De Martino ne raccolse le ultime immagini attorno alla cappella di San Paolo. Il simbolismo cristiano assorbì il tarantismo rendendo quei corpi disciplinati e l’esorcismo musicale restò fuori dalla chiesa. De Martino notò, assieme alla sua équipe che alcuni tarantati accennavano a passi di danza all’interno della cappella come se si aggrappassero per qualche istante a rottami di un naufragio affiorati sulle onde di un oceano tempestoso, e poi perdessero la presa, ma l’impossibilità sfociava solo o molto spesso in atteggiamenti di depressione ansiosa. Una serie di crisi continue e senza soluzione. Il tarantismo aveva perso ogni dignità culturale dopo che la cappella di San Paolo aveva inglobato e annullato l’efficacia simbolica dell’esorcismo musicale. La cura all’interno della chiesetta smarrisce il filo originario, l’essenza. Una lenta agonia che come osservò l’etnologo aveva avuto inizio almeno due secoli prima. Molto similmente all’indemoniato che viene incalzato dalle parole dell’esorcista, con i musicisti iniziava il vero rito di sanazione. Ritmo pressante modulato sui movimenti dei corpi caotici. Per questo molti autori scrissero che la tarantella risanava ed i suonatori erano esorcisti-medici-artisti. Questa risoluzione portava ordine a livello personale e sociale poiché permetteva di canalizzare i conflitti, i momenti critici dell’esistenza, le pressioni sociali e l’eros precluso dal costume. Ripetiamo: erano soprattutto le donne ad essere pizzicate. La loro danza era sfogo e liberazione dalle pulsioni represse. Molte si denudavano e simulavano amplessi in uno stato alterato di coscienza indotto dal ritmo. Una pazzia vigilata all’interno del rituale coreutico-musicale. L’espansione del cristianesimo aveva segnato, in quelle terre, la dissoluzione dei culti orgiastici, del menadismo, imponendosi come giudice assolutista dei corpi e bandendo il caos creativo in favore del mutismo corporeo. Le donne furono le più colpite, poiché, non dobbiamo scordarlo, il tarantismo si era costituito sulle rovine dei culti orgiastici e di quelli misterici. Inoltre il femminile, nelle storie sacre, ha sempre avuto un legame con il ragno. Ne è complice, assimilabile. Ogni dea e ogni donna tesse una tela. Tutte sono quindi tessitrici, tale atto simbolico le accomuna. Sono creatrici della tela o vittime intrappolate che necessitano di una crisi per liberarsi. Inoltre con l’avvento del cristianesimo, in un lungo processo di acculturazione coatta, la musica perse di senso proprio perché rendeva quei corpi vivi. L’immagine della menade, trasmessaci dalla tragedia greca e dall’iconografia, nonché dalle storie sacre, veniva respinta dall’ordine della religione dominante. Insieme all’immagine veniva ucciso un modello di comportamento. I capelli sciolti, la danza frenetica, la sessualità esplicita vennero poste sotto tutela del velo paolino che copriva – non solo in chiesa – ogni donna, sigillando la bocca e gli organi genitali. Grazie al morso della complice taranta, creatura reale e mitologica, la tarantata diveniva il ragno stesso, il suo doppio. Si danzava con la parte liminale, oscura, notturna e libera del proprio essere. Un caos che ridiveniva ordine quando la taranta stessa che aveva provocato il morso, moriva. Ovviamente non se ne aveva la prova concreta bensì quella funzionale: la guarigione. Stato del corpo e dello spirito che poteva essere perenne o momentaneo.
De Martino individua il meccanismo simbolico del ri-morso stagionale. Un vero e proprio ordine rituale quindi ed una testimonianza, tra le tante, da lui raccolta ridà voce a Matilde di Cutrofiano, «una vecchietta di 76 anni, nubile e devota alle “cose di Dio”, tarantata da ben 60 anni. Matilde era stata pizzicata a 16 anni, e il primo morso restava avvolto nelle nebbie della memoria: le pareva di ricordarsi di aver patito il primo morso mentre era inginocchiata in preghiera, ma ricordava anche una passeggiata in campagna, compiuta nella sua giovinezza, e un ragno “giallo e grosso” che sarebbe stato il responsabile di tutta la vicenda successiva. Da allora Matilde, ad ogni estate, fu di nuovo morsa e rimorsa dai ragni. Li vedeva, sentiva il loro pizzico, li chiamava per nome (Rosina, Maria Antonietta) e rispondeva al loro richiamo (…). Ogni anno, all’approssimarsi della festa di Galatina, i ragni facevano la loro comparsa e si sentiva “lesa” ed era stimolata al ballo. Finché fu giovane e suo padre vivo, furono sempre mandati a chiamare i suoni per farla ballare; ma poi rimasta sola al mondo, aveva a poco a poco fatto a meno dei suoni, limitandosi a danzare e cantando vecchie canzoni campagnuole, o anche canti religiosi, e a battere di tanto in tanto il tempo sul tavolo. Ogni anno, dopo la crisi e il ballo, Matilde percorreva a piedi e con passo leggero i pochi chilometri che separano Cutrofiano da Galatina, e si recava in cappella a ringraziare il Santo che la aiutava a combattere i suoi implacabili ragni».
Matilda, Carmela, Rita e tante altre testimonianze furono raccolte da De Martino che vide nel fenomeno la risoluzione di una crisi della presenza a sé stessi e alla comunità d’appartenenza. Per ‘presenza’ si intende l’essere inseriti in un rapporto indissolubile con il proprio mondo culturale. Se tale legame viene meno avremmo una ‘crisi della presenza’ come minaccia costante della comunità e del singolo. Per tale motivo attraverso un apparato rituale-festivo veniva reintegrata e consolidata l’appartenenza al proprio orizzonte culturale. Senza di esso c’è la follia, lo sradicamento, il caos senza semi germinativi! Senza di essa non c’è possibilità di cura poiché l’efficacia simbolica, di cui scriveva Lévi Strauss, non sussiste se non attraverso i parametri di riferimenti della propria cultura. Il canto, la danza, la comunicazione con la taranta agiscono simbolicamente sul corpo della donna nonché sul suo stato emotivo ristabilendo la sua presenza a sé stessa e alla comunità. Una sanazione, un esserci nella storia e nel mondo che De Martino restituisce al mondo magico.
Del tarantismo, ad oggi, ne restano solo singulti morsicati fino all’ultima nota dai dettami dello spettacolo. Parleremo quindi, per usare un neologismo, di neotarantismo ma senza investire il fenomeno di autorevolezza storico-culturale. Questo richiamo alla ormai conosciuta e recente ‘Notte della Taranta’– ideata su iniziativa di un consorzio di comuni nel 1997 – si innesta in quei movimenti che ricercano nella voglia di etnico a buon mercato: musica, cibo e approssimarsi alle tradizioni locali svuotate completamente dell’orizzonte simbolico. Una forma consumistica senza radici. Ne resta una ricostruzione che ritrova nel ritmo incalzante del suono l’antico collegamento. Musica e danza sono strumenti terapeutici in ogni cultura umana. Ma mentre la folla si muove festosa, non ricorda il motivo o lo confonde. Una reinvenzione-adattamento all’interno del contenitore turistico. Nonostante questo, in base a recenti studi antropologici, i giovani partecipanti al La Notte della Taranta affermano che ballare la pizzica li libera e molti hanno usato il termine trance per descrivere il loro stato emotivo. Antiche memorie forse, che ricordano l’originario rito liberatorio. La crisi della presenza è in atto.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
- De Martino E. Sud e magia, Feltrinelli, 2004;
- De Martino E. La terra del rimorso. Il Sud tra religione e magia, Il Saggiatore, 1961;
- De Martino E. (a cura di) Magia e civiltà, 1995;
- Fabietti U. Storia dell’antropologia, Zanichelli Editore, 2000;
- Nacci A. (a cura di) Tarantismo e Neotarantismo, Besa Editrice.
Valentina Ferranti