
Elogio di Epicuro – Filippo Mercuri
La nostra epoca è segnata una vistosa anomalia rispetto a tutte quelle della nostra Storia perché risulta la prima era che non vuole lasciare nulla in eredità, sostanziando essa un mondo sempre più disconnesso dalle dimensioni del passato e del futuro e quindi da quei valori di grandezza e di fertilità che da sempre hanno motivato le pulsioni più genuine e primordiali dell’uomo. L’“era senza eredi”, per usare un’efficace espressione di Marcello Veneziani, è anche la prima era che non ritiene necessario fare riferimento alcuno ai grandi maestri della Tradizione1. Proprio per questo motivo si è deciso di impiegare il presente spazio per proporre la personalità di Epicuro come punto di riferimento per reagire contro la decadenza e superarla. Il filosofo di Samo è noto per essere stato il fondatore della scuola ellenistica del Giardino, nella quale l’allievo era motivato a raggiungere la felicità (εὐδαιμονία, lett. ‘l’essere tutelato da un buon dèmone’, risultando quest’ultimo come quell’entità numinosa che presiede la luce divina che alberga in ciascuno di noi), attraverso il piacere (ἡδονή) e a scoprire l’importanza dell’amicizia (φιλία), dunque del vivere all’insegna del benessere e della fertilità (è questo il significato della felicitas latina); tutti valori ispirati dall’atarassia (ἀταραξία), l’assenza di turbamento, la condizione tipica del saggio che “non si rivolge agli dèi per placarli o ottenerne qualche grazia, ma per unirsi a loro per mezzo della contemplazione, rallegrarsi della loro gioia, e assaporare così anche lui, in questa vita mortale, la loro beatitudine infinita”2. Del resto – insegna Julius Evola – “ciò che solo conta è questo: noi oggi ci troviamo in mezzo ad un mondo di rovine. E il problema da porsi è: esistono ancora uomini in piedi in mezzo a queste rovine? E che cosa debbono, che cosa possono essi ancora fare?”3.
Fu proprio il filosofo romano che ebbe il merito di occuparsi di Epicuro, accostandolo per certi versi alla figura del Buddha, e salvarlo così dallo zelo con il quale i suoi critici vollero snaturarne la dottrina interpretandola come “un sinonimo di materialismo, ateismo e glorificazione del piacere”4. Scrive ancora Evola: “Epicuro negò solamente gli dèi della religione popolare, gli dèi che si mescolerebbero al corso del mondo, che si invocano per le piccole miserie umane e che sono usati come spauracchio per le anime deboli. Egli invece li ammise in sede etica e, a dir vero, seguendo la più alta concezione ‘olimpica’ greca del divino: come delle essenze distaccate e perfette, esenti da passioni, che al saggio debbono valere come supremo ideale”5. Allo zelo dei critici è da attribuire un notevole ruolo nella sparizione delle opere di Epicuro che, secondo Diogene Laerzio (X, 17), comprendevano almeno 300 volumi, tra cui Sulla natura delle cose in 37 libri, l’opera che ispirò il nobile spirito di Lucrezio nel redigere uno dei più straordinari poemi della letteratura latina, il De rerum natura. Dell’immensa produzione epicurea sono giunte a noi la raccolta di 40 sentenze intitolata Massime capitali, alcuni frammenti e tre lettere: A Erodoto, sulla fisica; A Pitocle, sui fenomeni celesti; A Meneceo (il figlio di Epicuro), sulla felicità e sul modo di vivere6.
Epicuro nacque nel 341 a.e.v. sull’isola di Samo dal maestro di scuola Neocle, che traeva il suo piccolo reddito dal possesso di un campo perché all’epoca il mestiere di maestro veniva equiparato al lavoro che solitamente veniva svolto da schiavi specializzati e godeva dunque di scarsa reputazione e stima, e da Cherestrate, una donna amabile e caritatevole7. Ebbe tre fratelli, Neocle, Cheredemo e Aristobulo, i quali sarebbero presto entrati nella sua scuola, il Giardino, che prese questo nome dal piccolo spazio verde recintato adiacente alla casa di collina che Epicuro riuscì ad acquistare una volta che sarebbe ritornato ad Atene nel 306, dove sarebbe morto nel 270, trovando la pace dell’anima. Il giovane Epicuro assistette alle lezioni del platonico Panfilo, del padre Neocle e del democriteo Nausifane, il quale si era nutrito a sua volta dello scetticismo di Pirrone. Epicuro, pur essendo nato a Samo, era a tutti gli effetti un cittadino di Atene, perché figlio di un ateniese che, stabilitosi a Samo, era divenuto membro di una cleruchìa, ovvero di una colonia militare. Fu così che Epicuro, compiuti i diciotto anni nel 323, fu chiamato a prestare il servizio delle armi di durata biennale previsto dall’istituzione dell’efebia. Il 323 è anche l’anno della morte di Alessandro Magno, il quale era riuscito a creare un vasto impero che univa la Grecia alla Cina, inaugurando così l’epoca dell’ellenismo. Questa florida stagione culturale comportò tuttavia una profonda crisi nella concezione del mondo e del sacro tipica della Grecia classica imperniata sulle poleis, le città-stato, una civiltà caratterizzata, come del resto tutte le civiltà indoeuropee, da una Weltanschauung che non disgiungeva le due sfere del sacro e del profano8.
“Nel IV secolo a.e.v. il mito antico cominciò a perdere quell’originaria vivacità che fino a poco tempo prima caratterizzava ancora le ultime opere di Euripide. Con il dissolvimento del mito, anche gli dèi si allontanarono dall’uomo. Tutte le religioni parlano di questo mutamento di rapporto avvenuto tra uomini e dèi; presso i Greci, tuttavia, esso sembra essersi manifestato in modo più geniale che in tutti gli altri luoghi; […] Se per alcuni gli dèi sembrano scomparire del tutto – solo pochi eletti continuano a sperare e ad attendere il loro ritorno – mentre i più ritengono che essi non siano mai esititi, per i greci gli antichi dèi furono innalzati a un nuovo splendore. Un nuovo mito illustrò la loro esistenza e un nuovo culto permise che, nonostante la distanza, gli uomini potessero pur sempre partecipare del divino. Infatti gli antichi ed eterni dèi, quelli cantati da Omero in età arcaica continuarono ad esistere. Come un tempo erano stati gli dèi degli eroi – per esempio Atena dea di Achille ecc. – così essi divennero le idee somme e i modelli divini per l’uomo, e tali rimasero. […] Ebbene, in età ellenistica, nel tempo in cui furono realizzate le sacre immagini olimpiche, visse l’uomo che seppe parlare di questi dèi splendenti, e che uomini superiori avrebbero venerato quale liberatore e salvatore: Epicuro”9.
Trascorso il periodo di servizio e giunto il 322, Epicuro non poté rientrare a Samo perché suo padre fu costretto a rifugiarsi a Colofone in seguito ai provvedimenti presi da Perdicca, divenuto reggente dopo la morte di Alessandro, contro gli Ateniesi dell’isola. Epicuro visse in esilio insieme ai suoi fratelli, attanagliato da un’estrema povertà, fino all’età di trentun’anni, la qual cosa gli impedì di accudire i suoi genitori divenuti anziani e di pagare un filosofo rinomato per garantire la sua formazione. Epicuro dovette “vivere da solo, armarsi da solo per le lotte della vita e per la conquista della sapienza. A differenza di Platone, di Aristotele e di tutti quei giovani fortunati che nel corso del IV secolo si erano raggruppati nell’Accademia, nel Liceo o intorno a Isocrate, Epicuro è un uomo «che si è fatto da sé». Se si pensa che era dotato della più viva e più delicata sensibilità, come attestano ancora le sue lettere; se si rammenta che fu afflitto da gravi malattie (rigettava due volte al giorno); e che, povero e di salute mediocre, dovette presto imporsi un regime frugalissimo, ci si spiega allora in gran parte sia la forza della sua personalità (poiché un uomo ha tanto maggior potere sugli altri, quanto più ha dovuto, sin dalla primissima giovinezza, padroneggiare la sventura), sia l’impronta tanto particolare della sua dottrina morale”10.
“La sua visione fu così elevata perché la vita, con le sue sofferenze e passioni, fu per lui trasfigurazione. Sì, quasi paradossalmente, il suo radicale materialismo gli consentì di liberarsi di tutto ciò che ottenebrava il suo sguardo. Con malevolo fraintendimento, nella dottrina della ἡδονή, della gioia e della salute, si è letta l’empia apologia di godimenti grossolani scambiati per il sommo bene, anche se dagli scritti di Epicuro, dal suo comportamento e da quello dei suoi discepoli risulta che il suo scopo non era solo il raggiungimento del piacere e della salute del corpo, ma anche quello della tranquillità dell’anima, della liberazione delle false immagini generanti confusione e angoscia attraverso l’attento esame della realtà e di ciò che è davvero salutare e terapeutico”11.
Epicuro è il filosofo che insegna il valore della vera libertà, che consiste nell’autosufficienza (αὐτάρκεια), il bastare a sé stessi, quel “ti sia lecito di fare ciò da cui sai che, se vuoi, puoi astenerti” di evoliana memoria. Sul tema torna utile ancora una volta la lettura di Walter Otto: “come non è di un comportamento indipendente lasciarsi dominare dalle passioni dei sensi, così è mancanza di libertà condannare il corpo e l’intero mondo sensibile cercando la salvezza nell’assoluta separazione dell’anima dalla materia. […] Anche Goethe avrebbe inteso materia e spirito, corpo e anima, pensiero ed estensione come i “duplici elementi” [Doppelingredienzien] degli esseri, elementi che non solo esigono uguale considerazione, ma che rinviano entrambi a Dio come al loro comune fondamento. In modo analogo pensava Epicuro. Si trattava per lui di ascoltare la pura voce della natura, come essa concretamente operi e consenta di distinguere, sia sul piano materiale e spirituale, i bisogni superflui, i desideri e le speranze impossibili, di sorridere delle vanità, della sete di possesso, della volontà di potere, e di disporsi, quindi, con grande saggezza, a quel vivere autosufficiente che è la libertà, il fine più alto, quello da cui non solo scaturiscono i desideri naturali, ma che dona, nei limiti del possibile, il più intenso sentire”12.
È così, dunque, che Epicuro pensò e costituì all’interno del suo Giardino, “la prima società degli amici”, nella quale il nome di amico “valeva a designare un rapporto etico e un comportamento liberamente scelto da uomini che si riconoscessero pari sulla base del loro essere individuale e della comune condizione umana”13. Affinché questo principio potesse manifestarsi nell’essenza dello stesso Stato, Epicuro consigliò ai suoi discepoli di “trarsi in disparte, lungi da ogni ambizione e da ogni gara, e contentarsi del poco”14, un precetto che suona in greco come Λάθε βιώσας (“vivi nascostamente”). Quesoa motto non è da interpretare come un invito alla vita eremitica, quanto piuttosto come uno sprono a “sapersi formare intimamente con un’attività libera, senza le agitazioni dello sperare o del temere”15 allontanando perciò dal proprio Sé quel dolore che suscita la vuota politica. Significa perciò parlare chiaro e netto con se stessi, guardando dentro lo specchio di Dioniso, e osservare la nostra anima nella pura e crudele cristallinità, perché il bisogno di motivare la scaturigine del sacro è insito nella nostra stessa personalità, come ci insegna anche Friedrich Nietzsche: “Qui però sei con te stesso, e a casa tua; qui puoi discorrere liberamente tra te e te, sciogliendoti e sciorinando tutti i tuoi argomenti; ché non v’è alcun pudore di sentimenti segreti e incalliti”16. La prospettiva di Epicuro contro la decadenza è dunque quella della grande disintegrazione, perciò quella del grande risveglio, che conferisce all’uomo ispirato dalla perfezione dell’Olimpo la superiorità rispetto alle potenze della natura, riconducibili alle ipostasi dei Titani, le divinità arcaiche e orientali17.
Note:
- Marcello Veneziani, Senza eredi. Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella, Marsilio Nodi, Venezia 2024.
- André-Jean Festugière, Epicuro e i suoi dèi, Castelvecchi, Roma 2015, p. 63.
- Julius Evola, Orientamenti – undici punti, a cura di Franco Freda, Edizioni di Ar, Padova 2000, p. 18.
- Julius Evola, Il doppio volto dell’epicureismo, in Ricognizioni, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, p. 133.
- Julius Evola, Epicuro, un calunniato, «Roma», 23 gennaio 1958, in Id., I testi del Roma, Edizioni di Ar, Padova 2008, pp. 353-355.
- Jean Brun, Epicuro, Xenia Tascabili, Milano 1996, pp. 1-2.
- Per quanto concerne la vita di Epicuro si è fatto riferimento ai seguenti volumi: Goffredo Coppola, Vita di Epicuro, Garzanti, Milano 1942; Jean Brun, Epicuro, Xenia Tascabili, Milano 1996; André-Jean Festugière, Epicuro e i suoi dèi, Castelvecchi, Roma 2015.
- Sul tema, si legga l’emozionante Mircea Eliade, Il sacro e il profano (I Grandi Pensatori, 62), Bollati Boringhieri, Torino 2013.
- Walter Otto, Epicuro, a cura di Carla Marcella Tenti-Monti, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2001, pp. 86-90.
- André-Jean Festugière, cit., pp. 30-31.
- Walter Otto, cit., p. 90.
- Ivi cit., p. 80.
- Carlo Diano, La filosofia del piacere e la società degli amici, in Epicuro, Scritti morali, introduzione e traduzione di Carlo Diano, edizione a cura di Giuseppe Serra, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1987, p. 7.
- Ivi cit., p. 19.
- Julius Evola, Maschera e Volto dello Spiritualismo Contemporaneo, Edizioni Mediterranee, Roma 1990, pp. 216-217.
- Friedrich Nietzsche, Il Rimpatrio, in Queste le parole di Zarathustra, Edizioni di Ar, Padova 2011, p. 319.
- J. Evola, Maschera e Volto, op. cit., p. 20, nota 1.
Filippo Mercuri