Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
E. Cornelio Agrippa e la Tradizione Ermetica – Federico D’Andrea
Il nome di Enrico Cornelio Agrippa (1486–1535) , per chi si avvicina alla Tradizione Magica ed Ermetica, è solitamente associato a quanto è stato diffuso su di lui dalle leggende popolari. Secondo queste leggende, Agrippa era un mago famoso, molto esperto nell’evocare i morti, nello scongiurare i demoni, nell’ammaliare e fare “legature”. Dal grosso pubblico è conosciuta un’opera, ricettario di pratiche magiche, dal titolo inquietante “Il libro del Comando, ovvero l’arte di evocare gli spiriti, di Cornelio Agrippa” ed un’altra falsamente a lui attribuita “Zibaldone magico dei misteri della bacchetta del comando”. Attorno a lui si formò dunque la fama di stregone, mentre era ancora in vita, e fu questo che generò una fioritura di dicerie e di scritti apocrifi a lui attribuiti. Non è perciò da meravigliarsi se molti seri studiosi della Tradizione Ermetica rifuggano le opere di Agrippa. Ma Kremmerz scrive in “La Porta Ermetica” – “La Scienza dei Magi” – II Volume – Ed. Mediterranee – p. 244: “Io mi sono domandato tante volte perché persone erudite e intelligentissime hanno guardato tutti i segni che stanno nelle opere di Cornelio Agrippa come delle sciocchezze grafiche che non hanno nessun valore. […] E se un valore l’avessero e grande?” Sembra che Kremmerz tenesse in considerazione gli scritti di Agrippa: tanto da riportare agli inizi de “I Misteri della Taumaturgia” (La Scienza dei Magi – cit. – I Vol. p. 265 e 266) le ‘Cifre’ di Marte, come le aveva esposte Agrippa stesso. Ma non solo. Giordano Bruno nelle sue Opere Magiche, in particolare nel “De Magia Mathematica” e “De Magia naturali” ed anche nel “De Umbris Idearum”, si rifà in modo evidente all’opera fondamentale di Agrippa “De Occulta Philosophia”.
Può essere allora utile intraprendere uno studio più approfondito dell’opera di Agrippa, per estrarre da essa il suo pensiero, scevro da immaginazioni fantasiose e leggendarie, in quanto da esso si possono acquisire stimoli per il lavoro ermetico da praticare. Egli sottopone la sua opera fondamentale “De Occulta Philosophia” al giudizio del famoso abate Tritemio, benedettino, già abate di Spanheim, che egli aveva conosciuto all’abbazia di Wurtzburg, intrattenendosi con lui su temi di Scienza Ermetica. Agrippa in una lettera a Tritemio, espone la situazione di degrado e di deviazione in cui la Tradizione Ermetica si trovava in quel periodo. Riportiamo alcuni brani di questa interessante lettera, perché da essa risulta evidente come in tutte le epoche da un lato si verifichino deviazioni dalla purezza dell’Ermetismo e dall’altro vi sia la necessità di riportarlo alla sacralità del nucleo primitivo. Quanto in essa è scritto risulta attuale anche nella nostra epoca, in cui l’Ermetismo viene assimilato a pratiche occulte o a sette più o meno deviate.
Scrive dunque Agrippa a Tritemio (da “La Filosofia Occulta o la Magia” – Ed. Mediterranee – p. LXXII e segg.): “[Perché la stimata magia è caduta in discredito?] . Riflettendovi, mi è sembrato che l’unica causa di tutto ciò, sia stata la depravazione dei tempi e degli uomini, grazie alla quale degli pseudo-filosofi, dei maghi indegni del nome, poterono introdurre delle esecrabili superstizioni e dei riti funesti, ammucchiare a dispregio di dio e per la perdizione degli uomini i loro infami sacrilegi contro la religione ortodossa, ed infine pubblicare questa quantità di libri che vediamo circolare dappertutto e che bisogna condannare, ed ai quali è stato dato indegnamente per titolo il molto rispettabile nome di magia. Sforzandosi di assicurare in tal modo qualche credito alle loro fantasticherie, essi hanno fatto di questo sacrosanto nome di magia un oggetto di odio per le persone oneste, ed una sorgente di gravi accuse contro i sapienti; dimodoché nessuno più osa, ora, con la sua dottrina e con le sue opere, confessarsi mago […]. Ero stupito ed indignato ad un tempo nel vedere come sino ad oggi non si fosse trovato nessuno per vendicare dal delitto di empietà delle dottrine sublimi e sante, e per presentarle nella loro integrità e nella loro purezza […]. Così cedendo alla mia indignazione e al giusto sentimento della mia ammirazione, curioso ed intrepido esploratore dei misteri della natura, ho creduto che sarebbe stata un’opera lodevole il restaurare l’antica magia, la dottrina dei savii, dopo averla purgata degli errori dell’empietà e costituita su solide fondamenta. Questo pensiero mi preoccupa da molto tempo, ma non avevo mai osato di soffermarmici, quando le nostre conversazioni di Wurtzburg sopra questi soggetti, i tuoi saggi consigli illuminati e le tue esortazioni infiammarono il mio coraggio e mi decisero a mettermi all’opera. Mi sono appoggiato sopra l’opinione dei filosofi di sincerità riconosciuta per dissipare le tenebre accumulate da una falsa scienza, che pretendeva trarre ogni cosa da libri riprovati. Ho dunque composto in questi ultimi tempi tre libri dove si trova concentrata tutta la magia, sotto il titolo meno screditato di filosofia occulta.
Di seguito riportiamo alcuni brani di Agrippa, che ne evidenziano la più rigorosa applicazione della Tradizione Ermetica. La sua opera più importante, alla quale lavorò per tutta la sua vita, “De Occulta Philosophia” si conclude con tale avvertimento al lettore e studioso (“La Filosofia Occulta o la Magia” – Ed. Mediterranee – p. 350): “Ecco quanto abbiamo riunito in quest’opera, servendoci delle tradizioni degli antichi, perché possa servire d’introduzione allo studio della Magia. Invero il discorso non è lungo, ma bastevole a coloro che potranno intenderlo. Alcune materie sono state trattate con ordine, altre senza ordine; certe sono state date per frammenti e certe altre sono state occultate e lasciate alla ricerca degli intelligenti, i quali, considerando e scrutando più sottilmente questi scritti, potranno estrarne le regole giuste, i documenti completi e le esperienze infallibili dell’arte magica. Noi abbiamo trasmesso quest’arte in modo che non possa restare occulta agli uomini prudenti e intelligenti, ma in modo a un tempo che non ammetta i malvagi e gli increduli ai suoi arcani e in modo che condotti dallo stupore rimangano con le mani vuote sotto la meschina ombra dell’ignoranza e della disperazione. Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest’opera. Scrutate il libro, raccoglietevi quell’intenzione che abbiamo dispersa e collocata in più luoghi; ciò che abbiamo occultato in un luogo, l’abbiamo manifestato in un altro, affinché possa essere compreso dalla vostra saggezza. Noi non abbiamo scritto che per voi, che avete lo spirito puro e atto a condurre un ordine retto di vita, la cui mente è casta e pudica, di cui la fede illibata teme e riverisce Iddio, le mani sono monde di peccati e di delitti, i costumi integri. Voi soli troverete la dottrina che noi abbiamo riservato solo a voi; gli arcani velati dai numerosi enimmi che non possono essere resi trasparenti senza l’intelligenza occulta. Se voi conseguirete questa intelligenza, allora l’intera scienza dell’inespugnabile disciplina magica penetrerà in voi e a voi si manifesteranno quelle virtù già acquisite da Ermete, da Zoroastro, da Apollonio e dagli altri operatori di cose meravigliose. E voi, malevoli calunniatori, figli dell’ignoranza malvagia e della malvagità ignorante, ritraetevi dall’opera nostra che vi è nemica e porta sul precipizio, affinché erriate e cadiate in miseria.
Se infine qualcuno, o per la sua incredulità o per l’inerzia del suo intelletto, non otterrà il suo desiderio, dia la colpa alla sua ignoranza, non a me; non dica che io ho errato, od ho scritto di proposito il falso, od ho mentito, ma accusi se stesso che non capisce i nostri scritti. Essi invero sono oscuri e velati da molti misteri, nei quali è facile che accada a molti di errare e perdere il senso. E che nessuno si adiri se abbiamo creduto prudente nascondere la verità della nostra scienza sotto l’ambiguità degli enimmi e disperderla qua e là lungo l’opera. Perché noi non l’abbiamo nascosta ai saggi, ma agli spiriti perversi e disonesti e perciò abbiamo adoperato uno stile atto a confondere lo stolto e a pervenire facilmente all’intelletto illuminato:
”In sintesi si ribadisce quanto dice un Amico Napoletano: “Chi deve capire capisce, chi non capisce non deve capire”.
È comunque interessante notare che questo avviso di come leggere ed affrontare l’opera sia inserito non all’inizio, ma alla fine dell’opera stessa. Al fine di trarre ulteriori chiarimenti, anche operativi, circa il percorso di ascenso esplicato da Agrippa, è utile riportare alcuni brani da due lettere che egli scrisse al Padre Aurelio d’Aquapendente nel 1527. Esaminiamo la prima (da op. cit. p. LXXVIII e segg.): “Bada a non farti ingannare da quelli che furono alla loro volta ingannati. Qui infatti non potrebbe servirti una pur grande lettura di libri, i quali non danno altro suono che quello di puri enigmi. Oh, quanti libri si leggono sull’irresistibile potere dell’arte magica, sui prodigi dell’astrologia, sulle meravigliose metamorfosi dell’alchimia e su quella benedetta pietra filosofale, che al pari di Mida cambia in oro ed in argento i più vili metalli; tutte cose che appaiono vane, menzognere e false se le si prendono alla lettera, e che non pertanto son tramandate e scritte da gravissimi filosofi, da santi personaggi, di cui nessuno oserebbe dir falsi gli insegnamenti trasmessici. Chi oserebbe credere che essi abbiano scritto delle menzogne? Ma il senso di tutto ciò è ben diverso da quello della lettera. Esso è velato da varii misteri che alcun maestro non ha mai chiaramente spiegato, e non so se alcuno, senza il soccorso di un maestro esperto e fidato, o senza l’illuminazione di un nume divino, il che non è dato che a pochissimi, potrebbe afferrare tale senso colla scorta della sola lettura dei libri. Da ciò i vani sforzi dei molti che si sforzano di perseguire questi segretissimo arcani della natura, applicando l’animo alla nuda sequela della lezione dei testi. […] E questo è quello che ora voglio tu sappia, perché in noi stessi è l’operatore di tutti i risultati e fenomeni (effetti) meravigliosi, il quale operatore sa discernere e compiere qualunque cosa i portentosi matematici, i prodigiosi maghi, gli alchimisti perseguitatori invidiosi della natura, i malefici negromanti peggiori dei demoni osano promettere; e questo senza alcun delitto, senza offesa di Dio, ed ingiuria della religione. Questo operatore delle cose mirabili, dico, è in noi:
‘ Nos habitat non Tartara, sed nec sidera coeli
Spiritus in nobis qui viget illa facit.’
È quello di cui sarebbe il caso di trattare lungamente, ma a quattro occhi (coram). Poiché queste cose non si affidano alle lettere, né si scrivono con la penna, ma si infondono da spirito a spirito, con poche e sacrosante parole, se ci accadrà di venire da te.” (Lione, 23 Settembre 1527).
Dopo questa, Agrippa scrive una seconda lettera, altrettanto interessante ed indicativa, a padre Aurelio d’Aquapendente. Ne riportiamo i principali brani. (da op. cit. – p. LXXXI e segg.): “Per quanto si attiene alla filosofia che desideri, voglio che tu sappia, che il conoscere lo stesso dio opifice di tutte le cose, ed il trapassare in lui con l’interna immagine della similitudine (ossia con un certo contatto o vincolo essenziale), per mezzo di cui ti trasformi e divieni dio stesso; […] voglio che tu sappia che questa è la vera, la somma occultissima filosofia delle opere ammirabili. La chiave di essa è l’intelletto, infatti quanto più alte sono le cose di cui abbiamo intelligenza, tanto più alti sono i poteri (virtutes) di cui ci investiamo, tanto più grandi le nostre opere, e tanto più grande la facilità e l’efficacia con cui le operiamo. Infatti il nostro intelletto incluso nella carne corruttibile, se non ha superato la via della carne, se non si è assortito alla sua propria natura e non ha potuto unirsi a quelle virtù (poiché invero esse non si aggregano se non a quel che è simile ad esse), ed a quelle cose occultissime di dio e segreti della natura che sono da investigare, è affatto inefficace. […] Poiché è necessario morire, morire, dico, alla carne, e a tutti i sensi, ed a tutto l’uomo animale, se si vuole entrare in questi penetrali dei segreti. Non che il corpo si diparta dall’anima, ma che l’anima abbandoni il corpo. […] Occorre morire, dico, di questa morte preziosa […], il che accade a pochissimi, e per avventura non sempre. […] Prima di tutto quelli che non sono nati dalla carne e dal sangue, ma sono nati dal dio; subito dopo quelli che sono resi degni di ciò (dignificati) da un beneficio della natura, e da un dono genetliaco del cielo; gli altri si sforzano di pervenirvi con i meriti e con l’arte, di cui a viva voce ti darò più sicuro ragguaglio.” (Lione, 19 Novembre 1527).
Cerchiamo quindi di individuare e riportare alcuni brani, che siano utili ad ogni “intelletto illuminato e puro”. I brani sono sempre tratti da “La Filosofia Occulta o la Magia” di Enrico Cornelio Agrippa – Ed. Mediterranee.
IMPORTANZA DEL SILENZIO
Circa l’importanza del silenzio e della impossibilità di poter esprimere a parole, senza tradirli, i concetti più sottili della Scienza Ermetica, Agrippa scrive:
II Vol. – p. 166 e segg. : “Chiunque voi siate che intendete dedicarvi a questa scienza, custodite in fondo al vostro cuore una dottrina tanto eccelsa, occultatela con ferma costanza, non arrischiatevi a parlarne. […] È dunque peccato divulgare al pubblico, mercè la scrittura, quei segreti che non vanno comunicati che verbalmente attraverso una schiera esigua di sapienti. […] Inoltre voglio avvertirvi di un punto importante e cioè che, come gli stessi numi detestano le cose esposte al pubblico e profanate ed amano le segrete, così ogni esperienza di magia, aborre il pubblico, vuole essere nascosta, si fortifica col silenzio, si distrugge dichiarandola e l’effetto completo non si produce, perché si perdono tutte queste cose esponendole ai ciarlieri e agli increduli. Occorre pertanto che l’operatore sia discreto e non riveli ad alcuno né la sua opera, né il luogo né il tempo, né la meta perseguita, salvo che al suo maestro, o al suo coadiutore, o al suo associato, che anch’esso dovrà essere fedele, credente, taciturno e degno di tanta scienza o per natura o per istruzione; perché il troppo parlare anche di un consocio, la sua incredulità, la sua indegnità, impediscono ogni operazione e fanno abortire l’effetto“.
QUALIFICAZIONE DELLO STUDIOSO E PURIFICAZIONE
Circa la qualificazione dello studioso ed operatore, perché possa risvegliare in sé quell’Intelligenza Ermetica, necessaria a percepire il Mondo delle Idee ed in esso operare, Agrippa scrive:
II Vol. – p. 165: “È opinione di tutti i magi che se la mente e il pensiero non siano sani, il corpo a sua volta non possa esser sano e viceversa. Ora noi non possiamo, secondo l’opinione di Ermete, ottenere la fermezza e il vigore della mente che dalla purezza della vita, dalla pietà e dalla religione sacra, la quale purifica per eccellenza la mente e la rende divina”.
II Vol. – p. 169 e segg.: “Diremo ora della cosa arcana e secreta, necessaria a chi voglia bene operare in quest’arte, cosa che è il principio, il complemento e la chiave di tutte le operazioni magiche, cioè la dignificazione stessa dell’operatore ad una tanto sublime virtù e potestà. Solo l’intelletto, che è in noi la più alta espressione, è capace di operare le cose miracolose e se esso è troppo dominato dalla carne, non sarà capace di operare sulle sostanze divine, cosa che spiega il perché tanti ricerchino le vie di quest’arte senza trovarle. Bisogna dunque che noi, che aspiriamo a tanta alta dignità, troviamo anzitutto il mezzo per distaccarci dalle affezioni della carne, dal senso mortale e dalle passioni della materia e in seguito cerchiamo per quale via e in qual modo ci eleveremo a quelle altezze dell’intelletto puro, senza le quali non potremo mai pervenire alla conoscenza delle cose segrete e alla virtù delle operazioni miracolose. […] La dignità meritoria si ottiene con la dottrina e con le opere. Scopo della dottrina è conoscere la verità. Perciò […] occorre divenire anzitutto sapiente e esperto nelle tre facoltà del mondo elementare e poi, rimossi gli impedimenti, avvicinare profondamente e intimamente l’anima alla contemplazione e rivolgerla in se stessa. In noi stessi, infatti, è inerente la facoltà di apprendere e di dominare tutte le cose. Ma ci impediamo di fruirne a causa delle passioni della generazione che ci contrastano e delle false immagini e degli appetiti immoderati, espulsi i quali subito si presenta la divina cognizione e potestà”.
II Vol. – p. 317 e segg.: “L’uomo desideroso di raggiungere lo stato supremo dell’anima necessario a ricevere gli oracoli, deve anzitutto prepararvisi con la castità, la santità, la purezza e la nettezza, in modo che l’anima sua non sia maculata da alcun desiderio immondo e che dal suo cuore si cancelli ogni cicatrice di peccato. Di più dovrà affatto segregare e purificare l’animo, per quanto lo consenta la necessità della natura, da ogni morbo, ebetudine, malizia e da tutto ciò che è contrario alla ragione e che la macula come la ruggine il ferro, raccogliendo e disponendo secondo il rito ciò che assicura la tranquillità del pensiero. Solo in questo stato è possibile ricevere responsi veridici ed efficaci. […] Questa influenza noi la riceviamo solo quando ci liberiamo dagli impedimenti che ci aggravano, da ogni occupazione carnale e terrena, da ogni agitazione esteriore, perché un occhio cisposo non può fissare gli oggetti troppo illuminati e colui che ignora la purificazione dell’animo non può comprendere le cose divine. Si perviene però a tale purezza dell’animo solo poco per volta e come di gradino in gradino, né l’iniziando può comprendere subito tutto chiaramente. Perciò occorre abituare ed educare l’animo sino a che l’intelletto predomini e giunga ad amalgamarsi la luce divina”.
PRATICHE PURIFICATORIE
Circa le pratiche ermetiche delle abluzioni, del digiuno, della castità e della solitudine, Agrippa scrive:
II Vol. – p. 319 e segg.: “Sopra ogni cosa bisognerà dunque conservare questa purezza nel modo di vivere, nelle opere, nelle affezioni e bisognerà espellere tutte le impurità e le perturbazioni dell’anima e tutto ciò che offende i sensi e lo spirito, o è contrario al cielo, non solo moralmente ma anche corporalmente , perché la nettezza del corpo influisce non poco sulla purezza dello spirito.
[…] Anche l’astinenza è un preservativo e una difesa contro i vizi e i demoni maligni tramutando l’animo in un tempio immacolato abitato da Dio e congiunge la mente con Dio, né v’ha nulla di meglio per la salute e la complessione dell’omettere di ammassare il superfluo e di non oltrepassare la misura necessaria per vivere. […] Bisogna inoltre astenersi da ciò che può corrompere lo spirito; dalle bramosie e dall’invidia […]; dall’ozio e dalla lussuria, che soffocano l’anima sotto il torpore e la voluttà e le tolgono la comprensione del cielo. […] Dobbiamo ancora astenerci da tutta quella moltitudine e diversità di sensazioni, d’affetti, d’immaginazioni, d’opinioni e di passioni che feriscono lo spirito e pervertiscono il giudizio, come è visibile chiaramente negli innamorati, negli invidiosi e negli ambiziosi. […] Bisogna dunque liberare lo spirito da ogni confusione, stornarlo affatto da tale sorta di passioni, per trovare la verità in tutta la sua semplicità. Si dice che molti filosofi l’abbiano veramente trovata, dimorando a lungo nella solitudine, perché nella solitudine lo spirito, liberato da ogni preoccupazione terrena e abbandonato per intero alle divinità, è sempre pronto a compiere quanto sia ispirato dai numi celesti”.
IL PENSIERO LIBERO DAI SENSI – L’INTELLETTO PURO
Ecco come, dopo la purificazione, liberare il pensiero dai sensi:
II Vol. p. 324: “Per conoscere come si possa staccare lo spirito dalla vita animale e dalla moltitudine ed elevarlo sino a raggiungere lo stesso uno, buono, vero, bello, per i singoli gradi tanto delle cose conoscibili che delle cognizioni, si consulti Proclo nei suoi commentari su Alcibiade, in cui insegna come rifuggire dapprincipio dagli oggetti sensibili per trasferirsi nell’essenza incorporea; ivi occorre superare l’ordine delle anime, sebbene moltiplicato per parecchie razioni, abitudini e proporzioni varie e molti vincoli, e la varietà multiforme dei vizi e tendere ai regni intelligibili per contemplare quanto siano superiori alle anime; infine abbandonare anche la moltitudine intellettuale, quantunque unita e individuata, e arrivare alla sopraintellettuale ed essenziale unità, sciolta da ogni moltitudine e fonte d’ogni bene e d’ogni verità. A tal fine bisogna che noi lasciamo ogni cognizione multiforme distraente e fallace, per conseguire la semplicissima verità. Quindi è da lasciare la moltitudine degli affetti, dei sensi, delle immaginazioni e delle opinioni, le quali sono tanto diverse tra loro come altre sono contrarie ad altre a piacere, e bisogna ascendere alle scienze, nelle quali è consentito che esista una molteplice verità, ma non alcuna contraddizione. Tutte le scienze infatti sono mutuamente connesse e l’una aiuta l’altra subordinandosi ad essa, sino ad una scienza che le presuppone tutte e non è presupposta da alcuna, alla quale bisogna riportare tutte le altre. Nondimeno non è questo il sommo apice delle cognizioni, ma al di sopra di esso vi è l’intelletto puro. Abbandonando perciò ogni composizione, divisione e ragionamento multiforme, elevandoci alla vita intellettuale e alla semplice intuizione, possiamo contemplare l’essenza intelligibile, mercé percezioni individuali e semplici, quale suprema esistenza stessa dell’anima, per la quale siamo uno e sotto la quale si unifica la nostra moltitudine. Così potremo raggiungere l’Uno supremo, da cui dipende l’unione di tutte le cose, per mezzo dello stesso uno, come la fioritura della nostra essenza, che acquistiamo infine quando, fuggendo dalla moltitudine, sorgiamo nella nostra unità stessa, diventiamo uno e agiamo in conseguenza”.
Dopo aver chiarito in modo esplicito come devono essere letti i testi dei veri filosofi ermetici, come deve essere modificata la vita stessa dell’operatore e quali debbano essere gli atti di purificazione per poter ottenere quello stato di dignificazione, che consente di risvegliare in sé l’Intelligenza Ermetica, unico Maestro interiore e fattore di conoscenza e di virtù creativa, esaminiamo alcuni aspetti dottrinali, che si evincono dal “De Occulta Philosophia” e che possono servire da stimolo sia per riflessioni più profonde, sia per intuire in essi anche alcuni principi operativi.
PRINCIPI OPERATIVI
I Vol. – p. 4: “La Magia è una scienza poderosa e misteriosa, che abbraccia la profondissima contemplazione delle cose più segrete, la loro natura, la potenza, la qualità, la sostanza, la virtù e la conoscenza di tutta la natura; e ci insegna in quale modo le cose differiscano e accordino tra loro, producendo perciò i suoi mirabili effetti, unendo le virtù delle cose con la loro mutua applicazione e congiungendo e disponendo le cose inferiori passive e congruenti con le doti e virtù superiori”.
I Vol. – p. 6 e segg.: “V’hanno quattro elementi che costituiscono la base di tutte le cose materiali, e cioè il fuoco, la terra, l’acqua e l’aria, che compongono tutte le cose terrene, non per fusione, ma per trasmutazione e per aggruppamento e in cui tutte le cose si risolvono quando si corrompono. Nessuno di tali elementi si trova allo stato di purezza. […] Per operare alcunché di efficace in Magia, occorrerà dunque possedere la conoscenza perfetta dei quattro elementi indicati. […]
Colui che saprà ridurli e trasformarli l’uno nell’altro, gli impuri in puri, i composti in semplici, e discernerne la natura intima e la virtù e possanza in numero grado e ordine, perverrà agevolmente alla perfetta conoscenza delle cose naturali e dei segreti celesti. […]
Ermete dice che per ottenere effetti meravigliosi bastino il fuoco e la terra, passiva questa, attivo quello. […] Il fuoco di cui noi ci serviamo è latente in ogni sostanza. […] E ogni essere vivente e ogni animale e ogni pianta si nutriscono di calore e quanto vive, non vive che per il fuoco che racchiude.
Le proprietà del fuoco superno sono il calore che feconda tutte le cose e la luce che a tutto dà vita. Le proprietà del fuoco terreno sono l’ardore che tutto consuma e l’oscurità che tutto isterilisce. […] Però la base d’ogni elemento è la terra, che è l’oggetto, il soggetto e il ricettacolo di tutti i raggi e di tutte le influenze terrestri. Essa racchiude le semenze d’ogni cosa e contiene tutte le virtù seminali, il che l’ha fatta chiamare animale, vegetale e minerale, perché una volta fecondata dagli altri elementi e dai cieli, è capace di per se stessa di generare ogni cosa. Essa è suscettibile di ogni sorta di fecondità e, come la prima madre, capace di essere il punto di partenza d’un accrescimento illimitato d’ogni cosa, in modo che è il fondamento, il centro e la madre di tutto. […] E una volta purificata dal fuoco, che le rende la vecchia semplicità e purezza, rinnovella inesauribile i suoi profondi secreti, così che resta la materia prima della nostra creazione e il vero rimedio per la nostra restaurazione e conservazione. […]
Gli altri due elementi, l’acqua e l’aria, non sono meno possenti e la natura non cessa di operare per essi effetti mirabili. [L’acqua] rinserra la virtù seminale d’ogni cosa. […] la potenza dell’acqua è tanto grande, che senza di essa è impossibile ogni rinascita spirituale. […] Tutto quanto in natura ha il potere di generare, di nutrire e di far crescere, trae le sue virtù da questo elemento. […]
L’aria è uno spirito vitale che penetra ogni essere e tutti li fa vivere, agitando tutto e tutto riempiendo di sé. […] L’aria è la prima a ricevere le influenze celesti, che poi comunica agli altri elementi semplici e a quelli misti. […]
Se gli elementi s’incontrano in questo mondo inferiore sotto forme grossolane e materializzate, nei cieli invece sono allo stato di purezza e in tutta la loro potenza”.
I Vol. – p. 22: “I platonici dicono che tutte le cose terrene ricevono le loro idee dalle idee superiori e definiscono l’idea una forma unica, semplice, pura, immutabile, indivisibile, incorporea, eterna, che è superiore alle anime e alle intelligenze. […] Esse mettono come ombre nella materia. [Questi concetti li troviamo esposti in modo analogo nel ‘De Umbris Idearum’ di Giordano Bruno – nota di FDA]. […] Nell’anima del mondo v’hanno tante fogge seminali delle cose, quante idee v’hanno nello spirito divino, per le quali questo ha impresso nei cieli, negli astri e nelle immagini le loro proprietà. […] La forma e i poteri provengono dunque anzitutto dalle idee, poi dalle intelligenze che governano e guidano, poi dall’aspetto dei cieli e infine dalla disposizione degli elementi corrispondenti alle influenze astrali. Le operazioni vanno dunque compiute: sulle cose visibili in terra, mercé le forme espresse; nei cieli, mercé le virtù che dispongono; sulle intelligenze, operando per una sorta di mediazione; presso l’archetipo, per mezzo delle idee e delle forme esemplari”.
I Vol. – p. 27 e segg.: “Essendo l’anima il primo mobile, che agisce e si muove volentieri da se stessa e per se stessa, e il corpo, o la materia, essendo inabile o insufficiente a muoversi da se stesso, si dice esser necessario un mediatore più eccellente, capace di riunire il corpo all’anima. E questi è lo Spirito del mondo, che si dice essere la quinta essenza, perché non proviene dai quattro elementi, ma è come un quinto elemento superiore ad essi e che sussiste senza di essi. […] E tale spirito ci sarà tanto più utile, quanto più sapremo separarlo dagli altri elementi e quanto meglio sapremo servirci delle cose in cui sarà penetrato con più abbondanza, contenendo esso ogni virtù produttiva e generativa. Perciò gli alchimisti cercano di estrarre o separare questo spirito dall’oro, per applicarlo in seguito a ogni sorta di altre materie simili, vale a dire ai metalli, così da trasmutarle in oro o in argento”.
I Vol. – p. 60 e segg.: “Più la forma di una cosa è nobile , più è pronta e disposta a ricevere e più ha potenza d’agire. […] Le materie preparate, dopo aver ricevuto la dovuta forma, acquistano un sovrano potere, cancellando con la perfetta mescolanza la contrarietà originaria e la loro complessione diventa tanto più perfetta, quanto più la mescolanza è lontana dalla contrarietà. Ora il cielo, che è onnipossente, quando genera alcunché con la digestione perfetta della materia, comunica insieme alla vita le celesti influenze e qualità tanto più meravigliose, quanto più nella vita stessa e nell’anima sensibile del nuovo essere si riscontrino capacità e disposizione a ricevere le più nobili e sublimi virtù. […]
Bisogna dunque conoscere quali siano le materie rese perfette dalla natura o dall’arte, o quelle composte dalla riunione di più materie che più siano capaci di ricevere le influenze celesti, perché il rapporto o la congruenza delle cose naturali alle celesti è sufficiente ad attirare le influenze superiori e tutto ciò che è perfetto e puro non può essere incapace di ricevere le loro virtù. E v’hanno tali legami e connessioni tra la materia e l’anima del mondo, la quale influisce quotidianamente sulle cose naturali e su tutto ciò che la natura ha elaborato, che è impossibile che la materia predisposta non possa ricevere una vita e una forma più nobile. […]
Vi è un tale legame e una tale continuità nella natura, che ogni virtù superiore, diffondendo i suoi raggi con una sequela congrua e continua su tutte le cose inferiori, cola sino alle ultime e le inferiori attraverso alle singole loro parti superiori pervengono alle superiori. Poiché le cose inferiori pervengono mutuamente alle superiori, in modo che le influenze che provengono dalla prima causa vanno sino alle infime come per una corda tesa, di cui toccando un’estremità subito freme tutta, dimodoché questo toccamento si propaga sino all’altra estremità e muovendo una cosa inferiore, anche la superiore, a cui essa risponde, si muove come le corde in uno strumento bene accordato”.
Anche in questo caso ritroviamo gli stessi concetti ripresi poi da Giordano Bruno nel “De Umbris Idearum”.
II Vol. – p. 294 e segg.: “L’anima umana è composta dalla mente, mens, dalla ragione, ratio, e dall’eidolon, idolum. La mente rischiara la ragione, la ragione influisce nell’eidolon (immaginativa) e tutte e tre queste cose non formano che una sola anima. La ragione, se non è illuminata dalla mente, non è immune da errore. Ma la mente non offre luce alla ragione, se Dio non la illumina come prima luce; perché in Dio è la prima luce che appare al di sopra di ogni intelletto e per questo motivo non si può chiamarla luce intelligibile: ma quando questa luce è infusa nella mente, essa diventa intellettuale e può essere intellettualmente afferrata; poi quando attraverso la mente si infonde nella ragione, diventa razionale e può non soltanto essere intellettualmente compresa ma essere cogitata. In seguito, quando per mezzo della ragione viene infusa nell’eidolon, essa diviene non solamente cogitabile, ma anche immaginabile, senza essere ciononostante corporea. […] Colui che conosce ciò secondo il rito, può tanto elevarsi nella conoscenza da far sì che la sua virtù immaginativa trascenda e si congiunga con la virtù universale. […] E la sua cogitazione diviene fortissima quando su di essa si effonde quella virtù eterea e celeste, dal cui splendore è confortata sino a che apprende le specie, le nozioni e la scienza delle cose vere, in modo che ciò ch’egli avrà concepito nel pensiero sarà nella realtà e ch’egli giungerà ad acquistare così gran potenza da immergersi e insinuarsi nello spirito degli altri uomini e renderli certi delle sue concezioni e del suo volere. […] Se dunque il potere dell’immaginazione è tanto grande da potersi insinuare ovunque, senza esserne impedito da lontananza di luogo e di tempo, […] è indubitabile che la potenza della mente sarà maggiore quando realizzerà la propria natura, quando non sarà più appesantita dai legami dei sensi e quando si manterrà incorruttibile e simile a se stessa. […]
La mente, poiché viene da Dio, ossia dal mondo intelligibile, è immortale o eterna; la ragione celeste è longeva per il beneficio della sua origine celeste; ma l’eidolon, che esce dal grembo della materia e dalla natura sublunare, è soggetto alla morte e alla corruzione. L’anima dunque è immortale per la sua mente, longeva per la ragione nel suo veicolo etereo, ma risolvibile a meno di essere restaurata nel circuito d’un nuovo corpo. Essa non è dunque immortale senza l’unione con la mente immortale. Ugualmente l’eidolon dell’anima, ossia l’anima sensibile e animale, essendo tratto dal grembo della materia, perisce assieme al corpo quando questo si risolve, oppure resta non lungo tempo nei vapori del suo corpo disciolto e non partecipa affatto della immortalità, a meno che anch’esso non si unisca alla più sublime potenza. Questa anima dunque che è unita al pensiero si chiama anima stabile e non caduca”.
LA GENERAZIONE DEL “FIGLIO”
Agrippa, dopo aver parlato dell’Intelligenza che, libera dai sensi, può acquisire la conoscenza delle cose superori e con esse operare, affronta il delicatissimo tema del Verbo che si incarna, quindi della generazione del Figlio, del Cristo Loquente, della Pietra Filosofale. Il brano seguente va letto con estrema attenzione per intuire il senso al di là delle semplici interpretazioni letterali delle parole.
Riportiamo dall’Opera citata (II Vol. – p. 268 e segg.), il seguente brano: “Plotino e tutti i platonici, dopo Trismegisto, considerano anche tre parti nell’uomo, alta, media e bassa. La prima è quella parte divina che si chiama mente o intelletto illuminato. […] La parte bassa è l’anima sensitiva, detta anche idolo, l’uomo animale. La parte mediana è lo spirito razionale, che riunisce e lega tali due estremità ed ha natura intermedia tra l’anima animale e la mente. […] La mente dunque, la mens, questa parte elevata, non è mai dannata, ma lasciando i suoi associati alla loro punizione, ritorna illesa alla sua origine. Quanto allo spirito che Plotino chiama anima razionale, essendo libero per sua natura, può aderire all’una o all’altra a suo libito e se rimane costantemente aderente alla parte superiore, alla fine si unisce ed è beatificato con essa, […] mentre se aderisce all’anima inferiore si deprava e demerita fino a divenire un cattivo demone.
Intratteniamoci ora della Parola o Verbo. Mercurio la crede egualmente importante per l’immortalità, poiché senza di essa nulla è stato fatto e nulla è fattibile. Di più è l’espressione dell’esprimente e dell’espresso. […] Mercurio chiama il Verbo figliuolo luminoso della mente. La concezione per cui la mente concepisce se stessa è il Verbo intrinseco generato dalla mente, vale a dire la conoscenza di se stesso e il Verbo estrinseco e vocale è la generazione e la manifestazione di questo Verbo e lo spirito che procede dalla bocca con suono e voce che significa alcuna cosa. […] Solo il Messia, Verbo del Padre fatto carne, Gesù Cristo, ha reso manifesto tal prodigio e lo renderà accessibile in avvenire. […] In questa generazione univoca il figlio è simile al padre in tutte le maniere e, generato secondo la specie, è il medesimo del generante e questa generazione è la potenza del Verbo formato dalla mens, Verbo ben ricevuto in un soggetto disposto mediante il rito, come una semenza in una matrice, per la generazione ed il parto. Dico ben disposto e ricevuto ritualmente, perché tutte le cose non partecipano del Verbo nella stessa maniera, ma le une in un modo e le altre in un altro. E questi sono secreti molto reconditi della natura, di cui non è da trattare altro in pubblico”.
Come si può vedere da questa sommaria esposizione di alcuni brani tratti dalle lettere e dalla sua opera principale, Agrippa espone l’intero iter ermetico, a partire dalla purificazione, per giungere alla magia isiaca ed arrivare fino alla magia Ammonia.
Federico D’Andrea