Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Due anniversari strabici: Buzzati e/o Pasolini – Gianfranco De Turris
Nel 2022 sono caduti gli anniversari di due scrittori molto significativi della nostra letteratura contemporanea che sono stati ricordati in maniera sospettosamente sbilanciata, se non strabica, pur avendo, nella loro diversità di fondo, diversi tratti in comune.
Cinquant’anni fa, il 28 febbraio 1972, moriva in un ospedale milanese per tumore al fegato quello che ritengo l’unico e vero autore fantastico italiano del Novecento, almeno del secondo Novecento, superiore agli altri due nomi cui di solito gli si affiancano, Tommaso Landolfi e Italo Calvino: Dino Buzzati. Aveva poco più di 65 anni essendo nato a Belluno il 16 ottobre 1906, e ancora tantissimo avrebbe potuto dire: infatti espresse questa sua poetica in tutti gli aspetti della sua poliedrica attività: giornalista, narratore, poeta, autore teatrale, librettista d’opera, pittore (anche se lui si riteneva soprattutto un pittore prestato alla scrittura), critico d’arte. Anniversario che per la verità non ha avuto l’eco che si sarebbe meritato in questa Italia culturalmente superficiale e distratta, spesso inquinata ideologicamente, se non il minimo sindacale: Mondadori non ha colto l’occasione per rilanciare le sue opere in nuove edizioni critiche adeguate alle problematiche del nuovo secolo tutte anticipate dallo scrittore, nemmeno quel Poema a fumetti che di certo avrebbe attratto il pubblico specie giovanile; il Corriere della Sera, dove lavorò per tutta la vita, si è limitato a ristampare un suo libro addirittura postumo di scritti giornalistici; alcuni articoli d’occasione sui quotidiani e qualcosina in televisione…
Veramente non si meritava tanto poco: si vede che non è nelle corde della cultura di oggi, nonostante una poliedrica produzione, ma c’è anche il fondato sospetto che in questa scelta minimale ci sia una componente “ideologica” se non “politica”… Sospetto che nasce dal confronto con Pier Paolo Pasolini di cui poco più di un mese dopo sono ricorsi i cento anni dalla nascita (5 marzo 1922 a Bologna, atrocemente assassinato il 2 novembre 1975 al Lido di Ostia a 53 anni). Di Pasolini invece si è fatta una vera e propria apoteosi.
Entrambi contro la modernità, lo sviluppo industriale selvaggio, l’omologazione personale e sociale, l’abbandono di costumi, mentalità, atteggiamenti “tradizionali” che essi denunciavano in base alle rispettive predisposizioni culturali e letterarie, diciamo pure le loro diverse Weltanschauung: Buzzati sul versante del fantastico, Pasolini sul versante del realismo più crudo. Però… però PPP pendeva come ben si sa dalla parte ideale e ideologica opposta (e di gran lunga prevalente ieri come oggi) rispetto a quella di Dino, il che pesa assai. E infatti il Corriere della Sera gli ha dedicato addirittura la ristampa di ben 21 suoi libri a fronte, come si è ricordato, di uno solo di Buzzati, suo redattore per tutta la vita. Intelligenti pauca…
Pasolini era un “impegnato”, Buzzati era un “disimpegnato”. Pasolini interveniva nelle sue opere e nei suoi scritti giornalistici (alla fine anche sul Corriere) su argomenti sociali e politici, Buzzati proprio no. Non frequentava, che io sappia, i famosi “salotti letterari”, non faceva parte del sodalizio Moravia/Maraini, non amava le polemiche intellettuali politicizzate, anzi, ad un certo punto, stufo dell’andazzo, si dimise da tutte le giurie dei premi letterari di cui faceva parte affermando, molto onestamente, che non poteva leggere tutti i libri che gli venivano sottoposti e quindi di non poter giudicare con cognizione di causa. Meglio allora ammetterlo e mollare tutto senza ipocrisie.
Nei suoi scritti non c’è quello sfondo “sociale” soprattutto di periferia sottoproletaria amato da Pasolini e che lo rese famoso (e che ne decretò la morte, a voler essere onesti). Buzzati amava quello che allora definii intervistandolo il “fantastico quotidiano”, quella dimensione altra individuale che poi nelle sue narrazioni diventava collettiva. La dimensione straniante che evidenziava la patologia del vivere comune della/nellas Modernità. E se una critica alla società la voleva fare, la faceva in questo modo, non per questo meno efficace. Anche lui si sentiva un “estraneo”, ma esprimeva questa sua ”estraneità” in una maniera assai diversa da quella di PPP. Per essere un alieno nella società del tempo non era obbligatorio essere un “accattone”, bastava essere un borghese conservatore…
Tutto questo oggi è capito assai poco, o non capito affatto, sia a sinistra ma anche a destra, non solo tra giovani che non hanno vissuto quei tempi, in ambienti culturali dove si è appunto rivalutato Pasolini proprio per questo sua tipo di critica, dimenticando però che è esistita anche quella di Buzzati, più sottile, più indiretta, ma simbolicamente assai più pregnante. Il suo Paura alla Scala nessuno se lo ricorda più ormai, ma tutti, anche a destra, restano ancora colpiti dopo oltre mezzo secolo, dal fatto che PPP era dalla parete del poliziotto/proletario contro i contestatori/borghesi nella cosiddetta “battaglia di valle Giulia” (1 marzo 1968), dimenticando che il suo schierarsi era a favore dei proletari in quanto poliziotti e non dei poliziotti in quanto proletari. Un po’ poco per metterlo in cima agli scudi e a farlo diventare una icona del pantheon culturale del XXI secolo…
Gianfranco de Turris