Diana e Apollo – Paolo Galiano, Massimo Vigna – a cura di I. R.
La benemerita Casa editrice Simmetria persiste nell’opera di restituzione della prima facies delle divinità romane, aggiungendo una nuova perla alla collana Roma e la civiltà mediterranea. Dopo Vesta, Mars e Venus è la volta di una diade particolarmente interessante e di complessa disamina, quella dei ‘fratelli’ Diana e Apollo.
Mirabile quanto ostico è il fine del libro (e, in verità, di tutte le monografie citate): svincolare i numina dalle catene concettuali e immaginali loro imposte dal mito greco e renderne il volto che fu autenticamente italico-romano, espressione del Sacro proprio della Saturnia Tellus. La peculiarità di questo saggio è rappresentata dal perno intorno a cui ruotano le riflessioni degli Autori: vale a dire il pendant costituito da due realtà, conflittuali eppure complementari, quali la Selva e l’Urbe. Alla prima dimensione è naturaliter associata la dèa vergine e saettatrice, alla seconda il dio dall’arco d’oro (curioso, da un punto di vista simbolico, notare come negli Inni Omerici – quindi in un contesto tutt’altro che romano – la prima scagli l’aureo strale, il secondo sia appellato dall’arco d’argento).
Massimo Vigna (già co-Autore, con Galiano, del pregevolissimo Il Tempo di Roma, il miglior testo dedicato al calendario dei nostri Maggiori apparso in Italia negli ultimi decenni) si sofferma sulla Selva, operando una apprezzabile disamina della figura numinosa che ad essa presiede e riconducendola, in primo luogo, alla dimensione presumibilmente originaria di Signora degli animali. Gli animali, che popolano i boschi sacri a Diana: nome fatto derivare da un radicale i.e. Diouh- esprimente l’idea della luce (si noti anche il parallelo con Ianus, operato altresì in epoca tarda da Nigidio in Macrobio, Sat., I, 9, 8: “Pronuntiavit Nigidius Apollinem Ianum esse Dianamque Ianam, adposita d littera quae saepe i litterae causa decoris adponitur, reditur redhibetur redintegratur et similia”. Sul punto cfr. anche le importanti considerazioni alle pp. 59-60 del testo in esame).
Ma quale luce? Non certo quella del cielo sereno, dominio indiscusso di Iuppiter Optimus Maximus, “bensì quella che filtra dalle fronde degli alberi nelle radure boschive” (p. 13), in cui la dea era massimamente onorata e celebrata. Si rimarcano i profili tipicamente italici del nume, in qualità di Signora del lucus e propiziatrice dei parti, la cui arcaicità è messa altresì in risalto dall’associazione con Silvano, “dio de’ campi e degli armenti” molto onorato dai “Pelasgi / primi del Lazio occupatori esterni” (Verg., Aen., VIII, 925-934), come altresì attestato dall’importante cippo delle Terme di Caracalla recante la dedica “Sacrum Dianae Siluano Bonadiae”.
La sacertà delle selve come feudo di Diana trova la sua espressione certamente più nota nel culto ad essa tributato a Nemi, cui l’Autore dedica un intero capitolo, altresì soffermandosi su alcuni aspetti poco noti afferenti al mito di Oreste, le cui ceneri rientravano nel novero dei pignora imperii, e ponendo in luce i legami della dea con la ninfa Egeria, ispiratrice di Numa. La disamina del culto di Aricia non poteva, naturalmente, esimere dall’esame dei rapporti tra la dea e gli schiavi; ma altrettanto forte, per quanto meno lumeggiata, era la sottile liaison con la dimensione della sovranità adombrata nel celebre episodio della vacca prodigiosa riportato in Livio, Hist., I, 5. Sul punto, giova mettere in risalto le riflessioni sul simbolismo delle corna e sullo stesso radicale KRN-, che attrasse a suo tempo l’attenzione di René Guénon nel fondamentale Simboli della Scienza Sacra (richiamato in nota al testo) e su cui eccellenti considerazioni sono altresì reperibili nell’importante contributo di Mario Giannitrapani (edito, anch’esso, da Simmetria) intitolato Il Sacro Arcaico. Forme della Sacertà neolitica.
Da ultimo, si prendono in considerazione la “mappa” dei templi di Diana a Roma, il suo ruolo in seno all’Impero e il doveroso parallelo con Artemide, rimarcando la tardività dell’associazione con la Luna.
Paolo Galiano si sofferma su Apollo, numen tra i più indecifrabili tanto del pantheon greco, quanto di quello romano. E non certo per carenza di informazioni, atteso il profluvio di testimonianze, bensì proprio per la sovrabbondanza di ‘funzioni’ al medesimo riconosciute dagli antichi.
Ma qual è, al netto delle ‘incrostazioni elleniche’, l’autentico volto dell’Apollo romano? L’Autore prende le mosse dalla figura del dio come “medico, protettore e purificatore” (pp. 79 e ss.).
La qualifica di medicus, cui Galiano non esita a ricondurre la primissima funzione storicamente impersonata dal dio a Roma, risalta sin dalle prime testimonianze circa la presenza di quest’ultimo nell’Urbe. Il primo tempio di cui è nota la dedica ad Apollo, infatti, è quello eretto in Prata Flaminia nel 433 a.e.v. e consacrato due anni dopo dal console Cn. Giulio Mentone (appartenente alla gens Iulia, i cui rapporti col dio sono universalmente noti: cfr. pp. 101 e ss.) ed il primo lectisternium risale al 399 a.e.v.: in entrambe le circostanze il numen è chiamato in causa al fine di debellare un morbo pestilenziale particolarmente virulento. D’altra parte, l’antichità dell’Apollo Medico è messa in luce anche dal culto tributato al figlio Esculapio in insula Tiberina sin dal 293 a.e.v.
E se un dio medico reca con sé, implicita, la qualifica di purificatore, tuttavia la sua poliedricità non consente di esaurirne le funzioni nello spettro concettuale legato alla arti curative: Apollo è infatti anche protettore dell’Urbe, ruolo che verrà esaltato dal princeps Ottaviano Augusto (che ne farà, in un certo senso, il protettore dell’Impero stesso, quindi dell’Orbis quasi ‘proiezione’ dell’Urbs 1) allorquando, nel contesto della più grande opera di risistemazione e riconduzione alle origini della religio che la storia di Roma abbia conosciuto, portò con sé il dio non solo sul Colle dei primordi (il Palatino), bensì – per volontà numinosa espressa per mezzo del fulmine, che “cadde proprio sullo spazio che divideva le due domus previste dal piano architettonico” (p. 121) – in un’area riservata della sua stessa casa, che accolse significativamente anche il Fuoco di Vesta. Lasciamo al lettore il piacere di profondersi nella lettura dell’ultimo capitolo del saggio, emblematicamente dedicato ad “Apollo e Ottaviano”, imperatore particolarmente caro all’Autore (che ha dedicato al medesimo anche lo scritto intitolato Apollo nella religione romana dall’età antica ad Ottaviano, apparso in Atrium n. I, Marzo 2014), per lumeggiare, giocoforza, rapidamente gli ulteriori collegamenti che vedono protagonisti Apollo ed altri numina.
A cominciare da Apollo e Libero, assimilazione operata da Macrobio attraverso il filtro dell’ormai conclamata (ai suoi tempi, e non dimentichiamo che parliamo del IV-V sec. e.v.) identificazione del dio col Sole, per continuare con l’assimilazione a Giano quale dio che, sempre secondo l’Autore dei Saturnalia (I, 9, 5), comprenderebbe in sé tanto Apollo quanto Diana. Ancora, vengono esaminate le diadi Apollo-Faunus e Apollo-Soranus, quest’ultima per il tramite di Plinio (Nat. Hist., VII, 19), che ricollega i due numina con riferimento agli Hirpi dell’agro falisco: in questa cornice troverebbe autonoma collocazione il simbolismo legato al lupo come animale apollineo di là dall’etimologia greca che legherebbe lykòs a lykè, luce promanante dal dio quale ipostasi del Sole.
Note:
– Cfr., in argomento, le interessanti riflessioni di M. Bettini in Dèi e uomini nella Città, Carocci 2015, pp. 27 e ss., “La Città, il pomoerium e il perimetro del mondo”.
Paolo Galiano – Massimo Vigna, Diana e Apollo. La Selva e l’Urbe, Simmetria 2015, pp. 144.
I.R.