Devozione, Fede e Grazia: il lessico religioso tra analisi filologica ed interpretazione esoterica – Achille Rajola Pescarini
Ogni cercatore durante il proprio cammino si è necessariamente imbattuto in testi ermetici ed in generale esoterici che, adattandosi alle circostanze del tempo, hanno fatto proprio il linguaggio e la visione del mondo della religione dominante. In questo frangente, per chi segue un percorso spirituale non legato ad una determinata religione, emergono problemi nell’approcciare a termini non solo estranei, ma talvolta manifestanti anche valori opposti – se concepiti secondo un’ottica religiosa. In questo scritto si cercherà di mostrare attraverso un’analisi filologica alcune possibili e alternative interpretazioni metafisico-esoteriche di termini comuni in molti testi religiosi come Devozione, Fede e Grazia, non snaturandone il contesto di origine, ma aprendo degli spiragli di utilizzo e comparazione anche per chi prosegue su diversi sentieri di realizzazione.
La devozione è stata spesso concepita nelle interpretazioni dell’esoterismo occidentale come emblema del sentimento religioso e sottomissione a Dio (subiectio Deo) e per tale motivo considerata concettualmente incompatibile con un percorso – ad esempio – magico e solare. Dalla lettura cristiana della devozione come “adorazione spirituale”, «quae consistit in interiori mentis devotione» (Sum. Th. IIª-IIae q.84 a.2), la devotio in epoca romana aveva ben altra connotazione: un’auto-consacrazione agli dèi Mani, il proprio sacrificio in battaglia per
ottenere in cambio della propria vita la salvezza della comunità. Questo offrirsi (de-vovere) eroicamente agli dèi nulla ha a che fare con il sentimentalismo e perciò la scelta del termine latino mostra altro al di là della sua odierna interpretazione religiosa. Molto vicino al concetto di devozione è quello di fede – dal latino fides, che nel Cristianesimo è «fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eb 11,1), quindi la credenza religiosa, ma anche la fedeltà a Dio e alla Sua rivelazione. Ma, anche qui, nella sua origine romana la fides rappresentava la lealtà, il valore che garantisce il rapporto fra due parti. Accanto alla relazione reciproca dei rapporti paritari, la fides concerneva inoltre (e più rigorosamente) i rapporti tra diseguali: quello clientelare tra patronus e cliens, quello tra vincitore e vinto, tra magistrato e cittadini, rappresentando una “virtù aristocratico-patronale”, ma anche patto di garanzia pubblica fra cittadino e potere.
Nella religione islamica la fede – in arabo īmān – è il secondo grado prima della “perfezione” (spirituale) – iḥsān – e dopo la “sottomissione” (ma anche “riconciliazione”) – islām, suo primo grado, dove si riconosce la propria posizione subordinata nei confronti di Allāh. Il campo semantico di īmān – cioè la radice trilittera ’-m-n – si connette a vari significati tra cui quelli di “credere”, “affidarsi”, “essere al sicuro”; mentre quelli di islām – s-l-m – ad esempio a quelli di “essere salvo e/o in pace”, “abbandonarsi”, “consegnarsi” (alla volontà divina). Da queste significazioni si può notare come il rapporto tra uomo e Dio possa avvicinarsi alla concezione romana di fides attraverso una trasposizione dalla civitas alla trascendenza religiosa: infatti, il rapporto diseguale tra patrono e cliente lo si ritrova nei santi islamici – awliyā’ Allāh – di cui la designazione linguistica, oltre a significare gli “amici di Dio” o i “vicini a Dio”, mostra tra i suoi significati proprio i termini della relazione patrono-cliente, dove chiaramente Dio occupa il primo posto. Il santo risulterebbe così il cliens nel rapporto di patronaggio: colui che pur “sottoposto” può usufruire dei benefici della relazione diretta con la realtà divina. Questo particolare tipo di rapporto, basato sulla fides, ricorda – anche etimologicamente – il latino foedus, il patto o l’alleanza. Famosa è l’Alleanza (brit), infatti, tra Dio e l’uomo che sta alla base della religione ebraica, rinnovata successivamente nel Cristo, così come quella tra Allāh e l’umanità ancora in spirito nel yawm al-mīṯāq – il giorno del patto, in cui alla domanda «non sono forse io il tuo Signore?» (Corano, 7:172) lo spirito umano se ne fece affermativamente testimone, ponendosi il compito di ricordare, in vista dell’oblio provocato dall’incarnazione – punto comune al concetto di anamnesi presente in molte altre tradizioni. Ma comprendere questi termini secondo questa diversa prospettiva – cioè “offrirsi in
sacrificio” alla divinità e stabilire con essa un determinato rapporto, un’alleanza – in cosa può essere d’aiuto ad un cercatore contemporaneo che non si riconosce in una religione specifica?
Nel suo commento ai Versi Aurei pitagorici, Julius Evola ci dà delle indicazioni al riguardo. Sull’adorazione e il culto nel quadro dell’esoterismo pitagorico, Evola scrive «non si tratta dell’atteggiamento devoto del credente come una creatura staccata dagli esseri divini, che essa deve solo servire e pregare. […] per Ierocle adorare, venerare e rendere culto significa “conoscenza della natura di coloro a cui si rende onore e per quanto è possibile farsi simili ad essa”» (p. 40) e ancora «l’invocazione o preghiera in senso teurgico è intesa a stabilizzare e a sviluppare tale continuità [fra le divinità e l’uomo], fino all’innestarsi di una forza dall’alto in quella, coessenziale, già ridestata in sé, pel compimento dell’Opera» (p. 62). «Onorerà Dio nel modo migliore – riportando le parole di Ierocle – chi nell’anima gli assomiglierà», in tal
senso l’adepto non offre cose esteriori agli dèi, ma la propria interiorità, anzi «la propria perfezione (telèiōsis) come massimo degli onori» (p. 40). Ma oltre a questo “votarsi” risonante con la precedentemente commentata devozione, nel primo verso aureo si incontra altresì il termine greco orkos – giuramento – e successivamente si fa riferimento all’idea che «gli uomini soffrono mali da loro stessi scelti» (v. 28), che Evola considera concettualmente vicina alla tradizione spirituale hindu. Questa visione trova compimento nella dottrina dell’augoeidès – il cosiddetto “corpo di gloria”, fine ultimo dell’Opera dei Versi: questa “forma radiante” è l’estrinsecazione del “divino daimone”, «entità particolare, causa trascendentale di tutto ciò che l’essere umano è, radice non terrestre del suo essere» (pp. 71-72) con cui l’iniziato si reintegra. Evola, quindi, suggerisce che il giuramento (l’Alleanza) è stretto con la propria controparte spirituale – l’Io, il nous – per il cui riflesso ci sentiamo individui – pur non essendolo – e non con un Dio al di fuori di sé: a questo Io solare e superiore l’io ordinario – “samsarico” o “storico” – deve sottomettersi con il fine successivo di ricongiungersi in una sorta di unio mystica, movimento che emerge non solo dal commento ai Versi di Julius Evola, ma anche da alcuni suoi saggi in Introduzione alla magia del gruppo di UR sotto lo pseudonimo di EA e da Psicosintesi di Roberto Assagioli.
La coscienza di questa possibile alternativa interpretativa permette, allora, una nuova lettura anche del concetto di Grazia. La grazia rappresenta nei sistemi religiosi la benevolenza divina verso l’essere umano, il risultato della sua misericordia, da cui in molte lingue il corrispettivo della parola “grazie” deriva da questo concetto, come in italiano dal latino gratia o in molte lingue turche dall’arabo raḥma. Proprio quest’ultima parola è famosa per essere anche connessa a due dei più famosi nomi di Dio, poiché presenti nella basmala: «In nome di Dio il Clemente il Misericordioso», in arabo Bi’smi’llāhi al-Raḥmāni al-Raḥīm. Questa fondamentale invocazione mostra la centralità della radice r-ḥ-m, che mostra nella misericordia uno degli aspetti chiave nel rapporto tra umano e divino. Raḥma – come per l’ebraico raḥam, usato al plurale – riallaccia altresì la misericordia all’utero, alle “viscere materne”, nel senso quindi di cura, nutrimento e generoso dono. L’altro termine ebraico sia per grazia che per misericordia è, invece, chesed, nel quale – non volendo scomodare la Cabala – appare ancora una volta la presenza di due parti di un’alleanza, con la conseguente solidarietà di una parte verso l’altra in difficoltà. Il cuore mosso a compassione – éleos – allora dona gratuitamente, fa l’elemosina – dal greco eleēmosynē, che ha la propria radice proprio in éleos – che, se a prima vista può sembrar cosa degradante, l’inglese mercy – dalla sua radice latina merx – riporta ad un qualcosa di guadagnato, al “salario”, termine ben noto alla tradizione dei Liberi Muratori. Il risultato di questo atto sono i doni divini, i charisma, che il Cristianesimo ha reso nella sua dottrina come i sette doni dello Spirito Santo.
Riconnettendo le due parti di questo intervento, i “doni dello Spirito” sono la manifestazione del collegamento diretto con la realtà divina: essi si possono manifestare come poteri spirituali – gli orientali siddhi – e come “carisma”, termine molto ambiguo con cui spesso sono state segnalate persone con una forte presenza spirituale e una particolare influenza. I principali rappresentanti di questa categoria nelle religioni sono i santi – da sanctus e quindi sancire, consacrare e rendere sacro, con la loro forza spirituale e i loro miracoli. Anche nell’Islam, i già nominati santi – awliyā’ – sono riconoscibili oltre che per la loro Fede, per i loro miracoli, che a differenza di quelli profetici sono designati con lo specifico termine arabo karāmāt. Questa parola – karāma – sostantiva il verbo karuma, che nel senso di “essere nobile” riporta a quella “nobiltà spirituale” – aretē – che Julius Evola ha spesso evocato quale qualità fondamentale dell’iniziato, data la sua “distinzione” dal resto dell’umanità, e simbolo del suo legame con le fonti sacre della conoscenze (“il Nobile Corano” – al-Qur’ān al-Karīm, ad esempio, o il Nobile Ottuplice Sentiero buddhista). A ciò si ricollega la tradizione per cui i santi cristiani su molte chiese nostrane sono indicati in latino come divi, che nella Roma antica erano coloro riconosciuti dopo la morte tra le divinità. La théōsis o divinificatio, infatti, oltre ad essere ancora presente nella concezione del Cristianesimo orientale, era anche il fine dei Misteri antichi, con i suoi “Eroi divinificati”, come nel secondo verso d’oro che Evola indica come coloro che «hanno superato la condizione umana partecipando, a differenza degli altri viventi, dell’immortalità olimpica» (p. 38). Questo è il risultato della metabolē, il superamento dello stato umano, «il cambiamento di polarità, di cui l’iniziazione è il punto di partenza», come si legge in UR (p. 165) e la cui eco risuona anche nella letteratura religiosa di stampo e influenza esoterica. Questi spunti, benché brevi e superficiali, si spera possano offrire la possibilità a letture alternative dei testi religiosi, secondo una concezione esoterica adattabile al proprio specifico percorso, non precludendo così l’utilizzo di strumenti capaci di aprire le porte a intuizioni pratiche, spesso ostacolato dalla diversità del linguaggio utilizzato.
Bibliografia di riferimento:
– al-A‘rāf, sūra 7, Corano.
– Introduzione alla magia, vol. I, a cura del gruppo di UR, Roma, Ed. Mediterranee, 2004
(ristampa).
– La scuola di Pitagora. I versi d’oro, a cura di J. Evola, Roma, Atanòr, 2006.
– Lettera agli Ebrei, Nuovo Testamento.
– Psicosintesi, R. Assagioli, Roma, Astrolabio, 1993.
– Società e istituzioni di Roma antica, M. Pani e E. Todisco, Roma, Carocci, 2005.
– Summa Theologiae, S. Tommaso
Achille Rajola Pescarini