Debito, debitori e moneta in Roma antica – Marco Migliorini
La storia di Roma antica è, sul piano economico-finanziario, caratterizzata da molteplici fenomeni: basti pensare al passaggio dalla merce-moneta fusa alla moneta lenticolare coniata ovvero alla creazione di strumenti creditizi, analoghi alle lettere di patronage, con cui un uomo d’affari o imprenditore (negotiator) romano, adeguatamente assistito dal proprio banchiere (argentarius, il quale garantiva di detenere in deposito presso di sé una certa cifra appartenente al cliente-negotiator rilasciando apposita documentazione contabile scritta), poteva, ad esempio, recarsi nella provincia d’Asia, presentare la nota cartacea che ne garantiva la solvibilità a Roma ed ottenere dal banchiere locale un prestito generoso e vantaggioso per gestire i propri affari lontano da Roma. Autorevoli studi (Harris) mostrano come poco probabile che Cicerone, quando acquistò da Crasso la villa sul Palatino, abbia pagato l’intero importo (qualche milione di sesterzi) caricando su un carro trasportato da buoi alcune tonnellate di piccole monete di bronzo o di argento per recapitarle al venditore: con ogni probabilità, il prezzo sarà stato saldato impiegando uno strumento cartaceo e comunque non versando i contanti. Economia e finanza non appartengono al DNA romano; soprattutto, l’economia risulta totalmente ignota ai Romani, che neppure abbozzano strumenti o mezzi per razionalizzarla e studiarla in modo sistematico. Si accorgono solamente di fenomeni macroscopici: quando, ad esempio, l’Egitto viene conquistato da Ottaviano, la quantità di denaro e metalli preziosi del tesoro di Cleopatra (gaza regia) affluita a Roma fu tale da sconvolgere i prezzi del mercato immobiliare.
Al di fuori di questi eventi eccezionali, al Romano manca cultura economica in senso moderno. Gli studi di von Freyberg attestano che, a seguito delle conquiste mediterranee, che portarono a Roma ogni genere di bene di lusso (da cui la frase famosa di Polibio, sui Romani che scoprirono la ricchezza dopo le guerre puniche), iniziò un lento ma inarrestabile fenomeno, di cui Roma non si avvide fino a quando, in epoca dioclezianea, era ormai troppo tardi: Roma cessa di essere centro di produzione per divenire mero centro di consumo. Poiché non tutti i beni importati potevano essere imputati alla decima o alle altre forme di tassazione imposte ai provinciali, ne derivò che l’importazione di porpora e tessuti, spezie e cibi ricercati, vini rari, vasellame pregiato dall’Oriente, India compresa (addirittura, ricorda Cicerone, di intere biblioteche dalla Grecia o di giardini pensili da Babilonia) causò un afflusso di questi beni dietro pagamento di ingenti somme di denaro. Il lusso si paga, così come le abitudini eccentriche e i passatempi alla moda: alla fine della repubblica, i ricchi Romani allevavano murene e altri pesci in grandi vasche installate nelle loro immense proprietà. Roma si trovò, alla fine del III sec. d.C., decisamente impoverita finanziariamente, proprio quando le riforme imperiali imponevano costi maggiori per il pagamento della burocrazia: il rimedio, aumentare le tasse, fu peggiore del male. Il trasferimento della liquidità in provincia e la cessazione delle attività produttive a Roma e in Italia (fenomeno, quest’ultimo, essenzialmente dovuto alla conquista mediterranea, che rese il lavoro libero e salariato, a partire da quello agricolo, non più conveniente né remunerativo) non furono percepiti immediatamente come fattori di rischio, ma, a lungo andare, impoverirono le casse pubbliche e private; inoltre, distrusse dalle fondamenta il modello romano del cittadino-soldato, che partecipava alla vita politica e militare in maniera attiva e convinta.
Diverso, invece, il discorso legato al denaro, che rileva per almeno due fenomeni: la storia della moneta e quella del debito. Per quanto riguarda il debito, è noto che esso rappresenti una costante della storia di Roma, ampiamente trattato sia nelle fonti letterarie che in quelle giuridiche. Sono tre i profili lungo i quali si dipana la storia dell’indebitamento: la dialettica tra patrizi e plebei, la storia del tasso di interesse e l’evoluzione del sistema monetario romano.
La storia del debito e dei debitori a Roma lascia emergere un dato significativo: mentre in età monarchica, fino alla media repubblica, i debitori provengono anzitutto dalla plebe, negli ultimi decenni della costituzione repubblicana l’indebitamento colpisce essenzialmente l’oligarchia, quella nobilitas patrizio-plebea nata nel 367 a.C. e che, per garantirsi il successo nelle elezioni magistratuali, prende a prestito enormi quantità di denaro, spesso ad un tasso di interesse esorbitante. Cicerone racconta, nell’epistolario, che in un solo giorno il tasso di interesse effettivamente praticato raddoppiò, passando dal 4% all’8%, a causa della richiesta di liquidità dei candidati al consolato per finanziare la campagna elettorale. Il rapporto tra patrizi e plebei verte, già in età monarchica, su un tema patrimoniale e finanziario, legato sia all’indebitamento sia alle generali condizioni di partecipazione alla vita politica romana. I plebei, ormai è assodato, non erano affatto economicamente poveri; solo, detenevano la ricchezza mobiliare (frutto delle attività commerciali ed artigianali esercitate), che, nei primordi della storia di Roma, non era riconosciuta come patrimonio censibile. Cosa era successo? Era semplicemente accaduto che i patrizi, stabilitisi per primi nell’area dei colli circostanti il Tevere, avevano occupato le terre migliori, costruendo sull’occupazione dell’ager publicus le condizioni per il pieno esercizio dei diritti civili e politici.
La possessio di ager publicus, favorita da un approccio non invasivo della civitas (a Roma, lo stato riserva a sé, fin dalla fondazione, unicamente le aree essenziali alle funzioni pubbliche, lasciando liberi i privati di sfruttare il demanio statale non impiegato), diventa criterio e misura della capacità patrimoniale e, di conseguenza, della possibilità di essere censiti e di prendere parte al comizio e all’esercito. Il problema del tipo di ricchezza posseduto (liquida o immobile) si riflette sulle condizioni di partecipazione alla vita politica, civile e militare. Ciò spiega perché i plebei chiedano con insistenza qualche iugero di terra: nessuna rivoluzione marxista, nessun rovesciamento dello stato (o, per dirla con Marx, della proprietà dei mezzi di produzione), ma, soltanto, la richiesta di un lotto minimo di terreno per migliorare le proprie condizioni, non solo in termini economici e di autosufficienza produttiva, ma, soprattutto, per diventare finalmente titolari di un tipo di ricchezza censibile e, di conseguenza, idonea a favorire l’ingresso della plebe nell’assemblea e nell’esercito. Non a caso, le fonti parlano ripetutamente di exaequatio ordinum per designare la dialettica politica tra plebe e patriziato: banalmente, i plebei chiedono pari opportunità, come diremmo oggi. Di questa richiesta politica, i primi a farsi carico furono i sovrani etruschi, interessati a sfruttare la compattezza sociale, la disponibilità finanziaria e le rivendicazioni politiche plebee per erodere i tradizionali privilegi dell’oligarchia terriera patrizia. I nomi dei re etruschi, tramandati dalla tradizione, ci dicono che la fase etrusca della monarchia fu appannaggio di famiglie che venivano da fuori (Tarquinia?) e che non avevano un album di famiglia da esibire (Servius significa di origine servile): naturale, dunque, l’ostilità del patriziato di estrazione gentilizia, che si riprenderà il potere cacciando i re (lo stupro ai danni della figlia di un senatore maschera la rivolta conservatrice del patriziato di rango senatorio) e instaurando la res publica, nella quale, almeno fino al 314 a.C. (anno della riforma di Appio Claudio il Cieco, che ammise anche la ricchezza mobile ai fini del censimento) tornarono a primeggiare i tradizionali indici e valori di valutazione della capacità patrimoniale, quelli relativi al possesso e alla disponibilità di beni immobili. Altrettanto naturale, quindi, l’alleanza tra famiglie di re “alternativi” e la plebe, numerosa demograficamente, ricca di maestranze abili (che furono certamente impiegate per costruire la “grande Roma dei Tarquini”: gli scavi archeologici hanno riportato un cospicuo numero di palazzi o templi di notevoli dimensioni costruiti in marmo e granito, indizio sicuro di ricchezza, presenza di manodopera e intelligenze qualificate, di un potere politico forte e capace di iniziative autorevoli in ambito edilizio e urbanistico), desiderosa di affermarsi politicamente e detentrice di quella ricchezza mobile, che, però, fino a quel momento (e, in parte, anche in epoca repubblicana, come detto) non aveva trovato riconoscimento in termini censitari.
La situazione cambia con Servio Tullio, come ricorda Plinio nella Naturalis Historia (33, 13): Servius rex primus signavit aes. Antea rudi usos Romae Timaeus tradit. Signatum est nota pecudum: unde et pecunia appellata. Il re etrusco introduce l’aes signatum, contraddistinto dalla nota pecudum; prima, secondo lo storico Timeo, si impiegava l’aes rude. Dalla moneta a peso, il bronzo spezzato, si passa al bronzo segnato con il marchio identificativo di un animale (pecus), da cui il termine pecunia. Questa moneta non ha, però secondo gli studiosi (Pedroni) semplicemente o esclusivamente il tradizionale ruolo di strumento di scambio; non è, insomma, solo merce-moneta come l’aes rude, che veniva spezzato e pesato all’atto dell’acquisto. La raffigurazione di un animale compreso tra i pecudes (in pratica, tutti gli animali che vivono in gregge o nella mandria) è da intendersi anzitutto come strumento di misurazione, per equivalente, della ricchezza mobile e liquida detenuta dalla plebe. Imprimendo sul bronzo l’effigie di un animale (bovino, ovino o caprino) fortemente legato alla terra, a quel mondo agropastorale su cui si fonda la supremazia politico-sociale del patriziato, il bronzo diviene equiparato, attraverso la mediazione di un parametro patrimoniale noto (il valore del bestiame, legato alla terra) in quanto espressione della capacità patrimoniale tradizionale, alla ricchezza immobiliare. Talmente radicato era questo costume, cioè l’attitudine a far coincidere il valore economico con quello della terra e dei beni o prodotti ad essa correlati, come il bestiame, che solo tra il 454-452 a.C. (lex Aternia Tarpeia e lex Menenia Sestia) e il 430 a.C. (lex Iulia Papiria de multarum aestimatione) si stabilì la convertibilità in denaro delle multe precedentemente pagate in capi di bestiame: il meccanismo di conversione è costruito sulla base dell’asse, cioè dell’uncia, ossia in dodicesimi. Nello stesso periodo, le XII Tavole (451-450 a.C.) disciplinano per la prima volta nella storia di Roma il prestito a interesse: non a caso, al di là della vexata quaestio relativa alla individuazione numerica del tasso, il saggio legale massimo è indicato come fenus unciarium. Difficile non vedere, in questo processo storico, una decisa affermazione della plebe, che, tra molte difficoltà, impone la fissazione per iscritto del fenus unciarium in un compendio normativo dei mores scritto e pubblicato per la prima volta e, quindi, capace di assicurare la certezza del diritto; che riesce definitivamente a far passare il principio dell’equivalenza, prima ai fini del censimento e poi per il pagamento delle multe e il deposito della summa sacramentale, tra il bestiame (posseduto dai patrizi) e il bronzo (appannaggio e prerogativa della plebe).
L’aes signatum serviano ha un preciso scopo politico, permettere il censimento della plebe più ricca per immetterla negli organismi istituzionali: è verosimile che la prima immissione nel consiglio e nell’assemblea politica risalga proprio alla monarchia serviana. Sul piano della politica economica, lo stato, legittimando la ricchezza mobile plebea, crea il mercato di cui intende servirsi, così come il mercato (la plebe ricca e negletta fina quel momento) sfrutta lo stato per i suoi scopi, ottenere il primo riconoscimento politico, non senza porsi al suo servizio: l’istituzione dei pedarii fu una vittoria plebea e uno strumento che permise ai sovrani etruschi di controllare il consiglio degli anziani in funzione antigentilizia. La reazione dell’aristocrazia senatoria e la cacciata degli Etruschi determina, da un lato, la conquista della libera res publica, dall’altro un notevole impoverimento, noto agli specialisti come la “lunga notte del V secolo”: la fuga degli Etruschi (non solo da Roma ma da tutto il Sud) provoca una crisi profonda, dovuta al venir meno del dinamismo commerciale etrusco, che dal VI-V secolo a.C. farà la fortuna del Nord Italia (Mantova, Como e la pianura padana in genere). Torna, fino alla riforma di Appio Claudio, il predominio della terra e riaffiora la questione dell’indebitamento. La plebe, dedita al commercio e all’artigianato, sovente necessitava di capitali immediati per ingrandire la propria attività, ampliare la bottega, comprare nuovi strumenti e la strada più immediata, sebbene costosa, era il prestito a interesse chiesto al patriziato, che, dall’alto della possessio di ager publicus sostanzialmente indiscriminata e priva di controlli, deteneva notevoli quantità di denaro, ottenute prevalentemente attraverso un modello di sfruttamento agrario condotto con criteri parassitari e poco inclini all’investimento: l’allevamento era di solito preferito all’agricoltura perché più redditizio, meno costoso e meno rischioso. Il compromesso del 367 (le leges Liciniae Sextiae disciplinano l’indebitamento, ammettono i plebei al consolato e al collegio religioso dei decemviri sacris faciundis, limitano il possesso di demanio pubblico e di allevamento) mette in moto un processo che, da un lato, porta la plebe a conquistare progressivamente l’accesso a tutte le magistrature, al pontificato massimo e determina l’equiparazione tra plebiscito e legge comiziale; dall’altro, però, il 367 segna la nascita della nobilitas patrizio-plebea, una nuova classe dirigente (da cui sarà esclusa la parte più infima e povera della plebe) che si spartirà tutte le cariche repubblicane. Ciò spiega, almeno in parte, perché le leggi agrarie e sul debito si ripetano dando la sensazione di produrre effetti effimeri e transitori. Spesso, sono usate come strumento e arma di lotta politica, ma le questioni economiche, sociali e finanziarie restano irrisolte e saranno destinate ad esplodere dai Gracchi in avanti. Tra IV e III secolo a.C., non a caso, comincia a circolare l’aes grave, moneta in bronzo fuso dotata di un peso standard, il cui valore nominale è indicato da un segno e che è costruita, nei sottomultipli, sempre su base unciale, cioè duodecimale. Questo tipo di moneta, posteriore all’aes rude e al signatum, è interessante per vari motivi. Inizialmente costruita sulla libbra osco-latina (273 gr.), è successivamente realizzata sulla base della libbra romana (327 gr.) e, in alcune serie, comincia ad essere coniata anziché fusa.
La diminuzione di peso (un asse pesava quanto mezza libbra romana, cioè 163,5 grammi, quindi meno della libbra latina), l’adozione della libbra romana e l’inizio della coniazione si collocano in un’epoca storica in cui Roma sottomette il Lazio (la lega Latina è sciolta nel 338 a.C.) e la Campania, firma con Cartagine una serie di trattati prima dell’inizio delle guerre puniche (348, 306 e 279-278 a.C.), avviandosi a diventare potenza italico-mediterranea e non più solo regionale. L’espansione di Roma si collega per la prima volta ad una tipologia di moneta autonoma e innovativa. Nello stesso si registra, non a caso, la lex Poetelia Papiria de nexis (326 a.C.), che, mitigando l’antica severità dell’esecuzione personale, stabilisce la prevalenza della patrimonialità dell’esecuzione (pecuniae creditae bona debitoris non corpus obnoxium esse), vieta per il futuro di tenere i debitori in nervo aut compedibus, tranne alcuni casi e, da ultimo, dispone l’immediata liberazione dei nexi purché bonam copiam iurarent. Ora, se è vero che la condizione dei debitori insolventi continuò a rimanere molto dura (la bonorum venditio è assai più tarda, datando non prima del II-I sec. a.C.) è di tutta evidenza che nel IV secolo a.C. si avvia un duplice processo, destinato ad alimentarsi a vicenda: la progressiva affermazione del regime patrimoniale della responsabilità per debiti si coniuga con l’emersione di una moneta caratteristica (ancora a metà col modello greco, ma già capace di offrire elementi tipici romani) e con la finanziarizzazione dell’economia, definitivamente realizzata con la produzione massiccia e su larga scala di moneta lenticolare in argento, il denario, facilmente trasportabile, leggero, pratico, maneggevole e in metallo pregiato. Già con l’aes grave, ma, soprattutto, col denarius, Roma si rende conto dell’enorme valore pratico, simbolico e propagandistico della moneta, strumento ideale per veicolare ed affiancare il dominio romano nella dimensione imperiale ed ecumenica. Come già nella precedente produzione di aes grave, anche con la coniazione del denarius si assiste, prima, alla diminuzione di peso e di argento in ogni singolo pezzo (da 4,55 a 3,90 gr.: a parità di quantità di metallo usato, si possono produrre molti più pezzi) e, successivamente, alla riduzione di valore nominale (da 10 a 16 assi). Lo stato prima sacrifica il valore intrinseco della moneta, di cui mantiene inalterato il valore nominale, per produrre una maggiore quantità di circolante; poi, riduce d’imperio anche il valore nominale, incidendo direttamente sul potere d’acquisto e sull’effettivo valore reale della massa dei crediti e dei debiti. Ancora una volta, stato e mercato si confermano due facce della stessa medaglia: lo stato produce mezzi di pagamento (che diventeranno anche un modo per comminare multe, irrogare sanzioni, incassare tasse e tributi, pagare costi e spese di natura pubblica), mentre i privati (negotiatores, argentarii, gli stessi esponenti della nobilitas con l’intermediazione di schiavi, liberti e clientes), sorretti dall’espansione di Roma, assisiti dai governatori provinciali e dai promagistrati, protetti dalla superiorità del diritto romano, disporranno di una crescente e quasi illimitata quantità di denaro (dovuta alla vittoria contro Cartagine, che assicura a Roma il controllo e lo sfruttamento delle miniere spagnole, ricchissime in argento) per commerciare e fare affari ovunque.
Come l’aes grave risponde alle esigenze politico-economiche di una civitas in espansione in ambito italico, così il denarius appaga le nuove esigenze della c.d. repubblica imperiale. Simbolo del potere romano, la moneta cambia radicalmente funzione, più esattamente si arricchisce di nuove valenze. L’enorme quantità di moneta in circolazione, cioè, la finanziarizzazione definitiva dell’economia, trasforma la moneta in uno strumento di propaganda. Mentre, in precedenza, nell’aes grave, i simboli effigiati su recto e verso appartengono alla tradizione (la prora, il ramo secco, la lupa coi gemelli), adesso il denario (ormai coniato nella zecca situata presso il tempio di Giunone Moneta, compito a cui sovrintendono appositi magistrati monetales, data l’importanza e l’abbondanza della coniazione), proprio perché invade l’Italia e il Mediterraneo, si presta ad accogliere e veicolare le gesta politiche e militari dei membri più influenti della nobilitas. In uno con la statuaria e le opere letterarie, il denario evoca trascorsi gentilizi, glorie personali e familiari, diventando, così, meccanismo di legittimazione e perpetuazione di aspirazioni e carriere politico-militari (i più grandi generali e consoli di Roma hanno battuto moneta rievocando, glorificando e amplificando le loro gesta: la moneta diventa strumento politico gestito con la logica dei mass media e dei moderni social) oltre che, come detto, alfiere, araldo e corifeo della supremazia militare, politica, culturale ed economica romana, nonché, come accennato in premessa, strumento con funzioni monetarie (in senso aristotelico, cioè, unità di conto, mezzo di pagamento e strumento di conservazione della ricchezza) capace di assicurare il passaggio alle prime, rare, eppure attestate, forme di cartolarizzazione dei rapporti creditizi. Il ventaglio di significati e il complesso intreccio tra usi pratici e valenze simboliche trova conferma in ambito architettonico e religioso. La dea Fides, il culto della quale risale, secondo la tradizione, a Numa, conosce, proprio nel III secolo a.C., un ulteriore consolidamento: l’edificazione sul Campidoglio di un tempio ad essa dedicato.
La divinità, protettrice dei contratti, dei trattati internazionali, simboleggia la lealtà, la fedeltà, il rispetto della parola data (che implicitamente riconosce il limite dell’azione e della parola: non a caso, è legata anche al dio Termine, protettore dei confini), quel pacta sunt servanda che sintetizza al massimo livello (con la pietas e la virtus) le qualità dell’uomo romano, sulle quali si fondano la famiglia, l’esercito, le istituzioni politiche e sulle quali si basa il favor divino per la missione civilizzatrice ed ecumenica di Roma. Ma fides è, nella lingua latina, anche sinonimo di credito, inteso sia come disponibilità finanziaria sia come existimatio di cui il singolo goda nella pubblica opinione; non per niente, il lemma nomen è ulteriormente sinonimo di credito e debito. Di fatto, la solvibilità e solidità finanziaria coincidono con il nomen individuale e la fides ad esso correlata. Essere o avere un bonum nomen significa essere noto come pagatore solvibile ed affidabile. Quando Cesare, nel de bello civili, scrive, dopo la guerra civile con Pompeo, che la fides era incrinata tota Italia, conferma che, in definitiva, la guerra civile aveva spazzato via sia le ricchezze finanziarie liquide sia quella fiducia o affidamento reciproco indispensabile nelle transazioni finanziare e nella vita economica. Il vecchio debito, tipico di una società agropastorale che commerciava con moneta a peso, non era affatto romantico. Non solo per l’intrinseca sostenibilità finanziaria (che dipende in sostanza dall’interpretazione del sintagma fenus unciarium, inteso quale tasso massimo legale, che, a seconda degli orientamenti dottrinali, varia tra l’8,33%, il 12% e il 100% annuo), ma, soprattutto, per la durezza del regime esecutivo, come dimostra il nexum o la manus iniectio nelle XII Tavole; a ciò, va aggiunto il discredito sociale che colpisce il debitore insolvente e che permane in tutta la storia di Roma. Il nuovo tipo di indebitamento, nato dalle ricchezze e possibilità offerte dall’espansione, connotato dalla notevole finanziarizzazione dell’economia (testimoniata, tra l’altro, dalla lex Silia de legis actione, che, nel 214 a.C., introduce un nuovo e più snello strumento processuale per la riscossione dei crediti in denaro, la condictio certae creditae pecuniae) e capace di creare strumenti cartolari, muta profondamente il DNA della società romana e mette a rischio la tenuta del sistema istituzionale. Di ciò si avvede il console Caio Flaminio, che, sostenuto dal tribuno della plebe Quinto Claudio e nonostante l’opposizione del senato, roga la lex Claudia Flaminia de senatoribus (di incerta datazione, ma, con ogni probabilità, approvata negli anni della seconda punica e di emissione del denario), che limita notevolmente la capacità dei senatori e dei loro figli di esercitare il commercio marittimo. Assai lucroso, ma anche molto aleatorio e sovente alimentato dal prestito ad interesse, il commercio marittimo andava ad impattare direttamente sulla capacità patrimoniale dei senatori e della classe dirigente romana: in una costituzione timocratica, l’impoverimento della nobilitas non era semplicemente questione privata, ma incideva fortemente sulla selezione e individuazione della élite. Roma si trova così ad affrontare la questione del conflitto di interesse tra libera iniziativa imprenditoriale privata ed esigenze istituzionali. Anche l’iconografia e la topografia del debito cambiano.
La statua del Marsya, antico simbolo della libertas politica rivendicata da Latini e Italici desiderosi di ottenere la cittadinanza romana, diviene simbolo della lotta plebea all’indebitamento, che sfrutta l’iconografia del Marsya, ritratto in ceppi e catene, proprio come il nexus; nella media e tarda repubblica, vicino al tribunal praetoris, si trovano il puteal Libonis e la columna Maenia. Il primo, un pozzo a struttura circolare, vedeva girare ininterrottamente attorno ad esso frotte di usurai e debitori intenti a negoziare; sulla seconda, erano affisse le tabellae declaratorie di insolvenza, affinché tutti conoscessero il nome del debitore inadempiente, marchiato così a vita sul piano sociale, prima ancora che giuridico. L’indebitamento diviene, alla fine della res publica, una vexata quaestio endemica, che condiziona le carriere magistratuali (Catilina), infiamma il dibattito politico (la strumentalizzazione ciceroniana sulle tabulae novae), produce delitti efferati (l’uccisione del pretore Asellione nell’89 a.C.), condiziona l’amministrazione delle provincie e, da ultimo, alla fine delle guerre civili, induce Cesare a riformare complessivamente il tema con una serie di interventi normativi tra il 49 e il 46 a.C.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
- Luigi Pedroni, Censo, moneta e “rivoluzione della plebe”, in MEFRA, 1995, 107, 1, 197 ss.;
- Luigi Lo Cascio, Il census a Roma e la sua evoluzione dall’età “serviana” alla prima età imperiale, in MEFRA, 201, 113, 2, 565 ss.;
- Giovanni Rotondi, Leges publicae populi Romani, Hildesheim-Zurich-New York 1990; Michael Crawford, Roman Republican Coinage (2 volls.), Cambridge 1974;
- Michael Crawford, La moneta in Grecia e a Roma, Bari 1992; W.V. Harris, A Revisionist View of Roman Money, in JRS, 96, 2006, 1 ss.; H.-U. Freyberg, Kapitalverkehr und Handel im romischen Kaiserreich (27 v. Ch.-235 n.Chr.), Freiburg im Breisgau 1988.
Marco Migliorini,
docente di storia romana (Scienze del Turismo) presso il Dipartimento di Diritto Economia e Culture Università degli Studi dell’Insubria sede di Como; docente di Storia del diritto romano (Giurisprudenza) presso il Dipartimento di Diritto Economia e Culture Università degli Studi dell’Insubria sede di Como; membro del CDA della Fondazione Alessandro Volta Como; membro del CDA della Fondazione ISMU Milano; dottorato in diritto del tardo impero romano presso Università degli studi di Pavia; laurea in giurisprudenza (Storia del diritto romano) presso Università Cattolica Milano.