Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
De sapientia poetica: dialogo sulla poesia con Stefano Eugenio Bona – Luca Siniscalco
Mi accoglie una Genova magica: caruggi, palazzi dei rolli, edicole sante si snodano in una luce chiaroscurale sotto la sapiente guida di Stefano Eugenio Bona. Colto, gentile e garbato – a tratti schivo – lo scrittore genovese, nelle vesti di appassionato cicerone, mi fa inerpicare sino al Belvedere del quartiere Castelletto. Lì, il cielo si scoperchia, il sole allude a orizzonti lontani eppure – e chi questa regione l’ha conosciuta, capirà – inoppugnabilmente liguri. In questa atmosfera evocativa, un dialogo sulla poesia prende le mosse – meglio sarebbe dire “ri-prende”, essendo questo tema il nostro colloquio interrotto, ormai da oltre un anno. Un dialogo attorno a quell’arte che, come insegna Novalis, l’idealista magico, «sana le ferite inferte dall’intelletto» grazie alla sua mirabile e contrastante natura, fatta di «verità sublime e piacevole inganno».
L: Come definiresti il tuo fare poesia?
S: È difficile fornirne una definizione univoca. Quel che è certo è che, quando si è immediati (ovvero in uno scavalcare il cerebrale, in una corda tesa tra l’intuizione e il canto subitaneo), allora, solo allora può esserci poesia, quella sorta di incantamento che quotidianamente tento di mettere su carta. Per me la poesia è una danza segreta. Non trovo altre parole per definirla in modo più appropriato. La poesia è anche il mio lusso assoluto, la mia parte più intima, da conservare e educare con gentilezza e accortezza, come una pianta rara e preziosa.
L: Il mio interesse per la poesia, da studioso di filosofia, giunge primariamente da quegli autori, come Nietzsche e Heidegger, i quali hanno attraversato il valore magico delle parole che la modernità – e ancor più la postmodernità – tende a mettere in crisi, persino a negare. Oggi, tanto il linguaggio quotidiano, colloquiale, quanto quello scientifico-analitico disintegrano quelle radici colme di potenza espressiva e numinosa in nome di una concezione asettica della parola, quasi che questa incorpori una funzione esclusivamente descrittiva, didascalica e informativa. È proprio allora, quindi, nel contesto laico e desacralizzato a noi contemporaneo, che la poesia assurge a mezzo privilegiato per ripristinare la vigenza del significato originario della parola.
S: Certamente. D’altro canto, con una metafora: per scorrere bisogna prima essere fonte. Così, la mia interpretazione della poesia è oracolare, si rifà a un concetto originario: investe la parola che entra a contatto coi numi, a patto che non sia una riduzione meramente letteraria il nominare certi piani della Mente. Poesia non è solo il mettere in versi e cadenzare un ritmo, ma è quell’atto creativo che coagula una scintilla, processo in cui una certa erotica si instilla (vedi le manie platoniche e la loro opera di eccitazione sul ri-creatore), determinando una spinta che non differisce molto da quella ermetica. “Sii sempre poeta, anche quando scrivi in prosa” – per dirla con Baudelaire…Sottraiti al compito che ri-ferisce e ri-porta. Crea il tuo solco e sii palingenetico nella parola.
La poesia non è allora un semplice divincolare il subcosciente, in un’ottica disarmonica. La poesia di Novalis, ad esempio, il quale parlava esplicitamente del poeta come mago, mostra nel moderno questa essenza originaria del dire poetico. Non a caso scrivevo, nella postfazione alla mia raccolta Peregrinazioni: «Quando il Cuore percepisce l’intessuta unità di tutte le cose, avvampa il segno del proprio svelarsi: si riluce-riduce in un raggio di Vita perenne nello sfolgorio in biforcata armonia: Suono e Parola».
La poesia, inoltre, è completamente in-utile. Proprio in questo riposa il suo potere ineffabile. Ezra Pound era tragicamente colpito dalla china intrapresa: la poesia, nella storia della letteratura sempre considerata come la forma artistica più aristocratica, ora svilita e volgarizzata, relegata ad orpello, quasi un fastidioso ninnolo anche per gli editori stessi, con punte di sadismo verso chi ha una vera vocazione, costretto a pietire un libro come un miraggio. La cesura fra le due fasi, a mio avviso, è nel Finis Europae, in conseguenza della carneficina della Grande Guerra. I giganti mitteleuropei – penso, fra gli altri, a Rilke e Hofmannsthal – furono gli ultimi testimoni della vecchia Europa. Poi il naufragio non si avrà nell’Allegria di Ungaretti…Ma in un post-Montale… E’ l’avvento di un livellamento cerebrale, di una descrittività e di un gioco spesso ossessivo sul sesso e su impulsi vari, un nichilismo della parola che infatti ha portato i suoi frutti bacati, in quell’andare a capo come creduto crinale per fare poesia. I molti pensano basti ciò, iperbole o meno, fidati, è così. Non credo in una forma metricamente standard a tutti i costi, sostengo che ognuno debba trovare il suo calco…Sperimentare, ricamare, giocare e spingere i limiti, poiché una poesia è un quadro di parole ed occorre trovare la disposizione giusta anche dopo molto…Purché spiri una connessione eufonica, euritmica con il proprio Daimon…
L: Quella Finis Europea di cui Massimo Cacciari ha trattato diffusamente nel suo celebre Dallo Steinhof…
S: Esattamente. Ma non solo. Proprio ora sto scrivendo un libro su Ezra Pound, per poter pormi a colloquio con questo poeta-sapiente, debbo analizzare le porte che la sua peregrinazione sapienziale ha aperto in Europa. Non è un caso che proprio lui abbia attraversato in modo pieno e intenso il naufragio dell’Europa. In Pound si fondono il respiro omerico e virgiliano – ben riscontrato dal già citato
Massimo Cacciari – e uno stile modernista, che non disdegna, come in Browning (tra i suoi riconosciuti maestri) di farsi spugna e recepire mille curiosità, mille argomenti e stili (l’unione di micro e macrocosmo si ha in quei passi ove si svolta dal quotidiano a Giamblico, in un attimo…), smarginando dalla strofa, coagulando in un termine interi mondi. Un’enciclopedia occulta, come nella filosofia di Balzac, che predicava di “mettere interi libri in una frase”, mentre gli altri “non riescono a mettere una frase in un libro”.
L: A me di Pound quello che colpisce è l’esigenza di totalità. Come se tentasse realizzare una Enciclopedia del Sapere Universale non illuminista, facendo scontrare la limitatezza dell’uomo e della Parola con l’apertura sconvolgente del mondo sconfinato. In certi suoi versi si coglie prepotentemente questo tentativo di riunire in poche parole il cosmo, nella sua interezza. Rievocando una figura per molti versi simile alla celeberrima Biblioteca di Babele di Borges.
S: Indubbiamente. Eppure, al contempo, la sua è una poetica fondata sulla purezza, sulla spontanea semplicità della parola. In principio verbum: sinceritas.
Il mio saggio si concentrerà proprio sulla fine della poesia tradizionale, portata al collasso e parimenti al rinnovamento proprio da lui. Al centro pongo il suo intreccio di sapienza arcaica, magica, sciamanica, passando dall’Antico Egitto al Rinascimento, per poi finire nei rivoli poco sondati dell’esoterismo tra Otto e Novecento confluiti nella sua poetica.
L: Il riferimento al mondo magico-esoterico è da te inteso in una prospettiva “allegorica” o integrale? Parli cioè del poeta come mago nel senso che realmente per il poeta, a tuo avviso, è imprescindibile intrattenere un rapporto con il dominio sovrasensibile, spirituale, anche in termini operativi? O è solo una metafora letteraria?
S: Non necessariamente questo legame di cui parli deve sussistere in senso rituale e operativo, anche se fu tale ad esempio in Yeats. La ricerca esoterica indubbiamente avvicina a una concezione profonda della poesia, che è un modo armonico di concepire il sensibile, in rapporto verticale con il piano noetico. Quest’ultima espressione è peraltro una possibile definizione, in termini filosofici, dello stesso far poesia.
La poesia è una verticale che spira in forme espressive differenti. Il poeta può cercare il sovrasensibile in modi diversi: talora più integrali, talvolta solo parziali. Una ricerca dal taglio esclusivamente estetico-letterario, tuttavia, è a mio avviso limitata – con le dovute eccezioni: vi sono stati indubbiamente grandi poeti privi di interesse per il mondo spirituale e iniziatico. Eppure, anche costoro mostrano una certa apertura alla trascendenza nella misura in cui, inconsapevolmente, l’Hermes, il mercuriale, si manifesta in quel lampo di genialità espressiva.
Poeta-mago, quindi, è espressione che non si riferisce alla necessità, per il poeta, di essere un “tecnico” dell’iniziazione, ma alla stessa disposizione artistica immediata, necessaria a riferire l’extra-ordinario vissuto nel cuore. Processo che può essere esemplarmente riscontrato, ad esempio, in un Arturo Onofri o in un Guido De Giorgio: nella loro poesia le espressioni liriche non rimandano a estetismi o escapismi di sorta, bensì a stati interiori simbolicamente raffigurati.
L: Di De Giorgio, indubbiamente, colpisce il pathos, la forza espressiva di questo “Nietzsche” del Pensiero di Tradizione, definito da Evola, ne Il cammino del cinabro, «una specie di iniziato allo stato selvaggio». Il suo linguaggio tenta sempre, in modo vigoroso e roboante, di superare il dualismo, in tutte le forme in cui questo può esprimersi. Nei suoi testi poetici come anche nella saggistica. Basta aprire la Tradizione Romana per prendere visione di alcune espressioni di carattere intimamente lirico – come quella con cui egli definisce il Principio metafisico: « … nell’eternità della Verità incommensurabile, indicibile, impensabile se non da Colui che è Lei e Colei che è Lui, ché in Lui s’inLeia ché in Lei s’inLuia, cascata di soli in una fuga di cieli ove la luce s’ispessisce, tuona, sprofonda, s’inabissa, d’alveo in alveo, oceano divino il cui letto è Lui, la cui onda è Lui, la cui sponda è Lui».
S: Peculiare il caso di Ur, in cui lo stesso De Giorgio fu coinvolto. Un’avanguardia di “anime sparse”, per pochi anni riunite in un disegno molto profondo. Il fulcro era il piano magico, ma non è davvero un caso che vi trovarono spazio alcuni poeti.
Incomprensibile, da questo punto di vista, l’oblio in cui tuttora versa la poesia sorgiva e auratica di Onofri. A lui si continua a prediligere la “poetica delle piccole cose” di Pascoli, i toni gozzaniani di amara rinuncia: e vi è una ovvia nobiltà ed importanza in questi due autori, ma non è possibile che lo slancio puro vanga bandito e visto come invasamento di un folle (lo è, ma ci porterebbe troppo in là…), in nome di un forzato ripiegamento interiore a coprire i fori ove tracima l’oracolarità. Certi slanci fanno quasi paura. All’interno poi di certi artisti moderni e post-moderni, la poesia finisce col manifestarsi come sfogo fine a se stesso, descrizione di scompensi animici e grovigli psicotici, a tinte nichiliste.
L: Questo ragionamento può essere a mio avviso applicato anche all’arte pittorica e scultorea, figurativa insomma. Le avanguardie del primo Novecento, nella loro pur estrema attività disgregatrice, sono state espressione di una grande ricerca – intellettuale, espressiva e interiore. Si pensi soltanto alle vette del Futurismo e del Dadaismo. Questi orientamenti hanno però trovato la loro soglia, il loro confine liminare, che ha spesso richiesto, per avanzare verso lidi ulteriori, una integrazione o un superamento di natura extra-artistica. Oggi gli artisti che si richiamano direttamente a queste avanguardie tendono spesso a reiterare in modo pedissequo quelle esperienze, diventando “scolastici dell’avanguardia”, dello sperimentalismo, seguaci idolatrici di orientamenti che hanno perlopiù già manifestato tutta la propria essenza. Emblematica, in questo contesto, è una recente opera di Cattelan: un gabinetto dorato esposto al Guggenheim di New York. Lo aveva già fatto Duchamp (soltanto, non d’oro) un secolo prima. E proprio quella controversa opera dadaista è diventata icona dell’annosa questione che turba tutto il mondo dell’estetica da millenni, ma ancor più fortemente si mostra nel contemporaneo: cosa è arte e cosa non lo è?
S: È il paradosso della cornice. Essa perimetra ciò che è arte distinguendola da ciò che non lo è. È la forma democratizzata e volgarizzata in cui si esprime l’arte contemporanea. L’arte che non ha più bisogno di un artefice-artigiano, ma di un sensazionalismo di superficie.
L: A mostrare in modo plastico, archetipico, oserei dire, certe contraddizioni dell’arte contemporanea, è poi la provocazione messa in scena dal progetto Invisible Art: una mostra di opere invisibili e immateriali, esibite in uno spazio espositivo vuoto e persino vendute a collezionisti assetati di novità. Un’artista patinata, Lana Newstrom, creazione immaginifica degli speaker radiofonici Pat Kelly e Peter Oldring, sarebbe stata la “geniale” autrice di queste opere. Un fenomeno ideato per colpire con un velo di sarcasmo il “sistema” arte contemporaneo.
All’interno di quest’ultimo, d’altra parte, sovente l’esperienza estetica – per sua natura “sensibile” (dal greco aisthesis, percezione) – viene soppiantata dalla presentazione artistica del concetto puro (concettualismo) o dalla dialettica economica capitalistica nel rapporto valorizzazione/speculazione.
S: Assolutamente. L’arte, quella che opera per immagini, non è un puro schizzo mentale, una estroflessione cerebrale, ma è, per sua natura, epifania.
Con l’arte delle parole, la situazione è ancora peggiore. Le parole possono generare un’alchimia davvero sorgiva, dedicata a pochi – e per questo anti-volgare e antimoderna. La poesia è evocativa e celebrativa, ma alle orecchie moderne risulta puro flatus vocis.
L: La parola poetica, infatti, dev’essere immediata, simbolica e intuitiva. Il lettore-fruitore ne dev’essere fulminato. Ma perché ciò avvenga, rimane fondamentale l’educazione estetica. Senza di essa, la poesia non può essere apprezzata. E così l’arte nella sua totalità.
S: La solitudine dovrebbe passare dall’abolizione delle introduzioni, e necessariamente ogni viaggio che cambia si compie da soli, così davanti ad un libro: d’altro canto, per il poeta, è meglio restare solo sin dall’inizio, senza cercare ambienti ove ammaestrare o mettersi in mostra; dovrebbe aver cura d’una severità nel gioco e una giocosità nella severità… Può cercare comunanze, ma sempre come solo tra i soli, egli è il più solo dei soli. Ogni viaggio autentico è esperienza solitaria, come diceva Proust: «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi».
L: Venendo ora alle tue raccolte poetiche… come comincia il tuo percorso di scrittore, quale la prima pubblicazione?
S: Peregrinazioni, la mia prima raccolta, è uscita nel 2013, per una casa editrice di Recco – e porta in copertina un quadro dell’artista genovese Danilo Capua, amico di lunga data. Fu un’operazione del tutto anti-commerciale: per i temi complessi, lo stile inattuale, la lunghezza della raccolta. Nessuno oggi pubblica un volume con centocinquanta e più poesie. È una forma di sacralità anche questa, nell’esser nietzscheanamente duro con me stesso e renderne partecipe il lettore. Il testo ha anche una Postfazione, da me firmata, che giustifica la ricerca poetica su di un piano teorico. La mia poesia, in ultima istanza, e Peregrinazioni ne offre una prima testimonianza, tenta di offrire squarci di luce sulla materia, è uno sprazzo di attraversamenti (ci direbbe Carmelo Bene) e di febbricitante dis-detta della realtà reale di hegeliana memoria. La poesia è terapia, trascrizione di abbandoni della ratio e vortice in cui spazio e tempo non hanno più senso alcuno (esattamente come nel piano magico).
L: Ciò che ha origine spuria ha spesso il germe della propria trasfigurazione. «Qualsiasi attività umana – chiarisce il “Nietzsche di Bogotà” Nicolás Gómez Dávila – sembra capace di generare un valore, anche quando non presupponiamo nessuna virtualità in essa, né troviamo nulla che lo prefiguri o lo annunci. Così, l’istinto sessuale genera l’amore e la guerra l’eroismo, come un albero spogliato delle foglie, secco e duro, che apparirebbe alla luce del mattino gravido di insperati frutti» (Notas).
S: Peregrinazioni raccoglie molti anni di scrittura, anche poesie acerbe scritte attorno ai vent’anni di età (e prima). Nel decennio successivo, fino ai trent’anni mi sono molto isolato e non ho sentito il bisogno nemmeno di pubblicare, pur mantenendo sempre la mia personale vocazione letteraria, artistica e spirituale, come faro attraverso gli eventi. Ma non solo.
Di una istanza organica, infatti, si tratta, strutturalmente anti-specialistica e interdisciplinare. Il fiume è uno e i suoi rivoli sfociano tanto in poesia come in filosofia, non posso fare a meno di coltivare entrambi i metodi e i linguaggi. Non mi sottraggo ad un tentativo fichtiano di unione della grazia con la forza, del ricettivo con l’attivo. Poesia si dà con la sapienza, sapientemente poetica, la mia poesia è filosofica, così come quando scrivo, in altre sedi, saggi di carattere filosofico, è una vena poetica ad animarli. I due piani procedono come un continuum, senza lacerazioni. Heidegger ha scritto riflessioni molto interessanti in merito, a partire dall’idea del linguaggio come «casa dell’essere». Il suo stesso procedere mediante un linguaggio carico di neologismi risponde alla necessità di attingere alla radice del linguaggio, nello sgorgare primigenio del Logos.
Mi sento così di muovere una critica radicale all’ambiente culturale contemporaneo che solitamente si confronta con la poesia: sia al mondo accademico, che sempre più procede su filoni asettici, incapaci di creatività, basati sul puro nozionismo, sulla filologia priva di pathos, sia alla cultura mainstream, fatta di concorsi in cui i “giovani talenti” (sic) si impalmano vicendevolmente coi loro modelli mummificati, o in cui la poesia è concepita come attività di sfogo (la poesia come intimismo, sensibilità, fragilità della parte femminile dell’universo o preda di volontà belluine del maschio, totalmente succube della dimensione sensibile). Basta l’immagine del poeta-soldato D’Annunzio a smentire questo livellamento fazioso, ben capace di riunire sotto l’egida della Bellezza la parte attiva (maschile) e ricettiva (femminile) della propria identità. Fu la grandezza di Marte e Venere attiva in un solo individuo, mosso ermeticamente proprio nelle pieghe delle sue gesta, tanto dibattute in senso orizzontale.
L: Sono le nozze alchemiche, quelle che fondano il Rebis!
S: Esatto.
L: Volevo adesso chiederti un approfondimento sulle fonti della tua poetica. Mi sembra, ad esempio, che al suo interno emerga una formazione di tipo antroposofico, steineriano. È così?
S: Rudolf Steiner è una figura chiave per comprendere il grande risveglio ermetico che si ha (non a caso) tra Otto e Novecento, poiché fu l’epoca trampolino per il dominio della tecnica, e per reazione si sentì l’urgenza della ricerca spirituale. L’ho approfondito soprattutto in relazione ai miei studi su Onofri, che all’antroposofia aveva aderito. Sono però altri i principali riferimenti cui si abbevera, in maniera più o meno diretta, il mio lavoro in poesia: il simbolismo d’Oltralpe (Baudelaire sempre prediletto, poi Rimbaud),“i ragazzi che amavano il vento” (principalmente Shelley), Novalis, Goethe, Stefan George, Pessoa, Dylan Thomas, Rilke, Trakl, Yeats, Pound. Come mi ha fatto notare qualcuno, la mia poesia non si rifà a correnti letterarie italiane, è più figlia di una cultura trasversale, attingendo alla poesia metafisica, esoterica e mistica (citerò il Mathnavi, a quest’ultimo riguardo), ma in realtà v’è anche la vera tradizione a cui guardo per forza, il canone italico (espressione di Antonio Bruers, che io condivido in gran parte) formato da Virgilio-Dante-D’Annunzio. Posso citare certamente gli incisi di Quasimodo e Ungaretti come il limine osservabile, inalienabile nel porsi in giuoco; vado certamente sul Pascoli per molti rimandi di carattere numinoso-tradizionale e su Leopardi per l’abissalità del pensiero e del sentire. In ambito filosofico e sapienziale dico a bruciapelo Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Platone, Plotino, Giordano Bruno, Marsilio Ficino, Giuliano Kremmerz, Julius Evola.
Però lascia che ti dica una cosa: il poeta (e io devo testarmi tutta la vita nell’esserlo o meno, amleticamente…non mi so poeta, sol lascio andare la stilla con-sonante) non vuole un continuo paragonarsi per segnare le figurine e la metrica col righello del carpentiere e non deve contar parole e temi per imitare: l’uso di un confronto è positivo se opera per farsi…Specchio. Il grado di furore e di ispirazione altrui può corroborarci, senza esser una quadratura del cerchio. Non si fa scuola, non esiste un prof. di poesia. Quindi potrei stare qui a snocciolarti ancora altri nomi a me cari, senza andare al quid: il filo teso nel rapporto con le Muse, o se vogliamo il grado in cui poniamo in essere un’uscita dal mondo come volontà e rappresentazione – allora sì, siamo in quella levitas che ci degna di acconcio conio di parola.
Ulteriormente, gli autori e gli stimoli ad oltrepassarsi in un volo noetico, sono solo semi lanciati e poi passati nel macinino, polveri nel setaccio; il proprio libro non vuole imitazione…Se non della Natura, per andare oltre ella stessa. Torna l’argomento ermetico: il poeta che conosce certi stati della mente, può allora operare alcune alchimie sintattiche.
L: Tornando alle tue pubblicazioni… dopo Peregrinazioni?
S: Fino a oggi ho pubblicato in tutto tre volumi – negli anni 2013, 2015, 2017. Sempre mosso da passione e senza ambizione mondana. “L’eroismo segreto e normale del poeta – dell’artista, del ricercatore in genere – sta nel donare il meglio di sé all’umanità senza aspettarsi né compensi né consacrazioni”, diceva un altro convitato di Ur, Girolamo Comi.
L: Un’attività inutile risulta paradossalmente più utile di tante altre “utili”. Lo ha magistralmente illustrato il Professore Nuccio Ordine nel suo L’utilità dell’inutile (Bompiani, 2013). Il quale cita, a sostegno della sua analisi, Lo Zen e la cerimonia del tè (1906), di Kazuko Okakura: «L’uomo primordiale trascese la propria condizione di bruto offrendo la prima ghirlanda alla sua fanciulla. Elevandosi al di sopra dei bisogni naturali, primitivi, egli si fece umano. Quando intuì l’uso che si poteva fare dell’inutile, l’uomo fece il suo ingresso nel regno dell’arte».
S: Certamente. Il guadagno, in poesia, coincide con l’opera stessa.
Tornando alla genesi delle mie raccolte… nel 2008/2009 con un amico, Andrea Cassaro, storico e poeta, avevamo conosciuto un poeta di valore, Michelangelo Zizzi. Con lui, dopo un incontro a Roma, intendevamo creare una rivista letteraria. Era già un segno dello slancio – un vero e proprio spleen, acceso nel sangue – verso un’attività culturale indipendente, fuori dai canali mainstream, in una libera comunità di artisti – impresa che ora mi sembra si stia in parte realizzando grazie a EreticaMente, progetto editoriale online a cura di Luca Valentini, e anche a più realtà in sviluppo trasversale. Fino a quel momento la mia esigenza di “fare rete” era rimasta frustrata: un desiderio astratto, soddisfatto solo sulla scena genovese, seppur senza “produzioni” culturali concrete, grazie a un gruppo di amici – pittori e musicisti – verso cui continuo a nutrire stima e amicizia.
Nel 2015 esce la mia seconda raccolta di versi, Carmi ricorsivi, per i tipi di LietoColle. Sebbene la rivista letteraria non fosse mai stata lanciata, Zizzi aveva mostrato interesse per il mio lavoro poetico, ed eravamo rimasti in contatto. Per questo ha accettato di prefare, in quarta di copertina, la mia raccolta. Al suo interno le liriche sono accostate a fotografie artistiche di qualità, in carta pregiata. La poesia, d’altra parte, è lusso par excellence. Il testo è una sorta di breve presentazione di un progetto poetico molto più ampio, a cui tengo particolarmente, e che dovrà essere un poema circolare dedicato al senso della storia in termini eraclitei, con numerosi rimandi ai corsi e ricorsi vichiani, intriso di un certo humour caro a Pound. A ciò lavoro da tempo, ogni tanto ci torno per tornirlo, senza fretta. Ha già un titolo: Ricorrenza Ricorsiva. Al suo interno aleggia il senso della nostra storia nazionale e transnazionale: la storia italiana viene dipinta come un allontanarsi in agonia dalla numinosità di Roma Antica, con inframezzi continui su altri piani e su altre epoche. Ma senza romanticismi e teorizzazioni, tutto ciò che conta è il cortocircuito di un rincorrersi di passaggi, mentre la storia ufficiale si fa incalzare da ciò che sfugge all’essere umano e produce esso stesso il circolo eterno. Questo sarà il respiro d’insieme.
Del 2017, infine, la mia terza raccolta: Rapsodie di Passaggio. Pubblicata da edit@, con introduzione “tecnica” di Luca Valentini, alla ricerca di proposte per la sua collana Orfeo (nata proprio per propugnare poesia e letteratura esoterica). Il volume raccoglie atmosfere e intuizioni segnate dall’interferenza fra storia e sovrastoria, immanenza e trascendenza. Raccolta più rotonda della prima, si compone di un processo osmotico tra ricerca spirituale ed evoluzione della traduzione intuitiva, infatti non troverai qui troppi barocchismi e arcaismi.
Una prospettiva sincopata che ne Il punto ho così tentato di rappresentare: «Sentire esterno l’interno / Riposo e flutto immemore / Cogitare tempo eterno». Per il futuro ho vari progetti, tra gli abbozzi narrativi e altri saggi in lavorazione (ora è in uscita il volume su Fiume che vede anche la tua partecipazione), vorrei trovare spazio adeguato per quelle liriche (2/3 raccolte potrebbero essere già approntate) che è così difficile pubblicare ad hoc, al giorno d’oggi.
A cura di Luca Siniscalco