Dante tra Caucaso, Iran e Babilonia – Filippo Mercuri
Il volume, concepito durante il Terzo Congresso Dantesco Internazionale, si compone di quattro saggi a firma di altrettanti studiosi che, seguendo un metodo comparatistico, suggeriscono la presenza di motivi comuni tra la Commedia di Dante e tra gli scenari escatologici che contraddistinguono alcuni racconti sui viaggi nell’aldilà diffusi nell’antichità del Vicino e del Medio Oriente. Lungi dal sostenere la teoria dello scontro delle civiltà, che spinge l’Occidente egemonizzato dagli Stati Uniti d’America a trovare i suoi nemici nell’Islām e nel Confucianesimo1, il professor Davide S. Amore, ispirato dalla lettura di Guénon e di Schuon2, dedica il suo studio allo sviluppo dell’idea del contrappasso nell’aldilà musulmano, ricordando l’influenza esercitata sul Sommo Poeta dai poeti e mistici sufi persiani al-Bisṭāmi (804-874)3, Avicenna (980-1037)4, Sanāʾi (ultimo quarto dell’XI secolo – 1141/1151)5, Sohravardī (1155-1191)6 e ʿAṭṭār (1145/1146 – 1221)7. Anche Ibn ʿArabī (1165-1240) con il suo Kitābu’l-Futūḥāti’l-Makkiyyah (“Libro delle Conquiste Spirituali della Mecca”) avrebbe esercitato un’importante influenza su Dante: “l’Arabo fu il primo a descrivere l’Inferno, i cieli degli astronomi, il Paradiso dei beati, i cori degli Angeli moventisi intorno alla Luce divina, e la bella Donna che gli faceva da guida. Sia l’Arabo che il Fiorentino dovettero scrivere un commento alle loro opere per dimostrare che i loro canti d’amore avevano un significato esoterico e non amatorio”8.
È d’altronde possibile riscontrare somiglianze tra la Commedia e il Kitāb al-Miʽrāǵ (“Libro della Scala”), un testo escatologico arabo-spagnolo che descrive il viaggio che il profeta Muḥammad avrebbe compiuto in una sola notte sulla sella del destriero alato Burāq, scendendo prima negli Inferi (isrāʾ) e poi ascendendo al Cielo (miʿrāj) per venire infine ammesso al supremo cospetto divino, alla distanza di “due archi e meno ancora” (fa-kāna qāba qawsayni aw adnà)9. Questa tradizione islamica trova un corrispettivo speculare in quella iranica dello Ardā Wīrāz Nāmag (“Libro del Giusto Wīrāz”). L’opera, che racconta il viaggio extracorporeo che il sacerdote Wīrāz avrebbe compiuto attraverso l’Inferno e il Paradiso dopo essere rimasto incosciente per sette giorni e sette notti, sarebbe stata redatta, secondo la maggioranza degli studiosi, attorno al X-XI sec. e.v. e costituisce una vera e propria pietra miliare per la comprensione dell’escatologia dell’Iran antico10.
Il saggio dell’assiriologo Pietro Mander riflette sui numerosi parallelismi riscontrabili tra la Commedia e l’Epopea di Gilgameš ponendo in risalto: 1) le analogie tra l’incontro di Gilgameš con Utanapištim e tra quello di Dante con Catone; 2) le affinità tra le due manifestazioni del pianeta Venere nel Poema dantesco, quella bestiale e quella che apre la strada alla Vita Eterna, e quelle di Inana / Ištar, la dèa mesopotamica dell’amore, della fertilità, dell’erotismo e della guerra, intesa come ebbrezza che porta a uno stato di coscienza diverso in seno all’unione degli opposti. Venere è sia Lucifero – è questo il suo nome in qualità di stella del mattino11 – che “lo bel pianeto che d’amar conforta / faceva tutto rider l’orïente, / velando i Pesci ch’erano in sua scorta” (Purg. I, 19-21). Inana / Ištar, omologa di Afrodite e di Venere, compare nel poema di Gilgameš in tre occasioni: 1) come Šamḫat, la ierodula che seduce il selvaggio Enkidu affinché possa prendere contatto con la civiltà e combattere Gilgameš; 2) come se stessa; 3) come Šiduri, la taverniera che si trova ai confini del mondo.
L’Epopea di Gilgameš è stata scritta in lingua accadica ed è attribuita all’esorcista babilonese (mašmašu) Sîn-lēqi-unninni, vissuto probabilmente durante l’XI sec. a.e.v., il quale avrebbe raccolto in un unico intreccio sistematico lo sparso materiale poetico appartenente a una tradizione antichissima, riscontrabile in poesie scritte in sumero e in accadico12. Il poema si compone di dodici tavolette, l’ultima delle quali deve essere considerata a parte perché non può essere integrata organicamente nello sviluppo della storia dell’epopea classica babilonese13.
Secondo questa versione, Gilgameš è devastato dal dolore dopo la perdita di Enkidu, che era diventato suo grande amico e compagno di avventure, e si cimenta perciò in un lungo viaggio alla ricerca dell’immortalità, la qualità che è propria di colui che in sumero è chiamato Ziusudra (“Vita dai giorni prolungati”) e in accadico Utanapištim (“Colui che ha trovato la vita”), la cui storia ha ispirato quella del Noè biblico. Il re della città di Uruk dovrà così recarsi presso l’isola sita dall’altra parte dell’oceano delle acque della morte, dove vivono Ziusudra / Utanapištim e sua moglie, che hanno raggiunto l’immortalità perché sono sopravvissuti al diluvio mandato dagli dèi grazie all’avvertimento del dio Enki / Ea (Tav. XI, 198-205)14.
Gilgameš dovrà anzitutto superare il passo tra le montagne Mašu sorvegliato da due uomini-scorpione. Questi ultimi lasceranno passare il re dopo aver constatato che egli è il figlio di una dea e possiede dunque le capacità per superare il confine che demarca il mondo dei vivi da quello dei morti (Tav. IX, 48-51)15. Dopo aver camminato dentro una lunga e oscura galleria per dodici doppie ore (Tav. IX, 80-85 e 139-170)16, il re vede nuovamente la luce (Tav. IX, 171-190)17: è giunto nell’idillico giardino in cui vive la divina taverniera Šiduri, la quale indica a Gilgameš come raggiungere il traghettatore Suršanabu / Uršanabi, che lo avrebbe aiutato ad attraversare le “acque della morte” (Tav. X, 87-89)18. Utanapištim, sorpreso dal trovarsi di fronte a un mortale (Tav. X, 184-189)19, su consiglio della moglie illustra a Gilgameš come trovare una pianta dalle proprietà ringiovanenti (Tav. XI, 281-286)20, che l’eroe riuscirà a prendere (Tav. XI, 294-299)21. Eppure, mentre Gilgameš è intento a lavarsi nelle acque di un lago dopo il lungo viaggio, un serpente, attirato dal dolce profumo della pianta, la divora e perde così la sua vecchia pelle (Tav. XI, 303-307)22.
Consideriamo adesso come Dante descrive l’uscita dall’Inferno. Il Poeta si aggrappa al collo di Virgilio, che afferra i peli di Lucifero e comincia a scendere lungo il suo corpo, collocato nell’intercapedine del ghiaccio della Giudecca. Giunto all’altezza delle anche del Diavolo, che coincidono con il centro della Terra e della gravità universale, Virgilio si rovescia faticosamente sottosopra e comincia a risalire lungo le sue gambe villose. I due poeti percorrono la disagevole “natural burella” (Inf. XXXIV, 98) e, seguendo nell’oscurità il corso di un ruscelletto, giungono nell’emisfero australe: “e quindi uscimmo a riveder le stelle” (Inf., XXXIV 139).
In un certo senso si può affermare che anche Dante attraversa le “acque della morte”: “Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele” (Purg. I, 1-3). Il tema viene ripreso successivamente nel motivo del “vasello snelletto” (Purg. II, 16-48 e 100-105) condotto dall’angelo nocchiero che trasporta le anime destinate al Purgatorio partendo dalle foci del Tevere. Inoltre, così come il nobile e virtuoso Catone è scelto da Dante come unico testimone dell’antichità romana e gentile, così Utanapištim risulta un nuovo “primo uomo” alla vigilia di una “seconda creazione”. Anche Catone indicherà al Poeta una pianta con la quale poter completare la purificazione per ascendere al monte del Purgatorio: il “giunco schietto” (Purg. I, 94-136). Alla fine della faticosa salita, il Poeta giunge nel Paradiso Terrestre e incontra l’amata Beatrice (Purg. XXX, 22-145), alla quale si era rivolta Santa Lucia su incarico della Vergine Maria perché sollecitasse Virgilio a guidare Dante fuori dalla selva oscura (Inf. II, 52-120).
I confronti di natura tipologica e storico-letteraria che si possono muovere tra la Beatrice dantesca e la figura di Daēnā nello zoroastrismo sostanziano lo studio dell’iranista Andrea Piras. Al momento della morte, secondo quanto si legge nello Hāδōxt Nask23, un testo escatologico in avestico e in pahlavi, l’essere umano perde la capacità motoria (baoδah- / bōγ) e quella olfattiva (uštā̆na- / uštān). La sua anima motoria maschile (uruuan- / ruwān) si leva dal cadavere e, trascorsi tre giorni e tre notti, se si tratta di quella un umano che si è comportato rettamente in vita, questa comincia a risplendere come l’aurora e a inspirare un profumo dolcissimo trasportato dal vento del sud, vedendo poi avanzarsi una stupenda e leggiadra fanciulla: è la sua anima-visione femminile (daēnā– / dēn), la quale riflette i buoni pensieri, le buone parole e le buone azioni compiute in vita e conduce l’anima motoria maschile verso la dimora paradisiaca delle Luci Infinite.
Questa raffigurazione di una divina femminilità e bellezza di ascendenza zoroastriana si ritrova nella concezione coranica delle ḥūrī, le ninfe paradisiache che accolgono l’anima del fedele24, nonché in quella manichea della Vergine delle buone azioni25. Secondo quanto riferisce un testo sogdiano26, quando l’anima del giusto eletto manicheo (non ha ucciso, non ha mangiato carne, ha avuto compassione degli esseri viventi) avanza nel Paradiso della Luce (ruxšnāγarδman), miriadi di fanciulle divine le vengono incontro con fiori e portantine d’oro, la rassicurano e la lodano per le buone azioni compiute che la portano a incontrare la propria Azione in guisa di fanciulla: “E la sua propria azione, (come) una meravigliosa, divina principessa, una vergine, verrà di fronte a lui; frutti immortali e la bevanda, sulla sua testa un diadema di fiori…, ed ella stessa lo indirizzerà [al Paradiso]”.
Beatrice, “quella il cui bell’occhio tutto vede” (Inf. X, 131), quando si manifesta alla luce dell’aurora, è coperta da una nuvola di fiori, così come il sole, sul quale il Poeta può fissare lo sguardo al suo sorgere velato da spessi vapori (Purg. XXX, 22-33). Gli “occhi santi” (Purg. XXXI, 133) di Beatrice sono paragonati da Dante “alli smeraldi” (Purg. XXXI, 116), il che ci fa riflettere su come possano essere comparate le concezioni medievali sulle pietre preziose e quelle dei lapidari iranici, pahlavi e sogdiani, che sintetizzavano speculazioni ottiche provenienti dal mondo antico, ellenistico e orientale27. Del resto, l’occhio solare di Daēnā rende possibile una visione oltremondana che suscita emozione e conoscenza coniugando etica, estetica, bellezza e salvezza. Il mazdeismo è una religione che esalta e sacralizza quel corredo di energie tese all’incremento e alla feconda moltiplicazione di ogni specie, vegetale, animale e umana, in un immaginario mitologico in cui bellezza e luminosità si coniugano in relazione alle Stelle, alla Luna, al Sole, al Fuoco e ad ogni ierofania della Luce. Proprio per questo le culture di matrice indoeuropea, e in particolare quella indoiranica, identificano uno speciale momento del giorno, quello dell’Aurora (ved. Uṣas; av. Ušah; gr. ᾿Ηώς; lat. Ausosa, poi, per rotacismo, Aurora), incarnato da epifanie divine fascinose, attraenti e seducenti, nel senso etimologico del se-ducere ‘portare con sé’: sono vere e proprie dèe-guida, che rischiarano la vista del viandante e rendono percorribile il suo tragitto.
Il libro si chiude con il saggio a firma del ricercatore Paolo Ognibene, il quale riflette sul viaggio che l’eroe Soslan avrebbe compiuto nell’aldilà descritto nel ciclo dei Narti, l’opera letteraria propria dei villaggi di montagna dell’Ossezia, una regione storica che confina a nord con la Federazione Russa e a sud-ovest con la Repubblica di Georgia ed è oggi politicamente suddivisa in Ossezia Settentrionale e in Ossezia del Sud. La lingua parlata in questa regione è l’osseto, che conta circa 500.000 locutori. L’osseto si divide in due dialetti principali, l’iron (orientale) e il digoron (occidentale), l’ultimo dei quali è più arcaico per il suo fonetismo e per le sue forme grammaticali. Alla base della lingua letteraria è il dialetto iron, ma esiste una letteratura e una stampa, relativamente ridotta, anche in lingua digoron. Una tradizione di scrittura osseta esisteva già dalla fine del secolo XVIII, fatta naturalmente astrazione dell’unico monumento degno di nota del X sec., l’iscrizione di Zelenčuk in scrittura greca. Essendo la continuazione dei dialetti sciti dell’antichità e di quelli alani del medioevo, l’osseto conserva e sviluppa le caratteristiche fondamentali di fonetica storica che separano i dialetti sciti dalle altre lingue iraniche antiche. Oltre a ciò, tuttavia, nel fonetismo osseto si sono sviluppati dei suoni estranei alle lingue iraniche, tra cui le occlusive glottidalizzate (k’, t’, p’, c’, č’) caratteristiche delle lingue caucasiche28.
Soslan, l’eroe osseto divenuto d’acciaio ad esclusione delle ginocchia rimaste di carne, non solo riesce ad entrare, e successivamente ad uscire, dal Paese dei morti usando la sua forza fisica, ma si ritrova in un aldilà che rispetto a quello dantesco sembra essere retto dal caos. Infatti, pur esistendo in osseto due termini distinti per indicare l’inferno (zyndon / зындон | zindonæ / зиндонæ) e il paradiso (ʒænæt / дзæнæт | ʒenet / дзенет), nell’aldilà dei Narti, pur essendo prevista una punizione per i rei e un premio per i virtuosi, dannati e beati condividono lo stesso spazio, ritrovandosi gli uni accanto agli altri e formando perciò delle coppie dal valore istruttivo per il visitatore. Nulla viene riferito sulla durata della pena e non ci è dato sapere se per i Narti essa sia eterna oppure se esista una qualche forma di salvezza finale: l’elemento temporale è infatti assente nella narrazione ed il prima ed il dopo sono determinati solo dal succedersi degli avvenimenti che coinvolgono l’unico vivo che viaggia nel Paese dei morti.
Questo sguardo sull’aldilà nartico permette di evidenziare due contrapposizioni nel poema di Dante che ricavano senso proprio da una giustapposizione come i “sommersi” e i “salvati” del folclore osseto. La prima fa riferimento alla coppia antitetica, dal chiaro valore esemplare, formata da Guido da Montefeltro – collocato nella bolgia dei consiglieri fraudolenti dopo che la sua anima era stata oggetto di una contesa tra San Francesco e un diavolo (Inf. XXVII, 112-136) – e da Buonconte da Montefeltro, il figlio di Guido, che fu invece salvato da un angelo di contro alle proteste di un diavolo, che in seguito avrebbe infierito sul suo corpo, per aver pronunciato il nome della Vergine in punto di morte (Purg. V, 85-129); la seconda contrapposizione è di valore didascalico e riguarda i golosi e i lussuriosi nelle prime due cantiche. I primi nell’Inferno sono immersi in una fanghiglia resa maleodorante dalla pioggia, dalla grandine e dalla neve, mentre nel Purgatorio questi protendono le braccia verso frutti profumati e irraggiungibili; i secondi nell’Inferno piangono e sono sbattuti su e giù da una forte bufera come a formare uno stormo di uccelli nel mezzo di una tempesta, mentre nel Purgatorio, divisi nelle due opposte schiere di peccatori secondo natura e contro natura, attraversano cantando un muro di fiamme e si scambiano baci e gesti affettuosi quando si incontrano nell’attesa di poter giungere nel Paradiso Terrestre.
Note:
- Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996, pp. 181-298.
- René Guénon, L’Esoterismo di Dante. Traduzione di Pia Cillario, Adelphi, Milano 2001; Frithjof Schuon, L’oeil du coeur, Gallimard, Paris 1950.
- Abū Yazīd al-Bisṭāmī, Sussurrale ai cammelli. Vita e detti di un grande maestro sufi. A cura di Angelo Iacovella. Prefazione di Bartolomeo Pirone, Luni Editrice, Milano 2022.
- Henry Corbin, Avicenne et le récit visionnaire, Département d’Iranologie de l’Institut Franco-Iranien, Téhéran-Paris 1954.
- Sanāʾi, Viaggio dei servi nel Regno del Ritorno, a cura di Carlo Saccone, Pratiche Editrice, Parma 1993.
- Shihâbaddîn Yahyâ Sohravardī Shaykh al-Ishraq, L’archange empourpré. Quinze traitées et récits mystiques, traduits du persan et de l’arabe, présentés et annotés par Henry Corbin, Fayard, Paris 1976; Id., Il fruscio delle ali di Gabriele. Racconti esoterici. Introduzione e note di Nasrollah Pourjavady. Traduzione di Sergio Foti, Mondadori, Milano 2008.
- Farīdoddīn ʿAṭṭār, Le Livre de l’épreuve (Musībatnāma), traduit du person pour Isabelle de Gastines, Fayard, Paris 1981.
- Alfred Guillaume, Islam, Penguin Books, Harmondsworth 1954, p. 150.
- Corano, LIII, 9. Riferimenti a tale esperienza sono presenti in Corano, XVII, 1; XVII, 60; LIII, 1-18; LXXXI, 19-25.
- Carlo Giovanni Cereti, La letteratura pahlavi. Introduzione ai testi con riferimenti alla storia degli studi ed alla tradizione manoscritta, Mimesis, Milano 2001, p. 126.
- Manlio Pastore Strocchi, Da Ulisse a Catone, in Enrico Malato – Andrea Mazzucchi (a cura di), Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni, II. Purgatorio – 1. Canti I-XVII, Salerno Editrice, Roma 2014, pp. 27-47.
- Gilgameš et sa legendé. Études recueillies par Paul Garelli à l’occasion de la VIIe Rencontre Assyriologique Internationale (Paris – 1958), Imprimerie Nationale Libraire C. Klincksieck, Paris 1960.
- Eckart Frahm, Nabû-zuqup-kēnu, das Gilgamesch-Epos und der Tod Sargons II, “Journal of Cuneiform Studies”, n. 51/1999, pp. 73-90.
- Andrew George, The Epic of Gilgamesh, Allen Lane – Penguin Press, London 1999, p. 95; Stefan Maul, Das Gilgamesch-Epos, C. H. Beck, München 2005, p. 147; Giovanni Pettinato, La Saga di Gilgamesh, in collaborazione con Silvia Maria Chiodi e Giuseppe Del Monte, Rusconi, Milano 1992, p. 223.
- A. George, cit., p. 71; S. Maul, cit., p. 121; G. Pettinato, cit., p. 196.
- A. George, cit., pp. 73-74; S. Maul, cit., p. 121-123; G. Pettinato, cit., pp. 198-199.
- A. George, cit., p. 75; S. Maul, cit., pp. 123-124; G. Pettinato, cit., pp. 199-200.
- A. George, cit., p. 79, 126; S. Maul, cit., p. 129; G. Pettinato, cit., pp. 266-269, 293.
- A. George, cit., p. 83; S. Maul, cit., p. 133; G. Pettinato, cit., pp. 209-210.
- A. George, cit., p. 98; S. Maul, cit., p. 150; G. Pettinato, cit., p. 227.
- A. George, cit., pp. 98-99; S. Maul, cit., p. 151; G. Pettinato, cit., pp. 227-228.
- A. George, cit., p. 99; S. Maul, cit., p. 151; G. Pettinato, cit., p. 228.
- Andrea Piras, Hādōxt Nask 2. Il racconto zoroastriano della sorte dell’anima. Edizione critica del testo avestico e pahlavi, traduzione e commento, Istituto Italiano per l’Africa e per l’Oriente, Roma 2000, pp. 52-57; 65-72.
- Corano, II, 25; III, 14-15; IV, 57; XXXVII, 38-49; XXXVIII, 52; XLIV, 54; LII, 20; LV, 56, 58 e 72; LXI, 12; LXXVIII, 33.
- Werner Sundermann, Die Jungfrau der Guten Taten, in Philippe Gignoux (ed.), Recurrent Patterns in Iranian Religions: from Mazdaism to Sufism. Proceedings of the Round Table held in Bamberg (30th September–4th October 1991), Association pour l’Avancement des Études Iraniennes, Paris 1992, pp. 159-173.
- Elio Provasi, Testi medio-iranici III. Parabole, in Il Manicheismo, vol. III, Il mito e la dottrina. Testi manichei dell’Asia Centrale e della Cina, a cura di Gherardo Gnoli, con l’assistenza di Andrea Piras, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 2008, pp. 177-178.
- Cfr. Zakariyyā al-Qazwīnī, Il libro dei minerali e delle pietre preziose (da Le meraviglie del creato e le stranezze degli esseri), a cura di Marco Ammar, Il Leone Verde Edizioni, Torino 2023.
- Iosif Mikhailovich Oranskij, Le lingue iraniche. Edizione italiana a cura di Adriano Valerio Rossi, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1973, pp. 142-143, 198.
(fonte, per gentile concessione dell’autore: Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici, n. 1/2025, pp. 185-192)
Filippo Mercuri