Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
“Dante Templare” di Robert L. John – VII parte – Lʼenigma del «Cinquecento dieci e cinque» – Piervittorio Formichetti
prosegue…
L’interpretazione templaristica della Divina Commedia da parte di Robert L. John offre anche quella che probabilmente è l’unica soluzione attendibile – benché probabilmente mai concepita da buona parte dei dantisti e forse tutt’ora ignorata da molti di loro – della celebre profezia sul «cinquecento diece e cinque messo di Dio», sulla quale si sono formulate le più disparate ipotesi:
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro
perché divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggo certamente, e perciò ’l narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogni intoppo e d’ogni sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque
(Purg., XXXIII, 37-45).
Con questi versi, Dante fa profetizzare da Beatrice che «l’aquila non sarà per sempre senza eredità», ossia che il Sacro Romano Impero non rimarrà per sempre vacante. Dante infatti riteneva che il trono imperiale fosse rimasto vacante dalla morte di Federico II di Svevia (1250), in quanto da allora nessun imperatore era stato più incoronato a Roma, l’unico luogo da cui, per il Poeta, possa trarre legittimità il concetto stesso di imperium (vedi ad es. DT , pp. 41 e 46). Beatrice profetizza ciò che Dante aveva sempre sperato e auspicato: l’imperatore tedesco Arrigo VII, chiamato anche Enrico VII di Lussemburgo, scenderà in Italia ponendo fine alle guerre intestine provocate dagli eserciti italiani schieratisi dalla parte del re di Francia Filippo il Bello (il gigante), il quale, secondo Dante, aveva provocato il trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone, facendo così apparire la Chiesa una «puttana» (Purgatorio, XXXII, 160) con cui «delinquere». La criptica profezia di Beatrice dice dunque che un cinquecento dieci e cinque, «inviato di Dio, libero da ogni intoppo e sbarramento (sbarro) verrà a liberarci, uccidendo la meretrice (la fuia = la ladra) e il gigante che pecca con lei (con lei delinque)»: un messo di Dio tradizionalmente identificato con l’imperatore Arrigo VII, che eliminerà dalla Chiesa la curia corrotta e toglierà il trono alla casata regnante francese.
L’identificazione del cinquecento diece e cinque con Arrigo VII è ricavata dal riferimento allʼemblema presente negli stessi versi citati, l’aquila («aguglia»), tipico simbolo dell’impero fin dall’antica Roma; che questo sovrano sia per Dante un messo di Dio e un nuovo re Davide si può capire anche dall’accorato appello che il poeta stesso gli rivolgeva nell’Epistola VII :
In te crediamo e speriamo, affermando te del cielo ministro, della Chiesa figliolo, e della romana gloria promotore… Rompi gli indugi, alta prole di Isaia, e dagli occhi del Signore Iddio degli eserciti, alla cui presenza tu operi, prendi fiducia; e con la fionda della tua sapienza e la pietra delle tue forze abbatti questo Golia [il re di Francia] [38].
Come si vede, Dante presenta l’imperatore con titoli quasi messianici; ma come si collegherebbero ai numeri cinquecento dieci e cinque? Scritto in numeri romani, può risultare un anagramma della parola latina DVX, duce, guida vittoriosa del popolo, e questa è sempre stata «l’interpretazione comune degli antichi» [39]. «Altri – scriveva il noto critico letterario Natalino Sapegno – ha voluto vedere nel numero dantesco un’ingegnosa trascrizione del monogramma greco del Cristo, intendendo che il messo sia così designato come “un unto del Signore” […]. Altri ancora […] pensando a un papa, [vi hanno visto l’acronimo] di Domini Xristi Vicarius» [40], con la lettera C sostituita dalla X, la chi (C di “casa”) dell’alfabeto greco, presente per esempio nel famoso monogramma di Cristo utilizzato anche dall’imperatore Costantino, CHI-RO, ossia C-R, le iniziali della parola Cristo. Potremmo continuare ad attribuire al misterioso trigramma significati di questo tipo, anche perché la sigla potrebbe essere interpretata in più modi, per esempio Dominus X Verbarum il Signore delle Dieci Parole (i dieci Comandamenti); o magari Dominus Xristus Vincit, il Signore Cristo Vince (sul male e sulla morte). Questo procedimento era ben noto fin dall’antichità e si ritrova per esempio nel noto acronimo ICHTUS, parola che in greco significa pesce (da cui i termini italiani ittiologia, ittico, ecc.), ma che in questo caso è l’acronimo di:
Iesous = Gesù
Christos = Cristo
Theou = di Dio
Uios = Figlio
Soter = Salvatore.
Questa codificazione di una frase o di più parole mediante un acronimo composto con le iniziali era conosciuto anche nella cultura ebraica con il nome greco Notarikon [41]. Ma come si vede, non ci sono riferimenti intrinseci al fatto che questo numero-acronimo, cinquecento dieci e cinque, indichi proprio Arrigo VII, imperatore del Sacro Romano Impero, come «messo di Dio». Lo scrivente stesso ha tentato in passato una soluzione del DXV dantesco possibilmente basatosi sul codice ebraico detto ghematria, congiunto alla possibilità che Dante abbia pensato alla serie numerica DXV non come alla semplice somma 500 + 10 + 5 = 515, bensì come ad un’espressione matematica che includerebbe una moltiplicazione:
500 + (10 × 5) =
500 + 50 =
550;
questo risultato coinciderebbe con la somma dei valori ebraici delle lettere componenti il nome “germanizzante” del re (originariamente Heinrich), AinRRIGVS (70 + 200 + 200 + 10 + 3 + 6 + 60), più un 1 corrispondente alla prima lettera ebraica, la vocale alef, traslitterata a seconda del caso come A, E, e talvolta apostrofo, ed è associata al principio, all’inizio, alla Creazione e dunque a Dio stesso (all’inizio del testo scritto dell’Antico Testamento in ebraico si trova per esempio tra le parole «Dio creò» e «cielo e terra», circostanza alla base di tutte le elaborazioni della Kabbala, poiché sembra indicare che le primissime realtà create dal Signore siano stati gli archetipi invisibili delle lettere dell’alfabeto) [42].
Ebbene, la plausibile soluzione del «cinquecento diece e cinque» proposta da Robert L. John non ha quasi nulla a che fare con tutto questo, e forse sarebbe stata trovata con relativa facilità dagli studiosi contemporanei se nella nostra epoca la conoscenza della Bibbia (che per Dante e per la stragrande maggioranza degli uomini del suo tempo era il libro per eccellenza, dal quale apprendere le basi di ogni aspetto della realtà) non fosse stata relegata ai margini delle attività importanti, o ritenute sensate solo in un contesto religioso. Scriveva quindi lo John:
Chi è questo salvatore inviato da Dio che gli interpreti di Dante, con tanta frettolosa sollecitudine, hanno trasformato in un DVX, in un DUX, addirittura in un duce [probabilmente qui l’autore, nell’originale tedesco, usa la parola Führer, che come è noto designava in particolare Adolf Hitler, il quale, mentre John concludeva il suo libro, era morto da appena un anno] mediante una trasposizione delle lettere? Beatrice stessa ammette che il suo discorso è oscuro e rappresenta un grave enigma, che però sarà ben presto sciolto (vv. 46-50). Poiché gli eventi attesi non si sono prodotti, l’oscurità dell’enigma sussiste ancor oggi, e a noi non è stato tolto il compito di chiarirlo. Ma che cosa possono intendere Beatrice, [che impersona] la gnosi templare, in quanto profetessa, e Dante come adepto templare, che cosa possono intendere per il vendicatore della “fuia” e del suo gigante, se non la riedificazione del Tempio che Filippo il Bello e Clemente V avevano distrutto? E ricostruttore del Tempio sarà appunto il famoso Cinquecentoquindici. Che il numero indichi una persona è indubbio: se ne trova il modello nell’ultimo versetto del capitolo 13 dell’Apocalisse, dove il numero 666 è indicato come il numero di un uomo.
Quello che a Dante importava era il numero 515 e non la parola DVX formata mediante la trasposizione delle cifre romane, sebbene questo DVX sembri aver conquistato un dominio dittatoriale apparentemente incrollabile nei commenti danteschi. […] Ciò che per lui contava era il numero, non la parola: non si trattava di trovare un titolo per il futuro restauratore di ogni ordine, bensì di formulare un enigma numerico che ne caratterizzasse l’attività: un enigma numerico la cui soluzione si poteva trovare soltanto nel patrimonio della gnosi templare […].
Ma esiste dunque una relazione evidente fra il numero 515 e l’attesa riedificazione del Tempio, con la quale Dante considera connessa la conoscenza della salvezza dell’umanità? Sì, una tale relazione esiste. La si ricava dalla storia dell’antico Tempio di Salomone, esso pure distrutto completamente ad opera del re babilonese Nebukadnezar II (Nabucodonosor II) (morto nel 561 a.C.) Quella distruzione avvenne nell’anno 588 a.C., circa quattrocento anni dopo l’erezione del Tempio. Il re e il popolo di Israele furono deportati in esilio nella Mesopotamia. Quell’esilio durato settant’anni non fu però privo di consolazione per gli Ebrei: profeti maggiori e minori parlarono al loro popolo della futura benevolenza di Dio e del ritorno in patria. Questo tempo di grazia si avverò col dominio dei Persiani. Zorobabele (o Serubbabel), che tanto merito ebbe per il ritorno in patria del popolo di Israele, fu anche il ricostruttore del Tempio. Zorobabele condusse con saggezza e fortuna la sua missione presso la corte persiana. A seguito della sua esposizione dei fatti e di una relazione del governatore siriano, il re Dario fece ricercare nell’archivio di Babilonia gli atti concernenti l’autorizzazione del re Ciro a ricostruire il Tempio: quegli atti non furono trovati lì, ma invece ad Ecbatana (cfr. Esdra, 6, 1-2).
Dopo aver ricevuto le necessarie autorizzazioni, Zorobabele intraprese la ricostruzione del Tempio e compì la sua opera il 3 del mese di Adar nel 6° anno del re Dario (Esdra, 6, 14-15). Verso la primavera dell’anno 515 il Tempio fu terminato e poi solennemente consacrato […]. Anche Léopold Dressaire assegna allo stesso anno 515 la solennità della seconda consacrazione del Tempio. Per Dante, la conoscenza di quell’anno non poteva presentare alcuna difficoltà, anche se non dovesse averla appresa dal suo amico ebreo Emanuel ben Salomon: perciò la riedificazione del Tempio era per lui chiaramente connessa col numero 515. Se quindi Beatrice profetizza il grande “Cinquecento dieci e cinque”, ella non intende preannunziare un futuro DUX, bensì il secondo Zorobabele che riedificherà il Tempio distrutto dalla “fuia” e dal gigante […].
La profezia di Beatrice nella “divina foresta” del Paradiso terrestre, sulla prossima venuta del DXV è l’evidente corrispettivo della profezia di Virgilio nella “selva oscura” sulla prossima venuta del Veltro (Inferno, I, 101-102). Il pagano Virgilio preannuncia il Papa gioachimita; la cristiana Beatrice, l’imperatore gioachimita: il compito comune ad entrambi sarà la realizzazione del piano che già da lungo tempo il templarismo aveva riconosciuto come la via predestinata all’umanità, come la guida dell’umanità alla salvezza in terra e in cielo. Il giubilo con cui Dante accolse l’imperatore Arrigo VII era fondato sulla convinzione che l’atteso imperatore gioachimita sarebbe stato il lussemburghese stesso, le cui nobili doti di carattere lo avrebbero senz’altro reso atto a diventare l’imperatore dell’incipiente terza età del mondo. Se però non fu possibile salvare il templarismo mediante Arrigo, esso sarebbe tuttavia risorto ad opera di un altro imperatore romano. Dante certamente lo sperava con tutta l’anima sua, e fu questa speranza ad ispirargli le grandi parole di Beatrice sul “Cinquecento dieci e cinque”. (DT , pp 291-294, sottolineatura nostra).
Le due profezie, preannuncianti rispettivamente il Veltro e il Cinquecento-dieci-cinque, sono quindi da ritenersi reciprocamente correlate: «il Veltro non è altri che quel papa che intraprenderà la soppressione dello Stato Pontificio, in senso gioachimitico-templare; mentre il DXV sarà lʼimperatore che riaccoglierà nellʼImpero il territorio a suo tempo illecitamente escluso da Costantino» (DT , p. 254) mediante la celebre «Donazione» al papa Silvestro I (che Dante, come i suoi contemporanei, credeva autentica) di quella parte del territorio italiano che fu poi detta, per questo motivo, Patrimonium Sancti Petri (Patrimonio di san Pietro). Da questa “metamorfosi” della Chiesa in regno politico-territoriale, secondo lʼAlighieri, derivarono le lotte feudali, giurisdizionali e militari, la divisione della popolazione italiana in Ghibellini e Guelfi, e la rivalità interna tra questi ultimi divisi in Bianchi e Neri, che aveva segnato direttamente la vita del Poeta. Anche per questo egli deplora la Donazione e i suoi effetti in tre passi del Poema; in Inferno XIX, 115-117:
O Costantin, di quanto mal fu matre
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre;
in Purgatorio XXXII, 129, dove si ode la voce di san Pietro esclamare amaramente, rivolto alla sua Chiesa: «O navicella mia, comʼ mal seʼ carca!»; e in Paradiso XX, 55-57, dove le anime dei re giusti che formano lʼAquila menzionano Costantino come colui che, in buona fede, «sotto buona intenzion che feʼ mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco», ossia trasferì la sede dellʼImpero da Roma a Costantinopoli.
Secondo lo John i Templari, essendo seguaci di una teologia della storia affine a quella di Gioacchino da Fiore, e sulla base della forte autocoscienza politica e religiosa dellʼOrdine stesso, forse condividevano il punto di vista dantesco sulla questione Chiesa-Impero, e probabilmente auspicavano che il papa angelico e lʼimperatore restauratore provenissero entrambi dallʼOrdine templare:
L’Ordine templare, residente in Gerusalemme sul colle di Mòria (punta orientale avanzata del monte Sion) doveva avere già elaborato a fondo, nell’ambito delle idee riformatrici gioachimite, le premesse di una tale salvezza dei popoli, determinando così anche l’aspetto teorico-sociale della gnosi templare, di cui Dante divenne il portavoce più geniale. La nuova età avrebbe dovuto iniziare con una Chiesa puramente spirituale e con un Impero energicamente impegnato nella giustizia. Ma intorno al 1300 c’era invece una Chiesa politica, una dignità imperiale crollata, un Impero [moralmente] in miseria. E a coltivare la conoscenza di come avrebbero dovuto andare le cose c’erano i caparbi ed egoistici monaci-cavalieri del Tempio, col loro seguito di intellettuali. È molto probabile che nell’ambito del Tempio il papa delle riforme e l’imperatore della terza età venissero pensati come adepti templari, o addirittura come membri effettivi dell’Ordine: e in questo modo si spiegherebbe anche la fermissima fede nella ricostituzione dell’Ordine soppresso… (DT, pp. 257-258).
Si comprende […] come nel templarismo spirituale e letterario si radicasse il convincimento che soltanto nel suo ambito potesse formarsi la élite della vita contemplativa, la vita spirituale più alta, analogamente a come la vera adorazione di Dio era stata nellʼantichità legata al Tempio di Gerusalemme. La saggezza di Salomone era fiorita nel suo massimo splendore proprio nel medesimo luogo in cui si ergevano ora la casa-madre e la chiesa madre dei Templari: questa coincidenza doveva assumere unʼimmensa importanza per dei cavalieri medievali cresciuti nella consapevolezza della tradizione aristocratica, e per degli adepti aspiranti alla illuminazione spirituale. (DT , p. 345)
Di conseguenza, come si vedrà nella parte successiva di questa sintesi, la stessa collocazione geografica e le caratteristiche del luogo di fondazione dell’Ordine templare potrebbero avere acquisito una valenza simbolico-allegorica fondamentale nell’ideazione del Poema dantesco e nella struttura del cosmo da esso presentata.
Note:
38 – Dante Alighieri, Epistola VII, 2-8, citato in Id., Divina Commedia, a cura di Italo Borzi, Giovanni Fallani e Silvio Zennaro, Roma, Newton & Compton, 1993 / 2010, p. 430, nota ai vv. 41-45.
39 – Ibidem, ivi.
40 – Dante Alighieri, Divina Commedia – Purgatorio, a cura di Natalino Sapegno, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 363-364
41 – Cfr. ad es. Gianni Pilo, Sebastiano Fusco, Il simbolismo kabbalistico del Golem, introduzione a Gustav Meyrink, Il Golem, Roma, Newton & Compton, 1994, p. 17.
42 – Cfr. Piervittorio Formichetti, Il DXV predetto da Dante: molto più di un anagramma?, su https://www.academia.edu/30503596/Il_DXV_di_Dante_molto_più_di_un_anagramma.
43 – Anche nelle attuali edizioni annotate della Bibbia l’anno sesto dell’imperatore Dario coincide con il 515 a.C. Per il contesto della distruzione e ricostruzione del Tempio di Gerusalemme ed il ruolo di Zorobabele, vedi ad es. Albert Olmstead, L’impero persiano, trad. it. Roma, Newton & Compton, 1997 (ed. or. University of Chicago, 1948), pp. 80-84, 86, 131-132, 221-224, 229-232, 304-306.
continua …
Piervittorio Formichetti