“Dante Templare” di Robert L. John – VI parte – Lʼonnipresente numero 13 e lʼ«astuto serpente» – Piervittorio Formichetti
(prosegue)
Come se tutto ciò che si è notato fin qui non bastasse, il Poema dantesco – evidenzia Robert John – si rivela costellato, in modo tuttʼaltro che casuale, da molti elenchi di tredici nomi, gruppi e toponimi. Il primo di essi è quello degli abitanti del «nobile castello» (Inferno, IV, 106) situato nel Limbo (il Limbus patrum dei teologi), in cui dimorano in eterno le anime delle persone sagge e virtuose vissute prima di Cristo e di quelle non cristiane, nonché quelle dei bambini che non poterono beneficiare del battesimo. A proposito di questo edificio metafisico, lo John afferma che anchʼesso avrebbe un modello templare:
l’intera disposizione di quel castello nel Limbo riproduce quella del celebre castello dei Templari in Palestina detto Castrum peregrinorum (Chastel Pélérin), un edificio possente e sontuoso la cui grandezza è ancor oggi testimoniata dalle rovine di Athlit, a sud-ovest del monte Carmelo. La descrizione che ne fa il famoso domenicano Vincenzo di Beauvais [nella sua opera Historia Orientis, conclusa nel 1131] ricorda in ogni punto il castello dei non-battezzati alle soglie dell’inferno. (DT , p. 96; cfr. anche p. 209).
Dante scopre chi siano i suoi eterni abitanti dalle parole di Virgilio, che fa parte di loro e glieli indica. I canti IV, V e VI infatti, presentano ciascuno tredici grandi personaggi non cristiani, storici e mitologici, antichi e recenti rispetto a Dante stesso: da Omero ad Averroè, dal Saladino a Platone, a Cornelia madre dei fratelli Gracchi (famosi rappresentanti del popolo nella storia dellʼantica Roma repubblicana).
Il numero tredici ha un ruolo appariscente – come lo definisce John – proprio in ambito Cistercense e Templare. Ad esempio, un nuovo convento cistercense poteva essere fondato soltanto se, oltre all’abate, erano presenti dodici monaci pronti ad abitarvi; il Capitolo templare, che aveva il compito di eleggere il Gran Maestro, era composto da dodici cavalieri (compreso il Maestro) più un cappellano; un Templare che, per qualche impedimento, non poteva partecipare al culto mattutino con i confratelli, era tenuto a recitare come preghiera mattutina tredici Pater noster in onore della Vergine Maria, e altri tredici come uffizio quotidiano (cfr. DT, p. 207). Tale numero traeva importanza, naturalmente, dal fatto che Gesù con i dodici Apostoli formavano un gruppo di tredici uomini. L’autore fa presente che proprio uno studioso italiano, Giuseppe Manacorda, notò forse per primo, nel 1908, che le anime dell’inferno menzionate per nome da Dante fossero raggruppate sempre per tredici [35]. I seguenti tredici personaggi nell’Inferno, ad esempio, si presentano da sé:
Ciacco, Jacopo Rusticucci, Catalano dei Malavolti, Vanni Fucci, Maometto, Pier da Medicina, Mosca de’ Lamberti, Bertran dal Bornio, Capocchio, Mastro Adamo, Camicion de’ Pazzi, il conte Ugolino della Gherardesca, Alberigo de Manfredi.
Altri tredici sono identificati da Dante a partire da qualche segno di riconoscimento, ad esempio ciò che essi raccontano di se stessi:
Virgilio, Francesca da Rimini, Cavalcante Cavalcanti [padre del poeta Guido], papa Anastasio, Pier delle Vigne, Currado Gianfigliazzi, lʼUbriachi, uno Scrovegni, papa Niccolò III, Ciampolo Navarrese, Guido da Montefeltro, Griffolino d’Arezzo, Bocca degli Abati.
Ulteriori tredici sono pure riconosciuti dal Poeta, ma non è esplicito in quale modo; alcuni di essi sono stati conosciuti da lui personalmente, altri, specialmente quelli mitologici mostruosi, sono facilmente riconoscibili dall’aspetto:
Papa Celestino V (colui che per viltade fece il gran rifiuto, che però potrebbe essere anche Ponzio Pilato), Minosse, Cerbero, Pluto (Plutone), Filippo Argenti, Cavalcante Cavalcanti (lo stesso del gruppo precedente), il Minotauro, le Arpie (insieme), Brunetto Latini, Venedico Caccianimico, Alessio Interminei, Puccio Sciancato, Francesco Cavalcanti.
E così continuando, altri tre gruppi di tredici anime dannate (alcune delle quali già classificate nei tre elenchi di cui sopra) sono quelli che Dante incontra rispettivamente nei canti VII, VIII e IX; i violenti, immersi nel Flegetonte (il fiume di sangue bollente), compresi i tre Centauri mitologici (Chirone, Nesso, Folo) sono tredici; all’interno della città infernale di Dite, i suicidi, i sodomiti e gli usurai sono in totale tredici, compreso il mostro Gerione, che – come si è visto – secondo John ha il ruolo del demonio istigatore di Noffo Dei, il bancario fiorentino trasferitosi a Parigi e probabilmente corresponsabile del tragico destino dell’Ordine templare. Nel canto XI compaiono i tredici nomi delle anime abitanti le prime quattro Malebolge infernali; nel successivo canto XXI (per un errore dell’autore o di stampa, nella traduzione italiana il numero romano del canto è XII), si menzionano i nomi grotteschi di dodici diavoli più quello del gruppo da loro formato:
Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante: collettivamente, Malebranche.
Nelle successive tre Malebolge troviamo ancora tredici anime suddivise tra barattieri, ipocriti e ladri; dal canto XXVI alla fine dell’Inferno, si incontrano altri tre gruppi ciascuno di tredici dannati, abitatori della nona e decima delle Malebolge, compresi Ulisse, il conte Ugolino, Giuda, Bruto (figlio di Giulio Cesare) e Satana-Lucifero. In realtà nell’anno 1300 due di queste persone, Frate Alberigo e Branca d’Oria, erano ancora in vita, ma Dante colloca ugualmente le loro anime all’Inferno, utilizzando (come nel caso di Noffo Dei) la concezione del destino ultraterreno secondo la quale l’anima del traditore precipita all’Inferno già durante la vita del colpevole, mentre l’interno del suo corpo viene rimpiazzato da un demonio.
Anche nella seconda e terza cantica del poema, Dante ha ripartito sovente le presenze umane, e ora angeliche, in gruppi di tredici: il che rende molto improbabile che questo continuo ricorrere del numero tredici sia casuale ed estraneo al filo-templarismo del Poeta. Nel Purgatorio gli angeli intervengono temporaneamente, come presenze straordinarie, dato che la loro dimora è il Paradiso; ma anchʼessi in totale risultano dodici più uno, l’arcangelo Gabriele, che non è presente nel Purgatorio ma è aggiunto dallo John ai dodici in quanto anche questi ultimi, come Gabriele, abitano il Paradiso:
L’angelo nocchiero bianco; i due angeli verdi con le spade fiammeggianti; l’angelo portinaio grigio o color della terra; l’a. dell’umiltà; l’a. dell’amore fraterno; l’a. della pace; l’a. della sollecitudine; l’a. della giustizia; l’angelo rosso dell’astinenza; l’a. della castità; l’a. del muro di fuoco; l’arcangelo Gabriele (quest’ultimo in Paradiso, XXXII, 95).
Segue nei canti dall’I al VI un’altra serie di anime penitenti situate nell’Antipurgatorio, anch’esse tredici:
Catone; il musico Casella; re Manfredi di Sicilia; Belacqua; Jacopo del Càssero; Buonconte di Montefeltro; Pia deʼ Tolomei; Benincasa; Guccio de’ Tarlati; Federigo Novello; Gano Scornigiani; Orso degli Alberti; Pier della Broccia.
Nel canto XIV, l’anima di Guido Del Duca, che fu giudice a Faenza e a Rimini, elogia la Romagna del passato, non ancora degenerata come quella del suo presente, ricordando una serie di persone e di famiglie che erano stati il vanto della sua regione, anche questo un elenco di tredici nomi (DT, p. 219):
Lizio di Valbona; Arrigo Manardi; Pier Traversaro; Guido di Carpegna; Fabbro Lambertazzi; Bernardino di Fosco; Guido da Prata; Ugolino d’Azzo; Federigo Tignoso; Traversara; Anastagi; Pagani; Ugolino de’ Fantolin.
Di grandissima importanza per l’interpretazione templare della Commedia proposta dallo John è il gruppo dei tredici «prìncipi negligenti» che sostano nella valletta (canti VII-VIII) dove avviene il celebre incontro fra Virgilio, Dante e Sordello da Goito; quest’ultimo in realtà non era principe, bensì possessore di alcuni castelli, ma Dante lo include nella compagnia, che peraltro comprende un altro non-regnante, cioè un giudice (Nino Visconti):
Sordello; re Rodolfo d’Absburgo; re Ottocaro (Ottokar) di Boemia; re Filippo III di Francia; re Enrico III di Navarra; re Pietro III d’Aragona; Carlo I d’Angiò re di Napoli; re Alfonso III d’Aragona; re Enrico III d’Inghilterra; Guglielmo marchese del Monferrato; il giudice Nino Visconti; il marchese Corrado Malaspina; un innominato che prega.
Non a caso, di tredici uomini era composto un regolare capitolo dei Templari, compresi il cappellano e il Gran Maestro; inoltre, gran parte dei re che compongono questo gruppo nel Purgatorio erano stati ben disposti nei confronti dei Templari presenti sui loro territori, «se pure non adepti essi stessi, come in alcuni casi si potrebbe forse documentare» (DT, p. 203). Ma gli indizi in tal senso da parte del Poeta non finiscono qui, anzi ne includono uno tanto arguto quanto importante, sottolineato anche dalla suggestiva atmosfera della scena.
Il giorno in cui Dante e Virgilio giungono nella valletta dei principi è la Pasqua dell’anno 1300 (e tra lʼaltro, 1300 è prodotto di 13 per 100, numero dei canti della Commedia): il Sole sta tramontando, e le tredici anime intonano il canto liturgico mariano Salve Regina, mentre per il giorno di Pasqua la liturgia prevedeva, già all’epoca, un’altra preghiera dedicata alla Madonna, il Regina Caeli laetare. Dante non sbaglia, né vuole sovvertire la liturgia: menziona il Salve Regina perché era cantato ogni giorno, compreso quello di Pasqua, dai precursori dei Templari, cioè i Cistercensi (Salve Regina è attribuita a san Bernardo stesso). Dal tramonto passano poche ore, durante le quali Dante apprende da Sordello che le anime lì raccolte stanno attendendo lʼarrivo di un misterioso serpente, e parla con due di loro, Visconti e Malaspina; dopodiché uno dei tredici (innominato) intona un’altra preghiera, Te lucis ante terminum (che veniva recitata appunto prima della notte) voltandosi col viso ad oriente e alzando le braccia: in questa posizione, cioè rivolti verso Gerusalemme, pregavano i Templari in Europa, come ricorda anche un’altra fonte probabilmente filo-templare citata più volte da John, i Documenti d’Amore (I, 24) di Francesco da Barberino (1264-1348). Tutto ciò indica che Dante qui ha voluto rappresentare “in codice” un regolare Capitolo templare in riunione.
A questo consesso di tredici uomini si avvicina in modo subdolo un serpente, una «biscia», che è stata interpretata ovviamente come simbolo del demonio e delle tentazioni diaboliche: l’«astuto serpente» del Genesi. Tuttavia – fa domandare l’autore – che senso avrebbe inserire il serpente tentatore nel Purgatorio, dove le anime penitenti, essendo già trapassate, non possono più cadere nel peccato come durante la vita terrena? Vi è dunque da chiarire qualcosa; Dante interviene infatti rivolgendosi al lettore, e particolarmente all’iniziato al genere di allegorie filo-templari da lui utilizzato:
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero
che ’l velo è ora ben tanto sottile
certo che ’l trapassar dentro è leggiero
(Purg., VIII, 19-21).
Il significato del serpente non è dunque quello solito della tentazione diabolica; il rettile in questo caso è metafora di qualcos’altro, che però non è estremamente criptico: «astuto serpente» in latino si traduce callidus serpens, e proprio Callidi serpenti (Dell’astuto serpente) sono le prime parole della bolla pontificia inviata da papa Clemente V il 30 dicembre 1308 al re spagnolo Giacomo II d’Aragona per invitare lui e gli altri sovrani d’Europa (alcuni dei quali erano figli di quelli riuniti da Dante nella valletta del Purgatorio) a consegnare senza indugio allʼautorità dei rispettivi vescovi i Templari presenti sui loro territori, ossia a farsi complici del progetto di re Filippo IV di Francia (DT, pp. 202). Fino a quel momento, re Giacomo era stato ben disposto verso i Templari del suo regno, piuttosto che verso le manovre francesi, anche perché i Templari in Spagna avevano combattuto degnamente contro i «Mori». La bolla papale Callidi serpenti – dice lo John – per i filo-templari come Dante fu l’amara dimostrazione che i Templari non avrebbero più potuto contare nemmeno sul sostegno della Chiesa.
Il serpente astuto-bolla pontificia, però, viene scacciato immediatamente dai due angeli verdi muniti di spade terminanti in una fiamma di fuoco, precedentemente discesi dal Cielo per proteggere la riunione dei tredici. Secondo l’interpretazione dello John, l’intervento dei due angeli sarebbe la metafora del soccorso divino: mentre il papa e i prìncipi della Chiesa terrena stanno agendo verso i Templari in modo vergognoso e opportunistico, i beati nel Paradiso, gli angeli e il Signore non abbandoneranno i Templari; sul piano metafisico, essi avranno sempre Dio dalla loro parte, e quindi, nonostante l’ostilità della Chiesa e le scomuniche, possono sperare (verde: colore della speranza) nella salvezza oltremondana.
L’autore formula quindi un’analoga ipotesi su un altro decreto papale di Clemente V, il documento decisivo che mise fine all’Ordine templare: la bolla Vox in excelso del 22 marzo 1312. Vox in excelso significa «voce nelle massime altezze», cioè nell’alto dei cieli; a questa «voce» Dante, per dichiarare in modo non palese il suo sdegno e la sua contrarietà, avrebbe contrapposto un’altra «voce nell’alto dei cieli»: il «grido» di scandalo e d’indignazione proferito dalle anime beate del Paradiso (Par., XXI, 134), che in questo modo esprimono la disapprovazione divina per la decisione del pontefice. La Vox in excelso papale condanna i Templari come infedeli; la vox in excelso dei beati in Paradiso condanna la «voce» papale: di questa reazione ultraterrena, della quale il Poeta era convinto, egli non poteva certo parlare apertamente, dato che «chi, dopo il 22 marzo 1312, avesse osato proclamarsi ancora Templare, era destinato alla scomunica e, dopo un anno, sarebbe stato dato in balia del tribunale degli eretici, che a quel tempo operava con la spada e col fuoco» (DT, p. 109). Del grido sdegnato dei beati, Dante ha udito il fragore, ma non ha compreso le parole; nel canto successivo (Paradiso, XXII, 7-15), Beatrice gli spiega, in modo parzialmente enigmatico, che quel grido annuncia «la vendetta / che tu vedrai innanzi che tu muoi»: il Poeta, cioè, vedrà che l’ingiusta azione del papa verso i Templari sarà vendicata dalla giustizia divina prima che egli stesso sia morto. Come è noto, Dante morì il 14 settembre del 1321, nove anni e mezzo dopo la soppressione dell’Ordine templare; e in effetti, nei primi anni di questo intervallo di tempo, morirono tutti i principali responsabili della fine dell’Ordine:
- il delatore fiorentino Noffo Dei e il vice-cancelliere francese Guglielmo de Nogaret, entrambi nel 1313, il primo dei quali impiccato;
- l’ex ministro di re Filippo, Enguerrand de Marigny, fu appeso alla forca sotto gli occhi di suo fratello Filippo de Marigny, vescovo di Sens, il quale nel maggio del 1310 aveva condannato al rogo circa cinquanta templari che avevano ritrattato le proprie confessioni estorte (cfr. DT , p. 177);
- papa Clemente V morì il 20 aprile 1314;
- re Filippo IV il Bello lo seguì il 29 novembre dello stesso anno.
Per una ulteriore coincidenza, il giorno della morte di Dante, il 14 settembre, è la stessa data in cui, nel 1307, era stato emanato da re Filippo V il primo ordine di cattura dei Templari; data che inoltre, nel calendario cattolico, commemora lʼ«esaltazione della santa Croce».
Ma nella Commedia vi sono molte altre serie di tredici. Il totale dei cittadini di Firenze collocati nell’Aldilà dantesco – 32 all’Inferno, 4 in Purgatorio e 3 in Paradiso incluso Dante stesso – assomma di nuovo a 39, cioè tre volte tredici:
NellʼInferno:
1) Ciacco, Arrigo, Filippo Argenti, Farinata degli Uberti, Cavalcante Cavalcanti, Ottaviano Ubaldini, un suicida anonimo, Brunetto Latini, Francesco d’Accorso, Andrea de’ Mozzi, Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi, Jacopo Rusticucci;
2) Guglielmo Borsiere, Gianfigliazzi, Ubriachi, Buiamonte, Noffo Dei come Gerione, Corso Donati, Cianfa Donati, Brunelleschi, Buoso degli Abati, Puccio Sciancato, Francesco Cavalcanti, Mosca de’ Lamberti, Geri del Bello;
3) Capocchio, Gianni Schicchi, Sassolo Mascheroni, Bocca degli Abati, Gianni de’ Soldanieri, Tesauro del Beccheria.
Nel Purgatorio: Casella, Belacqua, Forese Donati (cognato di Dante), Ubaldino della Pia.
Nel Paradiso: Piccarda, Cacciaguida, Dante.
Oltre ai personaggi storici, anche le «svariate immagini e [le] voci misteriose con le quali Dante ha animato il suo Purgatorio [e] che stanno tutte in stretta relazione con le pene che di volta in volta il poeta vede inflitte alle anime» (DT, p. 220) si presentano, lungo i canti dal X al XXVI, in numero di tredici: «le raffigurazioni sono bassorilievi scolpiti in parte sulla parete del monte, in parte sul pavimento; le immagini appaiono a Dante sotto forma di visioni, oppure nella sua fantasia. Sommando accuratamente tutte quelle percezioni esteriori o interiori, si ottiene il numero cinquantadue, ossia il numero di quattro cerchie templari; per di più, rileviamo che il numero dei bassorilievi scolpiti nel pavimento è a sua volta tredici» (ibidem, ivi):
tre raffigurazioni sulla parete; tredici bassorilievi sul pavimento; tre voci; due voci di tuono; tre visioni; tre immagini di fantasia; due voci di penitenti; tre chiamate durante il giorno; sette chiamate durante la notte; cinque voci dal primo albero; due voci dal secondo albero; quattro esempi di castità; due esempi di lussuria.
In particolare, i tredici bassorilievi rappresentano i seguenti esempi di punizione della superbia, tratti sia dalla Bibbia sia dalla mitologia e dall’epica greche:
la caduta di Lucifero; la caduta del gigante Briareo; i cadaveri dei Giganti; Nembrot (Nemrod, il re che edificò la torre di Babele); Niobe; Saul; Aracne; Roboàm; Almeone; Sennacherib; Ciro e Tamiri; Oloferne; la caduta di Troia.
Questi exempla formano la famosa serie di dodici terzine più una, ripartite per quattro in base all’iniziale del primo verso: le prime quattro con V, dal verbo in prima persona Vedea; le seconde quattro con l’interiezione O (ad es. O Niobe, con che occhi dolenti…; le successive quattro con la M del verbo Mostrava, riferito al bassorilievo osservato dal Poeta; più l’ultima terzina, in cui ciascun verso inizia con V, O e M:
Vedea Troia in cenere in e caverne:
O Iliòn, come te basso e vile
Mostrava il segno che lì si discerne!
Robert L. John attira quindi l’attenzione su un’analoga serie di acrostici nel Paradiso, le nove terzine che compongono i versi 115-141 del canto XIX, nei quali le anime dei re giusti che formano l’Aquila luminosa nel Cielo di Giove menzionano con biasimo i nomi dei principi e re d’Europa ingiusti, che sono ancora tredici:
Alberto d’Absburgo; Filippo IV il Bello; Robert Bruce di Scozia; Edoardo I [dʼInghilterra]; Ferdinando IV di Castiglia; Venceslao IV di Boemia; Carlo II di Napoli; Federico II di Sicilia; Giacomo di Maiorca; Giacomo II d’Aragona; Haakon VII di Norvegia; Dionigi del Portogallo; Stefano Orosio II di Serbia.
Di queste nove terzine, tre iniziano con L (Lì si vedrà…), le seconde tre con V (Vedrassi…) e le ultime tre con E. Solitamente questo acrostico viene spiegato con la parola LVE, lue (con U latina), sinonimo di sifilide o di pestilenza, una metafora per indicare che l’ingiustizia, rappresentata da quei re, rende “infetta” la Terra; allo stesso modo, l’acrostico VOM del Purgatorio indicherebbe la parola UOM, Uomo, per suggerire che la superbia – di cui quei bassorilievi illustrano la punizione – è il principale peccato umano. In modo originale, lo John propone un’ipotesi di interpretazione differente, che collega tra loro i due acrostici sulla base del tema della giustizia:
Mentre l’acrostico [VOM] è usato nel Purgatorio per dimostrare la giustizia del Cielo, l’altro [LVE], nel Paradiso, compare in un testo che biasima l’ingiustizia di sovrani il cui compito principale sarebbe quello di amministrare in Terra la giustizia (DT, pp. 229-230).
Secondo lo John, per il filo-templare Dante il massimo esempio di ingiustizia perpetrata da un sovrano era certamente l’attività di Filippo il Bello contro l’Ordine templare, culminata nella condanna al rogo – da parte dellʼInquisizione ormai totalmente allineata alle pretese del re – dell’ultimo Gran Maestro templare, il famoso Jacques de Molay. Lo John ipotizza quindi questa sorprendente soluzione del significato dei due acrostici:
Per le lettere VOM e LVE usate da Dante nei suoi due acrostici, vorremmo proporre la trasposizione seguente: V V MOLE, cioè la trasposizione abbreviata e fonetica di Vivus Vivit Molay, che significa Viva Molay. Effettivamente, se un Noffo Dei ha trovato il proprio monumento infernale nel drago Gerione, il Poeta non poteva certo tralasciare di innalzarne uno alla più nobile delle sue vittime: il Gran Maestro Jacques Molay. Entrambi i nomi (quello di Noffo e quello di Molay) dovevano essere taciuti; ma, in entrambi i casi, il genio ha trovato il modo di chiarire ciò che non poteva esprimere apertamente. Se la morte di Molay sul rogo fu un’ingiustizia, la sua sopravvivenza nel ricordo dei posteri è un’esigenza di giustizia. Ecco infatti che le due metà di quell’occulto monumento al Molay sono inserite in due brani il cui tema è così chiaramente “la giustizia e l’ingiustizia” (Purg. XII, 25-63 e Par. XVIII, 88-92 e XIX, 115-132). La lettura della V come abbreviazione di vivus e vivit corrisponde perfettamente all’uso classico (DT , p. 231).
Per quanto riguarda il Paradiso, il totale degli «abitanti del Cielo» incontrati e menzionati dal Poeta, compresi l’arcangelo Gabriele, Gesù Cristo e la Vergine Maria sono 38, cominciando dalla concittadina Piccarda (canto III) e concludendo con san Bernardo (canto XXXI); tra essi figurano anche due politeisti moralmente retti e caritatevoli. Uno è Rifeo (Paradiso, XX, 67-72, 118-121), un eroico cittadino di Troia che Virgilio, nellʼEneide, ricorda come «iustissimus» (II, 339), la cui anima ora «forma un punto luminoso nel ciglio dellʼAquila», la quale spiega a Dante che a quel «principe» (forse nel senso di moralmente nobile) fu concessa la grazia di Dio per amore della sua giustizia, benché più di mille anni prima che Cristo istituisse il battesimo (DT , p. 100); lʼaltro è lʼimperatore romano Traiano, che secondo una leggenda medievale diffusa in tutta Europa, si sarebbe dimostrato caritatevole nei confronti di una vedova alla quale era stato ucciso il figlio innocente: nonostante stesse recandosi in guerra, Traiano smontò da cavallo, ascoltò lʼanziana e fece condannare a morte gli uccisori del figlio; per questo atto di giustizia, cinque secoli più tardi papa Gregorio Magno avrebbe pregato per lʼanima dellʼimperatore, ottenendone la beatitudine ultraterrena (cfr. Purgatorio, X, 73-93; Paradiso, XX, 44-45, 100-117) [36]. Il totale diventa 39, cioè di nuovo tre volte 13, aggiungendo Dante stesso, che «palesemente si considera un pellegrino terrestre predestinato alla gloria eterna» (DT, p. 222): il suo antenato Cacciaguida degli Elisei, morto nella II crociata (1147-1149) che Dante immagina di incontrare in Paradiso (canti XV-XVII), lo accoglie infatti con un’esclamazione latina di entusiasmo che allude a due ingressi di Dante in Paradiso: il presente, durante la vita corporea, e quello futuro, per la vita eterna:
O sanguis meus, o superinfusa
gratia Dei, sicut tibi cui
bis unquam coeli ianua reclusa!
[O sangue mio, o grazia di Dio infusa dall’alto (in te), a chi come a te fu dischiusa due volte la porta del cielo?]
Nel Cielo del Sole, sede dei teologi (canti X-XIII), il Poeta incontra le anime di san Tommaso d’Aquino e di san Bonaventura, i due massimi teologi rispettivamente domenicano e francescano, entrambi accompagnati da un seguito di undici anime sotto forma di fiamme luminose. Ciascuna delle file di undici anime sommate al rispettivo santo di riferimento dà il numero dodici: aggiungendo a entrambe Dante stesso, otteniamo di nuovo il tredici. Curiosamente, tra quelle che accompagnano Tommaso vi è il suo collega-avversario teologico Sigieri di Brabante – che, come si è visto, Dante potrebbe aver conosciuto personalmente – ma anche il re Salomone, che secondo la tradizione fu il più saggio dei re ebrei e autore di gran parte del libro biblico dei Proverbi; però non fu certamente un teologo cristiano! Alla luce di quanto esposto finora, i lettori potrebbero avere già intuito la ragione della presenza di Salomone:
Salomone [non] è presente in quanto teologo: il templare Dante ha voluto innalzargli un monumento nel Cielo del Sole in quanto costruttore del Tempio e del piazzale sul quale il Tempio è edificato! E fu proprio l’ampia spianata, di forma leggermente trapezoidale, formata da possenti riquadri di pietra, ad offrire lo spazio all’intero complesso del tempio di Salomone, e più tardi a dare il nome all’Ordine dei cavalieri del Tempio. Doveva essere infinitamente caro ai Cavalieri quel luogo che in un certo senso fu la culla del loro Ordine. È ben comprensibile che onorassero altamente il suo costruttore. (DT, p. 233)
Le due file di anime che fanno corteo a Tommaso e a Bonaventura si dispongono quindi in modo da includere Dante in due girotondi concentrici: una coreografia modellata sui riti greco-romani del culto di Dioniso o Bacco, della quale Dante, però, si serve come di un’immagine allusiva per rappresentare la propria iniziazione alla saggezza teologica templare, che comprendeva (ovviamente) la fede nella Trinità di Dio (vedi Paradiso, XIII 25-27); il centro dei due cerchi, infatti,
è costituito dal poeta stesso come tredicesimo: una combinazione ingegnosa per compiere il numero templare per entrambe le cerchie dei teologi. I due cerchi, o ghirlande, uno più stretto l’altro più largo, si mettono a girare in tondo intorno a Dante, muovendosi però in direzione opposta. Questo doppio girotondo in direzione inversa faceva parte del rituale di ammissione agli antichi misteri coribantici; e anche qui, in Dante, ha il significato di un’iniziazione. Questo risulta già dal fatto che, in quel passo, il testo stesso ricorda improvvisamente il mondo antico:
Lì si cantò non Bacco, non Peana,
ma tre Persone in divina natura,
e in una Persona essa e l’umana.
Come si spiegherebbe la menzione di Bacco e di Peana, così sorprendente proprio in quel contesto, se il poeta non avesse voluto che il duplice girotondo fosse interpretato come un rito iniziatico, quale era stato nell’antichità? Si tratta della iniziazione che innalza Dante a teologo templare: della conferma del templarismo della sua teologia, datagli dai residenti nel Cielo dei teologi! (DT, p. 225)
Nel canto XVI del Paradiso, l’antenato di Dante, Cacciaguida, elogia lungamente la Firenze passata, caratterizzata dalla purezza morale dei suoi abitanti (contrapposti a quelli corrotti e discordi del presente), che erano anche numericamente inferiori a quelli del 1300 per non aver incluso ancora l’area circostante, all’epoca composta di frazioni e villaggi, cinta successivamente di mura più ampie e più recenti. In questo discorso (Fiorenza dentro de la cerchia antica… vv. 50-75), Cacciaguida elenca alcune località degne di memoria che, tolti i nomi Aguglione e Signa, da leggersi come predicati di nomi di persona, sono ancora tredici (DT , p. 227):
Campi, Certaldo, Fegghine, Galluzzo, Trespiano, Semifonti, Montemurlo, Acone, Val di Greve, Luni, Urbisaglia, Chiusi, Sinigaglia.
Nel seguito dello stesso elogio (vv. 88-139) vengono ricordate numerose famiglie onorate dell’antica Firenze, fra cui – notiamo noi – anche i Caponsacchi (v. 121), cioè quella della madre di Beatrice; anche queste risultano tre volte tredici (DT, p. 228):
Ughi, Catellini, Filippi, Greci, Ormanni, Alberichi, Sanella, Arca, Soldanieri, Ardinghi, Bostichi, Ravignani, Bellincione, Pressa, Galigaio, Pigli, Sacchetti, Giuochi, Fifanti, Barucci, Galli, Chiaramonti, Calfucci, Sizii, Arrigucci, Uberti, Lamberti, Visdomini («padri…»), Adimari, Caponsacchi, Giudi, Infangato, Pera, Giandonati («ciascun…»), Gualterotti, Importuni, Buondelmonti, Amidei, Uccellini («consorti…»).
Infine, la stessa figura di santa Lucia ha un ruolo possibilmente legato all’ambito templare anche in relazione al numero tredici. Come è noto, la santa, in quello che potremmo chiamare l’antefatto celeste del Poema, ha il ruolo di tramite fra la Vergine Maria e Beatrice (la quale si rivolge poi a Virgilio) affinché Dante (che è allo stesso tempo l’uomo Dante Alighieri e, allegoricamente, l’umanità intera) cominci il suo percorso di redenzione. Afferma lo John:
La devozione di Dante proprio per santa Lucia non è certo dovuta a un suo passeggero male agli occhi, bensì è fondata essa pure sul suo templarismo. Lucia, l’antica martire siciliana, doveva certo avere una parte di rilievo nella liturgia dell’Ordine dei Templari, perché proprio lei rispose, al prefetto [romano] Pascasio che la interrogava: “Quelli che vivono castamente e piamente sono il tempio dello Spirito Santo”. Tenendo presente quanto apparissero significative nella liturgia anche lievi allusioni e somiglianze, si capirà facilmente che santa Lucia potesse godere di straordinaria devozione tra i Templari, tanto più che la sua festa cadeva in un giorno “tredici”: il 13 dicembre. (DT, p. 257) [37]
Lo John, infine, fa notare che il numero complessivo di tutte le allegoriche «cerchie templari» della Commedia, composte dai personaggi incontrati, dai nomi di alcuni di loro o da essi menzionati, dalle immagini viste e dalle voci udite nei tre regni oltremondani dal Poeta – incluso egli stesso – risulta 52, cioè tredici per quattro:
E siccome da sempre il numero 4 è quello dei quattro punti cardinali del mondo, sembra evidente che il poeta abbia voluto in questo modo dedicare simbolicamente a ognuna delle quattro regioni del mondo una “cerchia templare”, i cui singoli componenti constano a loro volta di tredici cerchie templari! (DT , p. 297)
Note:
35 – Giuseppe Manacorda, Le agnizioni nella Divina Commedia, in “Giornale Dantesco”, 1908, n. 125, citato in John, Dante Templare, cit., p. 208 nota 2.
36 – Cfr. Divina Commedia, ed. cit., pp. 557 e 559 (su Rifeo), 291-292, 556 e 559 (sullʼimperatore Traiano).
37 – Non si potrebbe escludere del tutto la possibilità che Dante avesse un leggero problema alla vista, cioè la miopia, se è vero ciò che affermerebbe il poeta e notaio Cino da Pistoia (1270-1336), ricordato dallo stesso John, Dante Templare, p. 355.
(continua….)
Piervittorio Formichetti