Simbologie e significati alchimici nel Monstrorum Historia di Ulisse Aldovrandi
“Dante Templare” di Robert L. John – V parte – Le menti della calunnia: Guglielmo de Nogaret e Noffo Dei – Piervittorio Formichetti
(prosegue)
L’Ordine templare, da parte sua, all’inizio del Trecento aveva assunto caratteristiche tali da non poter essere considerato soltanto una comunità di mistici difensori della fede cristiana in partibus infidelium, dediti soltanto alla Croce e alla spada, ma anche una vera e propria potenza finanziaria internazionale:
Già al principio del tredicesimo secolo, le case dell’Ordine ammontavano a circa novemila. Le entrate annue vengono calcolate per gli anni intorno al 1300 all’equivalente di circa 57 milioni di franchi-oro. Era diventato di uso corrente che re, principi e anche grossi commercianti facessero custodire i loro tesori nelle roccheforti templari. Ne venne di conseguenza che i Signori del Tempio esercitassero una vasta attività bancaria: concedevano crediti, trasportavano sotto sicura scorta ingenti somme di denaro, e in genere erano effettivi concorrenti degli Ebrei e dei Lombardi [cioè dei banchieri italiani centro-settentrionali]. […] Va riconosciuto che occupazioni di questo genere non sono proprio quelle ideali per dei cavalieri-monaci. In tal modo i Templari venivano spesso distratti dai loro compiti specifici, trasformandosi in banchieri il cui potere finanziario poteva in realtà diventare alquanto scomodo ai terzi. Filippo deve aver avuto da sempre una segreta paura di fronte ad una tale ricchissima corporazione di nobili alla cui testa stava un uomo col rango di un principe sovrano, e che era dotata di eccellente preparazione ed esperienza militare (DT , p. 155).
Il più accanito avversario dellʼOrdine templare, nonché responsabile della politica anti-templare francese nei primi anni del Trecento, fu pertanto quello che potremmo chiamare il braccio destro del re, Guglielmo de Nogaret: costui era stato professore di diritto all’Università di Montpellier, divenuto poi membro del Consiglio della Corona, guardasigilli e infine vice-cancelliere di re Filippo di Francia. Il Nogaret è conosciuto soprattutto come capo del brutale attentato compiuto ad Anagni, il 7 settembre 1303, contro Bonifazio VIII: quel suo temerario colpo di mano poté impedire la scomunica del suo sovrano, ma naturalmente provocò una tanto più durevole scomunica del Nogaret stesso. (DT , p. 169)
Malgrado questa scomunica, il Nogaret «intervenne più volte nel corso del procedimento contro i Templari, anche personalmente nei confronti del papa. Solo alla fine dell’aprile del 1311 Clemente V lo liberò dalla scomunica, contro l’imposizione di una forte multa» (DT , p. 180). Egli fu comunque
uno degli artefici della centralizzazione del potere politico in Francia e della creazione dell’assolutismo del re: anzi, ne fu l’agente più privo di scrupoli. In questo campo egli dimostrò un’energia ferrea, decisa ad abbattere ogni ostacolo. […] Il Finke è d’avviso che Nogaret abbia coltivato sino dalla giovinezza progetti di vendetta contro i Templari, ai quali la voce pubblica attribuiva la morte sul rogo per eresia di suo nonno (o addirittura di suo padre). È ben possibile che re Filippo lo abbia voluto vicino a sé proprio per quei suoi sentimenti. […]
Si trascura spesso il fatto che il processo dei Templari non è che un elemento, sia pure il più importante, di una catena di simili processi per sospetta eresia, che furono celebrati in Francia all’inizio del Trecento. […] Lo studio comparativo di quei processi del secolo XIV è quanto mai istruttivo. Ci colpisce innanzitutto che gli accusati sono sempre persone politicamente sgradite alla casa reale. Questo vale naturalmente in primo luogo per il processo intentato contro la memoria di Bonifazio VIII [che era morto l’11 ottobre 1303], e inoltre per i procedimenti giudiziari contro i vescovi Giraud de Cahors, Bernard Saisset di Pamiers, Pierre de Latilli di Châlons, contro […] lo Spirituale francescano Bernard Délicieux (coinvolto nel moto separatistico della Provenza), e contro il vescovo Guichard di Troyes, per citare alcuni dei più importanti. Esattamente alla stessa categoria appartiene anche l’intero processo contro i Templari, il quale si svolse, come quelli contro Bonifazio e il vescovo Guichard, sotto il personale controllo del Nogaret. […] Filippo il Bello e Nogaret riuscirono a spremere il massimo vantaggio da quella occasione, tanto più che il ricorso alla tortura contro la negazione ostinata [della presunta eresia] era considerato dalla pratica giudiziaria medievale tanto lecito quanto appare incomprensibilmente barbaro ai popoli civili moderni. […] I giudici istruttori del Medioevo non si preoccupavano certo del fatto che, un tempo, sant’Ambrogio si fosse espresso decisamente contro l’uso della tortura nei procedimenti giudiziari (Epistola 74 ad Irenaeum; in Migne, Patrologia Latina, XVI, 1257) (DT , pp. 169-171).
Che tutta questa grande operazione repressiva, basata sulle accuse e sulle confessioni estorte con la tortura (procedura irrispettosa, come si è appena visto, anche nei confronti del punto di vista di alcuni fra gli stessi Padri della Chiesa, come Ambrogio), avesse un movente e un obiettivo entrambi politico-finanziari a vantaggio della monarchia francese – per la quale la salvaguardia della dottrina cattolica dalle distorsioni eretiche era in realtà soltanto una strumentale motivazione di facciata – è indicato anche dal fatto che i Templari furono trattati in modo abbastanza differente a seconda del territorio e della giurisdizione:
Un trattamento particolarmente duro e feroce dei Templari e dei fratelli conversi [cioè dei domestici e dei servi dei cavalieri templari] è riscontrabile dovunque si estendeva l’influsso della casa regnante di Francia. Là dove invece l’influsso di Parigi era minore o nullo, gli interrogatori non ebbero in genere conseguenze per o membri dell’Ordine; fanno eccezione la città di Magdeburgo e la Sassonia (DT , p. 172).
Ad esempio, in Spagna e in Sicilia, i Templari erano stati pienamente rispettati fino agli anni di regno dei due re fratelli, rispettivamente Giacomo dʼAragona e Federico II di Sicilia (discendente del celebre imperatore Federico II di Svevia), i quali furono costretti a seguire le direttive anti-templari di Filippo IV di Francia applicandole sui loro territori, dove comunque i Cavalieri non ebbero un destino penoso come in Francia, anche perché, nei medesimi anni tra fine Duecento e inizio Trecento, il potere francese in Sicilia fu soppiantato da quello spagnolo-aragonese (nel 1282 avevano avuto luogo i famosi Vespri Siciliani contro il potere angioino), e i Templari, malvisti dalla monarchia francese, si mostrarono piuttosto filo-spagnoli, potendo contare anche su un meritorio passato di lotta contro i musulmani nella penisola iberica (cfr. DT , pp. 137-139). Un analogo, se non addirittura maggiore, rispetto verso l’Ordine templare si era manifestato in numerose località della Germania:
Il trattamento mite riservato ai Templari in varie parti della Germania, per esempio a Magonza, ben diverso da quello instaurato in Francia, era probabilmente dovuto al profondo senso della giustizia dello stesso re Arrigo VII. Lo possiamo desumere chiaramente dal comportamento del giovane arcivescovo e principe elettore di Treviri, Baldovino, affezionatissimo fratello di Arrigo: già nell’aprile del 1310 aveva condotto un’inchiesta conclusasi nel modo più favorevole per i Templari (DT , p. 128).
In Italia, proprio a Ravenna, la città in cui Dante – come è noto – morì ed è tutt’ora sepolto, i Templari ebbero un trattamento di riguardo da parte del vescovo locale, Rainaldo da Concorreggio. Anche nella storica città romagnola il procedimento contro i Templari fu tutt’altro che simile a quello di stampo francese:
In questo senso si distinse lodevolmente [l’]arcivescovo di Ravenna, san Rainaldo da Concorreggio, l’ultimo vescovo di Dante. Sotto la sua presidenza fu deciso a Ravenna nel giugno 1310 che dovessero considerarsi innocenti anche quei Templari che non avevano osato ritrattare una confessione estorta. Per valutare appieno la generosità di tale decisione, bisogna tener presente che la ritrattazione di una confessione di eresia veniva, di regola, considerata una recidiva e punita con la morte. Ma di fronte al tribunale dell’arcivescovo di Ravenna vennero assolti perfino quei Templari che avevano confessato solo per paura della tortura e che poi avevano avuto il coraggio di ritrattare (DT , p. 172).
Riassuntivamente, la stessa situazione di differente trattamento dei Templari a seconda che si trovassero nei dominii francesi o altrove, è descritta anche dal già citato saggio dellʼavvocato Giacomo Volpini, Staffarda misteriosa (con aggiunta una interessante osservazione sulla parziale eredità, culturale e materiale, del patrimonio templare da parte dellʼOrdine dei Cavalieri di Malta, tuttʼora attivo ed importante):
La complessa montatura del cosiddetto “processo” ai Templari ebbe, come si sa, radicale esecuzione solo in Francia. Nel resto d’Europa, Italia compresa, portò a pochi processi dai quali alcuni Templari furono addirittura assolti […]. La struttura organizzativa templare non andò distrutta, e gran parte degli stessi [loro] beni confluì nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni, divenuto poi Ordine di Malta. Vi è quasi la certezza che una documentazione rilevantissima sia stata prelevata dalle autorità inglesi che successero ai Cavalieri nell’occupazione e nel controllo di Malta nel 1802. [28]
In aggiunta a tutto ciò, secondo John non è impossibile che alcuni atti del Concilio di Vienne, o almeno parte di essi, siano stati addirittura bruciati proprio poco tempo dopo la sua conclusione. A questo proposito vale la pena di notare – da parte nostra – che in unʼantologia francese degli atti del processo si accenna alle lacune presenti anche nelle fonti regie precedenti al Concilio di Vienne, lacune che possono essere sospette (cioè possibilmente dovute a volontaria eliminazione di qualche documento) e dalle quali emerge anche lʼiniziale riluttanza del papa a prestarsi alle manovre del monarca:
Il processo ai Templari, che è durato cinque anni, ha fatto nascere un gran numero di scritti, che si possono raggruppare in classi, corrispondenti sovente ad un momento del procedimento. I primi documenti importanti furono emanati dalla Cancelleria del Re di Francia. Consistono in una requisitoria seguita da istruzioni particolari relative allʼarresto di persone e al sequestro dei beni dellʼOrdine. […]
Una seconda categoria è costituita dagli inventari. Questi non sono numerosi […] .
Agli inventari si possono aggiungere i processi verbali degli interrogatorii, che erano di due specie. Quelli della prima specie, che furono condotti unicamente dagli agenti del re, non ci sono pervenuti. Mentre quelli degli interrogatorii seguenti, e che sono opera dellʼinquisitore di Francia o dei suoi commissari, sono numerosi. […]
Durante questo primo periodo del processo, furono redatti un gran numero di documenti che, strettamente parlando, non fanno parte della procedura, [tra cui] una corrispondenza del re con il papa Clemente V, scontento per lʼiniziativa del governo. Questa sezione, che è di notevole interesse, è incompleta. Bisogna dire, però, che una parte dei negoziati intrapresa con il Papa non può certo essere conosciuta perché è avvenuta oralmente. [29]
Sulla base delle sue conoscenze, agevolate dalla propria appartenenza allʼambito ecclesiastico, dalla sua funzione di docente universitario e dalla nazionalità austriaca, Robert L. John poteva anche ricordare che:
Il monastero cistercense austriaco di Zwettel è il solo posto al mondo dove sono conservati certi annali contemporanei al concilio nei quali viene menzionata la distruzione, mediante incenerimento, degli atti conciliari, distruzione ordinata da Clemente V stesso. Questa notizia non è incredibile, sebbene sia isolata: infatti il concilio mostrava troppo chiaramente nella sua preparazione, composizione, svolgimento e chiusura, le tracce della mano di Filippo il Bello, perché il papa Clemente potesse non tenerne conto. (DT , p. 106)
A proposito di quella che fu sostanzialmente una rapina di Stato mascherata da processo per eresia ai danni dei Templari, un brano fondamentale della Commedia si trova nel Purgatorio (XX, 91-96), nel quale lʼAlighieri, tramite le parole di Ugo Capeto (capostipite altomedievale della dinastia regnante francese), accusa il re Filippo IV o il papa Clemente V di illegalità e opportunismo (per questo lo definisce il nuovo Pilato), di avidità e malafede, menzionando esplicitamente il «Tempio» e invocando la punizione divina su di lui:
Veggio il novo Pilato sì crudele
che ciò nol sazia, ma, sanza decreto,
porta nel Tempio le cupide vele.
Oh Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira sua nel tuo secreto?
Nell’avvio del procedimento contro i Templari ebbe probabilmente un ruolo non trascurabile, sebbene di secondo piano, anche un calunniatore fiorentino, Noffo Dei (Arnolfo Dei), incarcerato a Parigi una prima volta e una seconda – questa volta in attesa della condanna a morte – negli anni 1305-1310 circa, gli stessi in cui i Templari di Francia vennero arrestati in massa e sottoposti agli interrogatorii dal tribunale dell’Inquisizione: potrebbe non essere un caso se Dante, fiorentino anche lui («di nascita e non di costumi», puntualizzava infatti il Poeta), si trovava probabilmente a Parigi proprio nella seconda metà di questo quinquennio. In tale periodo,
in tutta la Francia vi erano circa 15000 Templari, dei quali circa duemila comparvero come testimoni, secondo il vescovo Durando di Mende. Altri duemila riuscirono a fuggire, fra i quali anche il prete templare Pietro da Bologna, esperto di diritto, il quale chiese ed ottenne ospitalità dal reggente della Scozia Robert Bruce. Una diceria fa risalire a lui la fondazione della massoneria scozzese. Effettivamente ancora oggi, nel rituale di ammissione al grado di cavaliere kadosh del rito scozzese, si procede alla maledizione di Clemente V, di Filippo il Bello e di Noffo Dei (DT , p. 181).
Quest’ultimo, talvolta menzionato nelle fonti con qualche alterazione (Nofro Dei, Noffo Deghi, Noffo Dey), è ricordato come un famoso disonesto da due autori fiorentini: Giovanni Villani lo definisce «pieno d’ogni magagna» (Cronica, VIII, 92); il santo vescovo Antonino Pierozzi, morto nel 1459, riteneva innocenti i Templari (a differenza di Dante, poteva ormai scriverlo apertamente) e Noffo Dei un malvagio diffamatore (DT, p. 185), il che sembra dimostrato da quanto egli fece durante la sua prima carcerazione:
Costui sosteneva di avere appreso in confidenza da un suo compagno di prigione chiamato Esquinus de Floyran, un sedicente ex-priore templare di Montfaucon, certe cose vergognose che si sarebbero svolte in seno all’Ordine dei Templari. Ovviamente, e per l’intervento del Nogaret, entrambi furono subito scarcerati. (DT pp. 172-173)
Qualche storico – secondo lo John – negò in passato l’esistenza di Esquin de Floyran, che invece esistette davvero, come testimoniano alcuni atti dei processi ai Templari, dove si trova scritto anche con leggeri errori e varianti. Nellʼintroduzione alla versione italiana dellʼantologia degli atti processuali da noi utilizzata (tradotta dal francese non sempre in modo impeccabile), si afferma che:
Le prime accuse [contro i Templari] erano nate allʼepoca del conclave di Pérouse (1304-1305) nella regione dʼAgen. […] Queste furono raccolte da un uomo da poco, Esquin de Floyrano, che, probabilmente allʼinizio del 1305, le fece conoscere al re dʼAragona Giacomo II, a Lérida. Costui [Esquin], non avendo [il re] dato seguito alla questione, andò in Francia, dove fu ascoltato. [30]
Guglielmo de Plaisians, accusatore dei Templari presente al concistoro di Poitiers (presieduto da papa Clemente V) il 29 maggio 1308, avrebbe alluso a Esquin parlando genericamente di «uomini di scarso livello» (parvi status erant homines) dai quali prese avvio la catena di calunnie contro i Cavalieri [31]. Nella deposizione davanti alla commissione dʼinchiesta del 27 novembre 1309, il templare Ponsard de Gizy, della precettorìa di Payns, affermò che «Floyrano de Biteris» (cioè di Béziers), evidentemente messosi al servizio del governo, avrebbe personalmente partecipato alle torture su alcuni Templari; durante questo interrogatorio, Ponsard esibì un documento scritto, la breve Lista dei traditori che hanno articolato delle falsità contro lo stato dellʼOrdine del Tempio e gli hanno imputato degli atti delittuosi: «Esquius de Floyrac, de Biterris, comprior de Montfaucon» è il secondo dei quattro nomi del breve elenco [32].
Lo stesso dubbio fu espresso sullʼesistenza di Noffo Dei, ma anche quest’ultimo «figura in diversi documenti e sta in strettissimo rapporto col processo per eresia contro il vescovo Guichard di Troyes» (DT , p. 173); Noffo era infatti
l’agente di una delle numerose compagnie bancarie lombarde [cioè dell’Italia centro-settentrionale in senso lato] nella Champagne, e lavorava per la banca fiorentina di Ranieri Jacobi, che aveva il suo ufficio principale a Sens. Tra il 1288 e il 1290 Noffo e il suo principale erano al servizio del grosso banchiere Ceperello Diotaiuti di Prato, in nome del quale incassavano decime ed entrate diverse che poi versavano, a disposizione di Filippo il Bello, alla sede dei Templari di Parigi, che a quel tempo era ancora, per così dire, la banca nazionale francese. Noffo fu accusato di certe irregolarità e fu imprigionato insieme a un canonico di Saint-Etienne de Troyes, un certo Jean de Calais; anche a quest’ultimo si imputavano analoghe sottrazioni che avrebbe compiuto ai danni della regina Giovanna di Francia e Navarra, moglie di Filippo il Bello.
Ma questo Jean de Calais riuscì a fuggire e si recò in Italia; il suo vescovo, appunto Guichard de Troyes, fu accusato di aver favorito la sua fuga. Guichard era stato uno di quei vescovi che durante la lotta tra Filippo e Bonifazio erano stati dalla parte del papa, e già per questa ragione doveva essere quanto mai malvisto dal Nogaret. Per odio personale, Noffo Dei fece di tutto per portare al rogo quel vescovo che, se non fu certo esemplare, non era però un delinquente. Noffo lo accusò di eresia […], di stregoneria, di veneficio […]; era inoltre [secondo le accuse di Noffo] sodomita, usuraio e simoniaco!
Sono quasi le stesse accuse che il Nogaret aveva sollevato contro il defunto papa Bonifazio VIII e che ricorrono in gran parte anche negli altri processi, compreso quello dei Templari. Sembra che il Nogaret e il suo seguito operassero a Parigi per eliminare persone scomode secondo uno schema determinato e sperimentato. […]
Ora i principali istigatori del processo ai Templari furono (a prescindere dal re) gli stessi che [agirono] nel procedimento contro Guichard: Noffo Dei e Nogaret. […] Era inevitabile che il debole papa Clemente soccombesse alla violenta pressione, accresciuta anche dal peso dell’autorità del re, e fatalmente l’Ordine dei Templari fu distrutto; d’altra parte neppure i Cavalieri, né il vescovo di Troyes erano degli agnellini innocenti. Le evidenti e significative somiglianze fra il processo dei Templari e quello di Guichard suggeriscono a ogni osservatore imparziale il pensiero che il colpo contro i Templari fu effettivamente un frutto dell’odio, dell’avidità, dell’inganno, della calunnia e della rozza violenza, da parte delle personalità più influenti della corte di Parigi. (DT , pp. 173-175)
Sorprendentemente, dagli atti del processo al vescovo Guichard di Troyes emerge anche il nome di Simone di Geri de’ Bardi, ossia il marito di Beatrice Portinari, e di suo figlio Tanaglio, in francese Tenaille (del quale, quindi, Beatrice fu per breve tempo matrigna):
Poco prima di tale processo, davanti alla curia del vescovo di Parigi, se ne svolse un altro, contro un certo Cassiano Petri, commerciante di spezie fiorentino, sospettato di aver avvelenato la regina [Giovanna, moglie di Filippo IV] e altre persone. Da questo processo emerse la circostanza che i veri mandanti di Cassiano sarebbero stati il vescovo Guichard e un “lombardo” [cioè un agente bancario del centro-nord Italia] di nome Tenaille. Questo Tenaille era nipote di un socio del banchiere fiorentino Guido Franzesi, di nome Musciatto, chiamato in Francia Monseigneur Mouche. Quella banca era certo molto stimata in Francia, dato che lavorava per lo stesso re Filippo e aveva rifornito di denaro anche la tenebrosa spedizione in Italia del Nogaret [nella quale, come già accennato, fu malmenato papa Bonifacio VIII]. Senonché quel Tenaille era anche, come risulta dagli atti, figlio del cavaliere fiorentino Simone de’ Bardi! […] I documenti parigini certificano che il giovane Tanaglio [Tenaille] era receptor Campaniae, cioè esattore delle imposte per la Champagne nell’anno 1299. Dobbiamo quindi attribuirgli per quel momento un’età di almeno 20-24 anni. […] È pertanto […] impossibile che Beatrice sia stata la madre di quel Tenaille: ne divenne invece, col suo matrimonio con messer Simone, la matrigna. Non si può mettere in dubbio che il chevalier florentin Simone de’ Bardi menzionato nei documenti francesi sia identico al marito della giovane Portinari; perciò suo figlio Tenaille dev’essere nato da un suo precedente matrimonio, e Beatrice essere andata in sposa a un vedovo: cosa, questa, che sembra non avere in alcun modo turbato Dante! (DT , pp 301-303)
Secondo lo John, il filo-templare Dante era ben informato del comportamento infame di Noffo Dei, e perciò volle assegnargli un ruolo consono nel suo Inferno.
L’Alighieri conosceva bene la concezione tardo-antica e medievale della perdita dell’anima subita dal traditore: secondo questa credenza, l’anima del traditore, colpevole di un inganno più grave degli altri – nel vangelo secondo Giovanni, Gesù definisce il diavolo «padre della menzogna e dell’omicidio» (Gv, 8, 44) – a differenza di quanto accade a quella degli altri peccatori, sprofonda inconsapevolmente all’Inferno già durante la vita terrena del colpevole, mentre il suo corpo, ora svuotato dell’anima, viene occupato da un demonio; anche questa idea deriva verosimilmente dal vangelo di Giovanni, il quale afferma che appena Giuda mangiò l’ultimo boccone con Gesù, avendo deciso di mettere in pratica il suo tradimento, «dopo quel boccone, satana entrò in lui» (Gv, 13, 27).
Nel caso di Noffo Dei, il demonio che s’introdurrà nel suo corpo ha la forma del mostro Gerione, «il drago della frode, della perfidia e del tradimento» (DT, p. 187). Dante diede questo nome al demonio-mostro probabilmente ispirandosi al Gerione della mitologia greca, un re delle isole Baleari che si mostrava cortese e ospitale, ma uccideva a tradimento i suoi ospiti (lo ricorda Giovanni Boccaccio nella sua Genealogia deorum gentilium, I, 21). Il Gerione dantesco, però, ha una natura polimorfa, ambigua e infida: ha un viso umano, ma un corpo ibrido, dotato di una sorta di corazza ad anelli e di coda di scorpione, ha quindi le caratteristiche sia di un rettile acquatico sia di un drago volante; sotto quest’ultimo aspetto, esso ricorda gli animali mostruosi di natura insieme acquatica, terrestre e aerea, abitanti dei laghi o in genere dei bacini dʼacqua – dei quali il più celebre è senza dubbio Loch Ness in Scozia – diffusi nelle leggende di ampie aree dellʼEuropa celtica, lasciando tracce anche nei secoli successivi, a cristianizzazione avvenuta, in alcune agiografie che includono elementi leggendari: ad esempio, si narrava che san Clemente (terzo successore di san Pietro, dallʼanno 88 al 97) liberò la popolazione di Divodurum (lʼodierna Metz in Alsazia) da un enorme drago, detto Graoully, costringendolo con il segno della Croce a seguirlo e a gettarsi nel fiume Seille: «il suo corpo ricoperto di squame poteva volare come un uccello gigantesco, grazie a due enormi ali di pipistrello. Ancora più spaventosa era la sua gola che sputava fiamme dallʼodore di zolfo e gli permetteva di azzannare le sue prede (che erano specialmente le ragazze)»; allʼaltro capo della Francia, ad Arles, un abitante sarebbe riuscito a debellare un drago coperto di scaglie, emerso dal mare (mostro che può essere il medesimo ricordato dal noto cronista inglese del XIII secolo Gervaso di Tilbury nellʼopera Otia imperialia), infilandogli una lancia in gola dopo essersi confessato e comunicato [33].
L’incontro di Dante e Virgilio con Gerione, e la funzione di quest’ultimo nella Commedia, secondo John, sono stati attentamente elaborati dal Poeta per alludere allʼavidità e alla subdola ostilità di Noffo verso i Templari. Tanto per cominciare,
Dante e Virgilio proseguono il loro viaggio con l’aiuto di un centauro, sul cui dorso essi vengono trasportati attraverso il fiume di sangue bollente dove sono puniti i tiranni e gli omicidi: e qui ci ricordiamo del più antico sigillo dei Gran Maestri templari, raffigurante due cavalieri in groppa a un solo cavallo (DT, p. 188),
posizione che, tra lʼaltro, probabilmente in alcune persone suscitava lʼidea di un rapporto omosessuale, idea sulla quale si baserà una delle calunnie contro i Templari, cioè la pretesa diffusione della «sodomia» fra loro.
Superata lʼintricata selva dei suicidi, e poi la pianura di sabbia su cui piove fuoco (dove sono puniti proprio i sodomiti impenitenti), i due Poeti giungono sull’orlo di un abisso infernale al fondo del quale dimora Gerione, invisibile per la distanza ed il buio; qui Dante – che si trova su un tratto di costa abitato dalle anime degli usurai fiorentini e lombardi – su ordine di Virgilio getta nella voragine una «corda» di cui aveva cinti i fianchi: questa corda è stata oggetto di molte interpretazioni fin dal XIV secolo, fra le quali quella di Francesco da Buti, secondo il quale la corda indicherebbe che Dante era terziario francescano: ma non c’è nessun altro indizio né prova che Dante lo fosse realmente. È invece più probabile che fosse un giro di corda, chiamato così («corda»), che il grande cistercense san Bernardo di Clairvaux (Chiaravalle) aveva prescritto di indossare giorno e notte proprio ai Templari, come simbolo della castità che il monaco-cavaliere avrebbe dovuto osservare, ed è citata anche in alcune «testimonianze» (miste di fraintendimenti e di calunnie) incluse nellʼordine di arresto dei Cavalieri (Parigi, 14 settembre 1307), dove si dice che essi «cingono sopra la camicia una cordicella che il Fratello dovrà portare sempre finché vivrà» (cheint lʼen chascun dʼune cordele sus sa chemise, et la doit touz jours le Freres porter sus soi tant comme il vivra) [34].
La caduta della cintura-corda templare in fondo alla voragine, per di più proveniente dall’area degli usurai, attira subito l’attenzione del mostro Noffo-Gerione, che infatti sale lentamente alla superficie facendo sporgere il volto e le due zampe quasi come un castoro a fior d’acqua (Inferno, XVII, 21), rendendosi visibile ai due poeti-personaggi. Prima di salire sul suo dorso per raggiungere in volo l’ottavo girone infernale al fondo di quell’abisso, Virgilio aveva avvertito Dante della capacità peculiare di Gerione, l’avvelenatore dei rapporti umani, quella di penetrare al di là di ogni barriera (Inf., XVII, 1-3):
Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti, e rompe i muri e l’armi,
ecco colei che tutto il mondo appuzza!
Tutto ciò, secondo lo John, è una geniale allegoria con cui Dante descrive sia i movimenti geografici, sia l’attività, sia l’opportunismo di Noffo Dei: egli era per mestiere abituato a varcare le Alpi (passare i monti) per recarsi da Firenze in Francia, in quanto bancario gestiva una sostanza (il denaro) capace di penetrare al di là di ogni barriera (muri e armature), ed era appunto a Parigi quando era stato attirato dall’occasione di nuocere all’Ordine Templare (la corda-cintura di Dante): Gerione, infatti,
riconosce già dalla posizione in cui è caduto il raggomitolato cinto di Dante, che esso doveva essere stato gettato giù dal punto dove si trovavano gli usurai fiorentini e lombardi. Si aggiunga poi che in quel cinto il drago riconosce subito il segnale templare. Come potrebbe, quel patrono infernale della calunnia e del tradimento, non mettersi in moto volando verso quel punto tanto promettente? Era infatti abituato a “passare i monti” e, abile com’è a volare, attraverserebbe anche i mari. Ma non occorre tanto: basta che varchi gli Appennini e le Alpi per recarsi da Firenze a Parigi, dove con le sue infernali arti della deformazione e della calunnia avrebbe rotto “i muri e l’armi” del Tempio, a lui ben noto. Non è forse evidente che Gerione è proprio quel diavolo che dovrà prendere possesso del corpo di Noffo Dei, già nel momento del suo tradimento dei Templari e fino alla sua morte (sia pure apparente [cioè fisica, essendo già perduta la sua anima]) sulla forca nel 1313? (DT , p. 193)
Tutto ciò spiegherebbe anche perché Dante, in un luogo come l’inferno, dove pressoché ogni incontro è temibile, dichiari di temere soltanto il pungiglione, o l’aculeo, di Gerione, tanto che Virgilio stesso si siede sulla schiena della creatura diabolica, dietro a Dante, appunto per coprirgli le spalle:
Dante il Templare ha ben ragione di temere il pungiglione di quel mostro. Egli non dice di temere il volo nelle tenebre, e neppure ha paura di precipitare dal dorso del drago: è il suo insidioso pungiglione che lo terrorizza. Ed è un terrore di cui Virgilio riconosce la fondatezza, ponendosi dietro Dante a sua difesa, sulla schiena del mostro volante. Un Templare affidato a un diavolo che sarà il futuro Noffo Dei ha tutte le ragioni di temere! […] Dunque questo Gerione che si muove liberamente e vaga lontano, che “tutto il mondo appuzza”, “che passa i monti e rompe i muri e l’armi”, che viene attirato da un cinto dei Templari fatto cadere dal sito infernale dei banchieri fiorentini, questo Gerione si rivela un demonio simile come nessun altro demonio a Noffo Dei, e sostituirà alla perfezione l’anima di costui, quando essa se ne andrà anzitempo all’inferno. (DT, p. 193-194)
Note:
28 – Volpini, Staffarda misteriosa, cit., pp. 152-153.
29 – La questione templare. Atti del processo 1307-1312, a cura di Carla Montiglio, Regione Piemonte, giugno 1996, p. 16.
30 – La questione templare. Atti del processo 1307-1312, cit., p. 11.
31 – Ibidem, ivi, p. 83.
32 – Ibidem, ivi, pp. 106-107.
33 – Racconti citati in Aldo Franzoni, Santa Maria Maddalena nella Tradizione provenzale, Bergamo, 2013, pdf scaricabile da https://www.teosofiabergamo.files.wordpress.com), p. 624 (da qui anche il brano tra virgolette). Anche nel famoso dipinto di Agnolo Bronzino La lussuria smascherata (1540-45), la Frode (o Fraude) che spia i due giovanissimi amanti ha un viso di ragazzina, ma il corpo di serpente (o di drago) e le mani invertite (vedi ad es. Matilde Battistini, Simboli e allegorie, Milano, Mondadori-Electa, 2002, p. 280).
34 – La questione templare. Atti del processo 1307-1312, cit., p. 37.
continua…
Piervittorio Formichetti