“Dante Templare” di Robert L. John – IV parte – Il declino dei Templari negli scritti danteschi – Piervittorio Formichetti
prosegue …
Che Dante fosse sufficientemente informato non soltanto sulle vicende più recenti dellʼOrdine dei cavalieri Templari, ma anche di quelle passate, e in generale della storia dellʼOrdine, sarebbe indicato anche ad esempio nel canto XIV dellʼInferno, dove si descrive la famosa statua del Veglio (Vecchio) con la testa dʼoro, il corpo composto di diversi metalli ed un piede di terracotta, situata nella caverna del monte Ida sullʼisola di Creta:
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inverʼ Dammiata
e Roma guarda come suo speglio.
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ʼl petto,
poi è di rame infino a la forcata;
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ʼl destro piede è terra cotta;
e sta ʼn su quel, più che ʼn su lʼaltro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che lʼoro, è rotta
dʼuna fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.
(Inferno, XIV, 103-114)
Lʼenorme statua è posta in modo da guardare a nord-ovest: ha gli occhi puntati sullʼItalia (Roma) come di fronte a uno specchio (speglio), e la schiena a sud-est, verso lʼEgitto. Per designare questʼultimo, Dante menziona la città di Damiata, cioè Damietta (Damanhur , sul delta del Nilo): «Perché mai Dante avrebbe dovuto fissarsi proprio su Damietta (o Damiata) solo per esprimere poeticamente il concetto generico di oriente?» (DT , p. 161). Damietta era stata sottratta dai musulmani ai cristiani alla fine della quinta crociata (1219-1221) che si era rivelata un disastro per i cristiani, non senza qualche responsabilità dei Templari:
La città marittima di Damietta nel delta del Nilo era stata conquistata, e nellʼassalto si era distinta particolarmente la milizia di Firenze; poco dopo, quel centro andò di nuovo perduto, e ai più avveduti fu subito chiaro che quella catastrofe segnava la fine del dominio cristiano in [Medio] Oriente. Senza dubbio buona parte di colpa di quella sciagura tocca ai Templari di Palestina. Nel loro orgoglioso spirito di opposizione ad ogni costo, essi si erano schierati con il cardinal-legato Pelagio, uno spagnolo tanto incapace quanto tirannico. Anche istigato dai Templari, costui aveva spinto la propria sciocca ostinazione nel controllare i baroni cristiani di Siria e il re di Gerusalemme, Giovanni de Brienne […]. Contro i pressanti consigli di tutti i competenti, egli aveva ostinatamente rifiutato lo scambio, più volte offerto dai maomettani, di Damietta contro la Palestina al di qua del Giordano; e insisteva sullʼassurdo piano di conquistare lʼintero Egitto partendo da Damietta, e di tenere saldamente in mano la terra del Nilo come posizione-chiave per la Palestina. Lʼostinazione dellʼorgoglioso cardinale (che alla fine tolse anche il supremo comando militare al re di Gerusalemme) fu una conseguenza dei consigli dati dallʼassemblea dei Templari. […]
Quando però i Templari ritennero minacciato il loro principesco castello per i pellegrini ad Athlith, e lʼofferta del Sultano dʼEgitto fu ripetuta per la quarta volta, essi votarono a favore della sua accettazione. Ma era troppo tardi: ormai era Pelagio a non voler tornare sui propri passi. Inesperto della forte corrente del Nilo e del suo rapido straripamento, egli ordinò di marciare sul Cairo; a Damietta era rimasta soltanto una piccola guarnigione, e lʼintero esercito crociato fu circondato il 24 luglio 1221 dalle acque del Nilo e messo in gravissimo pericolo di vita. A seguito di questa sciagura, fu stipulato un trattato di pace della durata di otto anni, trattato che significava il fallimento dellʼintera quinta crociata e la premessa della successiva caduta di Akkon (San Giovanni dʼAcri) che sette anni più tardi avrebbe segnato la fine del dominio cristiano in Palestina (1291). […]
Dappertutto andò rapidamente spegnendosi lʼentusiasmo primitivo per le crociate. […] In un componimento poetico dovuto a un Templare, in occasione della caduta di Damietta, Maometto viene perfino menzionato come vincitore su Cristo.
Unʼindicazione relativa a tutti questi avvenimenti dʼEgitto, per noi molto importante, si trova nelle Annales Florentinae II pubblicate dallo Hartwig, per lʼanno 1219 (o 1220 secondo lo stile fiorentino), dove si legge testualmente: Damiata capta est a christianis (5 novembre 1219) et in alio anno perdita Templariorum culpa [Damietta conquistata dai cristiani (5 novembre 1219) e nellʼanno seguente fu perduta per colpa dei Templari]!
Dunque a Firenze (dove nelle grandi festività veniva mostrata al popolo nel Battistero la bandiera della conquista di Damietta) la colpa principale del fallimento della spedizione al Cairo non veniva attribuita al cardinale-legato, bensì ai Templari. Non doveva forse, ogni volta che il popolo vedeva nel Battistero lo stendardo dal giglio bianco in campo rosso, unirsi involontariamente al ricordo dellʼeroismo della milizia fiorentina anche quello amaro della vanità di quella strenua lotta, che a sua volta risvegliava il ricordo della colpa dei Templari? Certamente Dante vide più di una volta quella bandiera e conobbe le reminiscenze che vi erano congiunte. (DT , pp. 157-159)
Ecco che quindi, secondo lo John, il filo-templare Dante rappresentò la statua del Veglio di Creta che volge le spalle allʼEgitto per dichiarare, ancora in modo allusivo, che lʼOrdine templare, risentito ed indignato, volge le spalle allʼaccusa di aver provocato indirettamente la catastrofe di Damietta; inoltre, non casualmente la statua è modellata su quella vista in sogno dallʼimperatore babilonese Nabucodonosor, di cui narra il libro biblico del profeta Daniele (capitolo 2): questo imperatore fu colui che distrusse il Tempio di Gerusalemme e sʼimpadronì del suo tesoro, analogamente al re di Francia Filippo IV, che fu ostile allʼOrdine del Tempio e sʼimpadronì del suo denaro:
Quella statua lagrimante è la controfigura dei concetti templari della felicità propri di Dante, ed è essa stessa un Templare! Un Templare che respinge duramente la responsabilità della catastrofe di Damietta (che, come abbiamo veduto, a Firenze era attribuita ai Templari). Non per nulla la statua imita quella apparsa in sogno a Nabucodonosor. Infatti, come proprio quel re babilonese aveva distrutto il Tempio di Salomone, così la statua spaccata di Creta ricorda la distruzione dellʼOrdine dei Templari da parte del Nabucodonosor infernale. La sua testa aurea però è intatta: non solo per la purezza e la dignità degli inizi della comunità templare, ma anche per la speranza nella sua restaurazione, che Dante coltivò intensissimamente per tutta la sua vita, insieme agli amici e adepti dei Templari. Non era forse stato riedificato, ad opera di Zorobabel, anche il distrutto tempio salomonico? (DT , p. 165)
Dante, inoltre, poteva avere unʼaltra ragione per riferirsi in modo ostile alla città di Damietta: la presunta esistenza di accordi segreti fra Templari (di per sé inverosimili e fino ad oggi mai provati) che presero nome da questa città:
Durante il processo celebrato nellʼaprile 1310 a Lucera, in Puglia, il Templare catalano Galcerand de Teut rivelò che in seno allʼOrdine sarebbero esistiti i cosiddetti Statuti di Damietta, i quali però sarebbero stati redatti nel castello palestinese dei Templari ad Athlit. Quegli statuti avrebbero sostituito le antiche regole [del concilio] di Troyes e trasformato la comunità dei Templari in una effettiva lega di eretici. Bisogna però soggiungere che fu quello stesso testimone a riferire lʼapparizione di un gatto nero durante le sedute del capitolo templare, e che in quella figura sarebbe stato venerato il Maligno stesso! Non va inoltre taciuto che il Templare catalano, come molti altri suoi confratelli anche fiorentini, si sovvenne di quellʼapparizione soltanto sotto lʼeffetto della tortura.
Se quegli statuti eretici detti di Damietta siano veramente esistiti, anche solo per una ristretta cerchia di Templari, non si potrà, credo, stabilire mai più con certezza assoluta. […] È però innegabile che proprio presso i Templari [sussistesse] una spiritualità peculiare, nutrita delle idee del gioachimismo, come pure della filosofia araba e neoplatonica: presentano cioè una forma di sincretismo che impareremo a conoscere come caratteristico della gnosi templare (DT , pp. 166-167).
Purtroppo, questa sorta di penombra dottrinale che sembra caratterizzare almeno in parte lʼOrdine del Tempio, poteva facilmente suscitare in alcuni avversari malevoli il sospetto che la teologia templare e la vita quotidiana stessa dei monaci-cavalieri fossero perverse; soprattutto se questi avversari erano il re di Francia Filippo IV e, da un determinato momento in poi, il papa Clemente V.
Lo John ricorda brevemente quanto i primi anni di pontificato del già arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, eletto papa col nome Clemente V, fossero caratterizzati dalla simonia, dal nepotismo e da altri favoritismi su base familiare e clientelare; di per sé, azioni non esclusive soltanto di questo papa nella storia della Chiesa cattolica, ma nel suo caso evidenti agli occhi e alle orecchie dei suoi contemporanei. In un documento anonimo, attribuibile al propagandista filo-governativo e anti-templare Pierre Dubois, intitolato Rimostranze del popolo di Francia (redatto nelle prime settimane del 1308 ed oggi conservato nella Bibliothéque Nationale di Parigi), si polemizza su questo aspetto in termini che oggi diremmo tendenziosi e populistici, ma evidentemente inclusivi di qualche elemento di verità:
Il popolo del regno di Francia […] chiede che il suo signore il re di Francia, che può avere accesso presso il nostro padre il papa, dimostri che egli [il papa] ha troppo fortemente angustiato i francesi e sollevato tra loro grande scandalo, poiché sembra che voglia punire soltanto con le parole la corruzione dei Templari […]. Ora il popolo vede che il loro padre spirituale, per legami di sangue, ha donato dei beneficii [cioè titoli e giurisdizioni parrocchiali] della santa Chiesa di Dio ai suoi parenti, al suo nipote il cardinale, più di quanto quaranta papi precedenti non abbiano mai donato a tutto il loro lignaggio, più di Bonifacio, e nessun altro ha mai dato tanto al suo lignaggio. E così egli ha ignorato 200 maestri di teologia, i decreti, i signori in diritto, e altri ancora, che egli conosceva bene o poteva conoscere, ciascuno dei quali è molto più competente di quanto suo nipote non potrà mai essere […]. Così il predetto papa ha donato e messo un suo nipote [Bernard de Fargues, vescovo di Agen nel 1306] nella più grande parrocchia di Rouen, perché egli ne può ricavare un grande profitto, e ad un altro [Gaillard de Preissac] la grande parrocchia di Toulouse, e a un altro ancora quella di Poitiers… [27].
Tuttavia Dante, in due sue epistole, nel rivolgersi al pontefice sembra sorvolare su tutto ciò in modo quasi sorprendente, in confronto al modo con cui, successivamente, stigmatizzerà lo stesso papa nella Commedia. Nella Lettera ai Re d’Italia e ai senatori di Roma, scritta forse da Parigi nel 1310, Dante definisce l’imperatore Arrigo VII – del quale auspicava la discesa in Italia – illuminato dalla luce apostolica della benedizione del successore di Pietro (quem nunc Petri successor luce apostolicae benedictionis illuminat). Nella seconda lettera, scritta direttamente all’imperatore Arrigo e datata 16 aprile 1311, Clemente è detto Pater patrum, padre dei padri. La ragione di ciò è che dei favoritismi parentali di Clemente V, a Dante, importava fino a un certo punto, in confronto all’altra ben più grave mancanza papale, ossia il tradimento della funzione di sommo protettore dell’Ordine templare, che il papa avrebbe dovuto saper esercitare in quel drammatico frangente; sarà principalmente lʼatteggiamento misto di debolezza e di opportunismo dimostrato nella questione templare a suscitare lʼostilità di Dante verso il papa originario della Guascogna:
Ubertino da Casale aveva contestato a Bonifazio VIII la legittimità del suo alto ufficio, Dante invece la riconobbe esplicitamente. Ora però egli nega a Clemente V la legittimità del suo papato […] anche con un verdetto di san Pietro in persona:
Quelli ch’usurpa in terra il loco mio,
il loco mio, il loco mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza…
In apparenza Pietro parla di Bonifazio VIII; ma questa sarebbe una troppo stridente contraddizione al passo del Purgatorio XX, 87, dove l’attentato di Anagni viene definito un attacco compiuto contro Cristo stesso. La triplice ripetizione delle parole “il loco mio” non è solo un’espressione enfatica, ma anche un accenno al terzo papa a partire dalla Pasqua del 1300, cioè appunto a Clemente V. […] Se poi vi aggiungiamo anche il “Guaschi” del verso 58, nello stesso atto d’accusa, non rimane il minimo dubbio su quale sia il papa che Pietro vuole colpire con il fuoco della sua ira. Per Dante, Clemente V non è dunque papa, ma usurpatore della sua carica; lo è nella sua ascesa al trono, nella convocazione del concilio, nella canonizzazione di Celestino V. Lo è naturalmente anzitutto in considerazione della soppressione dell’Ordine dei Templari! (DT , pp. 122-123).
In una prima fase della fosca operazione politica, Clemente V era stato tutt’altro che prevenuto o maldisposto verso i Templari: quando il 13 ottobre 1307 re Filippo aveva dato inizio agli arresti dei Cavalieri su tutto il territorio francese, l’aveva fatto senza interpellare il papa, il quale, «molto irritato per il trattamento subìto, dapprima assunse verso i Templari un atteggiamento non solo di attesa, ma chiaramente benevolo; ancora il 29 maggio 1308 egli mise in grave imbarazzo il re, dichiarando di ritenere innocenti i Templari» (DT , pp. 126-127). In seguito alle confessioni ottenute sovente mediante la tortura, tuttavia, nei mesi successivi l’atteggiamento papale cominciò a mutare:
Al principio di luglio, i protocolli degli interrogatorii furono letti in presenza del papa,e sembra che effettivamente da quel momento Clemente abbia cominciato a tener per veri i delitti contro la fede e la morale di cui si accusava l’Ordine. C’erano però considerevoli tensioni tra il papa e il re per quanto concerneva il futuro uso da farsi del patrimonio dei Templari. Filippo, sempre affamato di denaro, aveva confiscato i numerosi e preziosi possedimenti dell’Ordine con la stessa disinvoltura con cui un anno prima, nel 1306, aveva confiscato i patrimoni degli ebrei (DT , p. 127).
Comunque – ricorda ancora lo John – Clemente V «adottò la linea di Filippo il Bello solo dopo molte proteste, esitazioni e temporeggiamenti. E malgrado la confessione del Gran Maestro Molay […], Clemente era tutt’altro che persuaso dell’effettiva colpevolezza dell’Ordine» (DT , p. 178). In seguito, cedendo in modo sempre più evidente alle pressioni del re di Francia, verso il 1310 il papa
cominciò a sollecitare la presentazione del materiale d’accusa, tanto più che risultava sempre più evidente che fra i partecipanti al Concilio non ci sarebbe stata certo unanimità di giudizio su quel problema. La situazione complessiva venne lumeggiata chiaramente da quanto si era svolto a Treviri, e soprattutto a Magonza. L’11 maggio 1310 nel concilio provinciale era penetrato in compagnia di venti compagni armati un cavaliere templare, il conte Hugo Salm von Grumbach, gli fu concessa la parola e il suo discorso dinanzi al clero riunito ebbe per conseguenza la rapida assoluzione di tutti gli accusati. Clemente V non era disposto a sopportare altri fatti di questo genere, fra i quali va menzionata l’assoluzione dei Templari spagnoli pronunciata a Salamanca. Il 18 marzo 1311 il papa ordinò ai re, ai principi, ai prelati e agli inquisitori di ricorrere ormai alla tortura nei procedimenti contro i Templari. Da quel 18 marzo fu perfettamente certo che, in un modo o nell’altro, il Concilio di Vienne avrebbe portato alla soppressione dell’Ordine. Di questo fu solamente un’inequivocabile conferma il secondo ordine di tortura, emesso da Clemente V il 25 agosto dello stesso anno (DT , pp. 131-132).
Dunque Dante scrisse la lettera allʼimperatore Arrigo VII in un periodo di tempo piuttosto breve: il 16 aprile 1311 non era trascorso nemmeno un mese dalla data del primo ordine di tortura emanato da papa Clemente, il 18 marzo 1311, e l’ossequio col quale Dante si rivolge ancora al pontefice farebbe pensare ch’egli ancora non avesse conosciuto tale ordine in quellʼarco di tempo. Queste circostanze suggeriscono pure che alcuni brani della Commedia nei quali il Poeta esule – come si vedrà a breve – inchioda il papa alle sue responsabilità, possano essere stati scritti, o più probabilmente riscritti, appunto poco tempo dopo il 16 aprile 1311, o fra quest’ultima data e la successiva (25 agosto 1311).
Beatrice stessa – che (come si vedrà più avanti) nella prospettiva dello John è anche, ma non soltanto, la personificazione della Sapienza teologica templare – con le sue ultime parole (Paradiso, XXX, 147) annuncia addirittura la dannazione per papa Clemente, naturalmente senza citarlo per nome, ma come il «prefetto nel foro divino»; e ciò dopo che già nell’Inferno, per bocca di papa Niccolò III, era stata preannunciata la sua condanna ultraterrena, e dopo che nel Paradiso lo stesso san Pietro aveva profetizzato che il pontificato di questo «pastor sanza legge», suo indegno successore venuto dal «ponente», sarebbe stato condannabile. Contrariamente a quanto è solitamente divulgato – anche in relazione al dispendio finanziario per i fasti del Giubileo celebrato sotto Bonifacio VIII nell’anno 1300 –
non fu dunque il pontificato di Bonifazio VIII, per Dante, il culmine di ciò che è detestabile, bensì quello di Clemente V. Costui, il papa venuto dalla Guascogna, e il concilio da lui convocato a Vienne sono l’oggetto della più accesa esecrazione di Dante (DT , p. 115).
Secondo lo John, Dante sarebbe stato propenso a credere anche ad una sorta di leggenda contemporanea, secondo cui l’atteggiamento di Clemente V nei confronti dell’Ordine templare derivava in parte da un accordo segreto di pochi anni prima, quando il futuro papa stava per essere eletto tale:
Dante (come pure Giovanni Villani) credette al presunto accordo segreto che sarebbe stato stipulato nella foresta di Saint Jean d’Angeli fra l’arcivescovo Bertrand de Got e Filippo il Bello: in cambio del sostegno al re nell’elezione papale mediante pressioni sul conclave di Perugia, l’arcivescovo si sarebbe impegnato solennemente a soddisfare sei desideri del re, tenuti gelosamente segreti. L’ultimo di tali desideri, reso noto solo molto più tardi, sarebbe stato quello della soppressione dei Templari (DT , p. 121).
A questi sei desideri ingiusti e disonesti corrisponderebbero, non a caso, altrettanti sei brani di descrizione stigmatizzante e di condanna rivolti da Dante, per bocca di diversi personaggi del suo Poema, contro Clemente V:
- verrà di più laida opra / di ver ponente un pastor sanza legge (Inferno XIX, 82-83);
- una puttana sciolta / m’apparve con le ciglia intorno pronte (Purgatorio XXXII, 148);
- la «fuia [ladra] che delinque» con quel «gigante» (il re francese) (Purg. XXXIII, 44);
- Il Guasco ingannatore dell’alto Arrigo (Paradiso XVII, 82);
- Del sangue nostro, Caorsini e Guaschi / s’apparecchian di bere (dice san Pietro ricordando i primi Papi martiri in Par . XXVII, 58);
- … e fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio: ch’el sarà detruso
là dove Simon Mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso
(Beatrice, in Par . XXX, 142-149).
Per l’Alighieri – conclude quindi Robert L. John – la scoperta del primo ordine di tortura nei confronti dei Templari (18 marzo 1311), avvenuta in un giorno indeterminato, ma collocabile in tarda primavera o inizio estate del 1311,
significò il momento a partire dal quale la sua generosa benevolenza verso il papa si tramutò nella collera furiosa che colpisce Clemente nella Commedia. Solo in apparenza la sei volte ripetuta condanna all’inferno è rivolta al simoniaco e al nemico dell’imperatore; in realtà essa colpisce essenzialmente il distruttore del Tempio. Clemente divenne agi occhi di Dante il “pastor sanza legge” e l’iniquo “prefetto nel foro divino” (DT , p. 132; vedi anche ivi, p. 143).
Note:
27 – La questione templare. Atti del processo 1307-1312, a cura di Carla Montiglio, Regione Piemonte, giugno 1996, pp. 13 e 69-71; ed. or.: G. Lizerand, Le dossier de lʼaffaire des Templiers, Paris, Societé dʼéditions Les Belles Lettres, 1964. A proposito della diocesi di Poitiers, una nota allʼedizione tradotta precisa: «Errore: nessun vescovo di Poitiers fu parente di Clemente V, ma lʼaccusa di nepotismo porta lʼautore [Dubois] alla fondatezza, poiché il papa ha accolto [complessivamente] nella sua famiglia cinque cardinali […] e cinque vescovi», collocati in varie diocesi e parrocchie francesi.
continua …
Piervittorio Formichetti