Dante «pellegrino alchemico»: analogie tra la Divina Commedia e il Mistero delle Cattedrali di Fulcanelli – Piervittorio Formichetti
Uno dei libri caposaldo della letteratura alchemica occidentale del Novecento è indubbiamente Il mistero delle Cattedrali, scritto e pubblicato (inizialmente in due volumi) nel 1925-26 dall’enigmatico autore e presunto alchimista noto come Fulcanelli. Pare che nessuno sia riuscito a sapere chi fosse veramente costui. Serge Hutin ha scritto che «sull’identità di questo personaggio, nel cui nome si combinano le parole Feu (fuoco) ed Elie (Elia, il profeta innalzato in cielo su un carro di fuoco, secondo la narrazione biblica), disponiamo soltanto di vaghe ed incerte congetture» [1]. Eugène Canseliet, discepolo di Fulcanelli e autore delle prefazioni al Mistero delle Cattedrali, secondo Hutin «si è sempre rifiutato di rivelare l’identità» del suo maestro. I disegni inclusi nel testo originale de Il mistero delle Cattedrali furono realizzati dall’illustratore Julien Champagne, nome che alcuni hanno creduto celasse la vera identità di Fulcanelli; secondo altri, Fulcanelli sarebbe stato un comandante della Resistenza anti-nazista nella Francia meridionale, noto soltanto con il soprannome di «Cavaliere Bianco»; per altri ancora, Fulcanelli sarebbe stato uno dei Fratelli di Eliopoli, una società segreta «che, di anello in anello di una lunga catena, si diceva facesse risalire la sua fondazione al II secolo della nostra era, in Egitto, all’epoca degli alchimisti di Alessandria» [2]. Il mistero delle Cattedrali, infatti, è dedicato ai misteriosi «Fratelli di Heliopolis».
In questo libro, Fulcanelli interpretava molti elementi artistici e architettonici delle cattedrali gotiche francesi di Parigi, di Amiens, di Bourges, e la loro posizione sugli edifici, come riferimenti – possibili e presunti – alle fasi dell’Opera alchemica. In questo caso ci interessa quanto egli scrisse a proposito di una delle vetrate della celeberrima cattedrale parigina di Notre-Dame:
Per esempio, la vetrata, per l’allegoria della Distillazione ripetuta (primo medaglione), ci presenta non un semplice cavaliere, ma un principe incoronato con una corona d’oro, vestito di bianco, con le calze rosse; dei due bambini che litigano, uno è verde, l’altro grigio-viola; la Regina che getta a terra il Mercurio porta una corona bianca, una camicia verde ed un mantello porpora. [3].
Leggendo questo brano, si può notare un parallelismo cromatico con una descrizione presente nella Divina Commedia di Dante Alighieri, poema che certamente non ha bisogno di presentazione. Nel canto XXX del Purgatorio, nel Paradiso terrestre, si manifesta in un’atmosfera numinosa l’anima di Beatrice Portinari, l’amata per eccellenza del Poeta.
Va detto che, molto probabilmente non a caso, Dante ha collocato questa apparizione di Beatrice nel canto 30 ai versi 31, 32, 33: la serie numerica 30-31-32-33 corrisponde agli anni di età di Gesù (con un’approssimazione di circa due anni) durante la sua predicazione. Anche in questo modo, Dante potrebbe aver voluto suggerire che Beatrice, nel ruolo da lui assegnatole nel poema – sulla base, non va dimenticato, dell’esperienza che ebbe realmente di lei, essendone innamorato – debba essere intesa come epifania divina che guida alla beatitudine (beatrix) l’anima smarrita (del Poeta e dei lettori), quasi fosse una versione femminile del Cristo. A questo proposito, il critico letterario statunitense Harold Bloom, nel suo celebre studio Il canone occidentale (1994), in cui definì Dante pervaso da un «fervore eretico», scrisse: «Il suo poema è una profezia, e si propone come un terzo Testamento per nulla ossequioso rispetto all’Antico e al Nuovo», che esalta Beatrice fino al ruolo di «elemento cruciale nella gerarchia della salvezza» [4].
Beatrice in questa sua epifania è vestita di colori molto simili (veste rossa, velo bianco, manto verde) a quelli della Regina della vetrata di Notre-Dame (corona bianca, veste verde, manto porpora) descritta da Fulcanelli, anche se non corrispondono precisamente. Come è noto, nel Purgatorio questi colori appartengono alle tre Virtù in aspetto di donne danzanti che Dante aveva visto poco prima, sempre nel Paradiso Terrestre:
Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; lʼuna tanto rossa
che a pena fora dentro al foco nota;
lʼaltra era come se le carni e lʼossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa.
(XXIX, 121-129)
Il significato cristiano dei loro colori è noto: il bianco la Fede, il verde la Speranza, il rosso la Carità. Questi colori sono anche i medesimi dei tre indumenti indossati da Beatrice – il vestito rosso, il manto verde, il velo bianco – a indicare come, metaforicamente, Beatrice sia rivestita delle Virtù, vale a dire, esse le appartengono intimamente:
Sovra candido vel, cinta dʼuliva
donna mʼapparve, sotto verde manto,
vestita di color di fiamma viva.
(XXX, 31-33).
Vale la pena di notare che di questi medesimi colori vestono anche certe figure femminili sacrali e abitanti dell’Oltremondo in alcune antiche leggende dei Celti d’Irlanda, tramandate per iscritto, con qualche interpolazione, dai monaci cristiani che durante il Medioevo s’installarono sull’isola. In una di esse, la Razzia della mandria di Froech, a un certo punto si manifestano «tre volte cinquanta donne con tuniche di porpora, veli verdi sul capo, e ai polsi bracciali d’argento […]. Le donne erano uguali per età, figura e bellezza, e per grazia, avvenenza e incanto» [5]. Le vesti di queste centocinquanta giovani sono simili a quelle di Beatrice, e come le tre Virtù della Commedia, anche loro sono identiche l’una all’altra. In un’altra leggenda irlandese, La gelosia di Emer , Cu Chulainn – eroe guerriero, marito di Emer e campione di lealtà e d’onore, protagonista di una nota saga – riceve in sogno la visita di due donne, una vestita con un mantello verde, l’altra con un mantello rosso scarlatto [6].
In entrambi i racconti, queste creature femminili sono «side», cioè donne del «Sid», parola che significa sia «pace» sia «sede» [7], ossia la condizione e la collocazione “cosmica” degli dèi e degli spiriti eroici vissuti nelle epoche primordiali della storia d’Irlanda, i quali, benché invisibili, restano in contatto con la loro terra nel tempo [8]. Il Sid della mitologia irlandese è quindi una dimensione metafisica parallela al nostro mondo, dalla quale, nei momenti difficili o decisivi della vita degli eroi, le divinità e gli eroi arcaici possono manifestarsi per aiutarli, o comunque per influenzarne il destino. Dunque il Sid è anche l’Aldilà, o forse la parte dell’Aldilà riservata alle persone eccezionali della storia mitica dell’isola [9], e sia le donne sia gli uomini «side» indossano tipicamente mantelli o veli verdi. Nella Commedia, anche Beatrice appartiene ormai definitivamente all’aldilà, essendo morta circa quindici anni prima che Dante cominciasse a scrivere il Poema. Alla luce del fatto che Dante Alighieri certamente conosceva i romanzi del ciclo britannico di Re Artù, divulgati in Europa occidentale [10], è lecito chiedersi se possa avere ascoltato anche qualche leggenda d’Irlanda, raccontata da qualcuno in Italia.
Tornando al Purgatorio dantesco, quando Beatrice ha il volto ancora velato, Dante intuisce comunque che sia proprio lei: «d’antico amor sentii la gran potenza… conosco i segni dell’antica fiamma» (Purgatorio, XXX, 39; 48). La donna, ormai appartenente alla dimensione sacrale dell’Aldilà, lo rimprovera quasi senza pietà per essersi concesso, dopo la morte di lei, ad altri amori, sia filosofico-letterari, sia (forse) erotico-sentimentali (le due possibilità non si escludono a vicenda). Dante, per la vergogna, china la faccia a terra, evitando di guardarsi riflesso nell’acqua del fiume Lete:
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte,
ma veggendomi in esso, i trassi all’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte
(XXX, 76-78),
ma la reprimenda di Beatrice continua – passando intanto al successivo canto del Purgatorio, il XXXI – finché Dante ammette le ragioni di Beatrice; dopodiché, sopraffatto dall’umiliazione e dal senso di colpa, subisce un breve svenimento:
Tanta riconoscenza [della mia colpa] il cor mi morse,
ch’io caddi vinto, e quale allor mi feci,
salsi colei che la cagion mi porse.
Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi…
(XXXI, 88-91).
Dante era nato nel segno zodiacale dei Gemelli (probabilmente tra gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno), che nell’astrologia è legato al pianeta Mercurio, nome latino di Ermes, nume tutelare dei viaggi, delle transizioni e delle transazioni; Dante è l’homo viator medievale per eccellenza, un viaggiatore oltremondano, che all’inizio scende negli Inferi, cioè visitat interiora terrae, come recita la prima parte dell’acronimo alchimistico VITRIOL, presente nel Liber Azoth (testo del XV secolo attribuito a Basilio Valentino, forse un monaco benedettino tedesco del monastero di Erfurt): Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem (visita i recessi interni della Terra, rettificando [te stesso] troverai la Pietra nascosta) [11].
Ipotizzando che alcuni episodi della Commedia possano interpretarsi in senso ermetico-alchemico (come ritiene ad esempio l’autrice Giuliana Poli), l’episodio del giudizio di Beatrice nel Purgatorio potrebbe essere letto come una metafora analoga a quella menzionata da Fulcanelli: Beatrice è cromaticamente simile alla Regina “tricolore” della vetrata di Notre-Dame; Dante, astrologicamente, è nato sotto Mercurio; Beatrice, con le sue parole taglienti ma veridiche, fa cadere a terra Dante, così come la Regina di Notre-Dame getta a terra il Mercurio. In entrambi i monumenti – quello architettonico francese e quello letterario italiano – non si tratta di un’azione distruttiva, ma necessaria a rigenerare spiritualmente chi ne è colpito: Dante, infatti, s’immergerà poi nel fiume dell’oblio dei mali (il Lete) e in quello dell’acquisizione della conoscenza del Bene (l’Eunoè) per poter accedere al Paradiso.
Nel Mistero delle Cattedrali, illustrando gli elementi caratteristici della cattedrale di Bourges e i loro significati ermetici, Fulcanelli parla anche del Mercurio come elemento simbolico associato al viaggiare. Secondo l’Autore, la merelle, ossia la conchiglia a ventaglio simbolo del pellegrinaggio cristiano (ad esempio era riprodotta anche nell’emblema vescovile e poi papale del cardinale Joseph Ratzinger, a simboleggiare la vita terrena e l’istituzione della Chiesa come situazioni non definitive, bensì in cammino verso la Meta divina), nella simbologia segreta degli alchimisti indicava anche il «principio Mercurio», detto anche «acqua benedetta dei Filosofi», con significato chiaramente metaforico perché – ricordava – le grandi conchiglie, un tempo, servivano a contenere l’acqua benedetta, e ancora ai suoi tempi (nel 1925) se ne trovavano spesso in molte chiese rurali. Il Mercurio alchemico era chiamato anche Viaggiatore, o Pellegrino, perché:
Agli inizi tutti gli alchimisti sono a questo stadio. Devono compiere, col bordone come guida e la «merelle» come distintivo, quel lungo e pericoloso viaggio di cui una metà è terrestre e l’altra metà marittima. Prima pellegrini, poi piloti. [12]
Nella Commedia, nello stesso contesto – il “processo” di Beatrice a Dante – è menzionato anche il bordone, cioè il bastone lungo dei pastori e dei pellegrini. Concluso il suo rimprovero, Beatrice incarica Dante di far conoscere, quando sarà tornato sulla Terra, ciò che ella sa a proposito della conoscenza soprannaturale e divina; se non con le sue esatte parole, almeno in immagini simboliche che dimostrino la sua eccezionale esperienza, così come il pellegrino che torna dalla Terra Santa dimostra di esservi stato mediante le foglie di palma appese al bordone:
… il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto almen dipinto,
che ‘l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto.
(Purgatorio XXXIII, 78).
Inoltre, l’ambiente del «lungo e pericoloso viaggio», nella Divina Commedia appare bipartito esattamente nello stesso modo menzionato da Fulcanelli: un emisfero terrestre e un emisfero acqueo, coperto dall’immenso Oceano. Dante Alighieri aveva bene in mente questa configurazione, essendo stato anche autore della relazione “geologica” Quaestio de aqua et de terra – da lui letta pubblicamente nel 1320 a Verona nella chiesa di Sant’Elena – che trattava appunto della superficie occupata dalle acque e dalle terre sul nostro pianeta, il globo terracqueo. Il Dante-personaggio attraversa queste due metà della Terra nel medesimo ordine detto da Fulcanelli: prima la metà terrestre e poi quella marittima: l’Inferno è sotterraneo e il Purgatorio (quello dantesco) è un’immensa isola-montagna al centro dell’Oceano. Soltanto dal Purgatorio in poi Dante, oltre ad apparire pellegrino, si presenta indirettamente anche come pilota, cioè come conducente di un’imbarcazione. All’inizio del Purgatorio, non a caso, egli annuncia:
Per correr miglior acque alza le vele,
omai la navicella del mio ingegno
(I, 1-2);
e nel Paradiso:
O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca…
(II, 1-3).
Dante continua quindi a essere pellegrino, ma non è più costretto ad scendere nei gironi infernali (visitare interiora terrae) aggrappandosi alle rocce, bensì naviga su acque relativamente placide; perciò si rivolge ai lettori come fosse un pilota, un comandante di nave. Tra la figura dell’alchimista e quella del pellegrino che nel corso del proprio viaggio guadagna il ruolo di guida (non si può essere guide senza prima esser stati al seguito di una guida), Fulcanelli notava dunque un parallelo significativo, ed entrambe queste figure mostrano analogie abbastanza importanti con il «Dante personaggio» della Commedia, che quindi può essere interpretato anche come «viaggiatore ermetico».
Note:
1 – Serge Hutin, La vita quotidiana degli alchimisti nel Medio Evo, Milano, Fabbri Editori – RCS Libri, 1998 (ed. or. Paris, Hachette, 1977), p. 38 nota 11.
2 – Ibidem, pp. 206-210 passim.
3 – Fulcanelli, Il mistero delle Cattedrali, Roma, Edizioni Mediterranee, 1972, pp. 106-107.
4 – Citato in Guido Armellini, Adriano Colombo, La letteratura italiana, vol. 1, Duecento e Trecento, Bologna, Zanichelli, 1999, p. 364.
5 – Antiche storie e fiabe irlandesi, a cura di Melita Cataldi, Torino, Einaudi, 1985, pp. 104-105.
6 – La saga irlandese di Cu Chulainn, a cura di Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini, Milano, Mondadori, 1982, p. 55.
7 – Antiche storie e fiabe irlandesi, cit., p. 229.
8 – Ibidem, p. 69: «Nella cultura irlandese, il doppio significato della parola sid esprimeva l’idea che la pace terrena è simulacro del «mondo di pace» soprannaturale: il re garantisce la pace del suo popolo in quanto deriva la propria legittimità dal rapporto pacifico con l’altro mondo, con l’àes side [la gente della pace]».
9 – Sotto questo aspetto, il Sid sembra in parte analogo al Walhöll o Walhalla, il paradiso degli eroi caduti in battaglia della mitologia scandinavo-germanica.
10 – Questo aspetto della cultura di Dante sarà ripercorso da chi scrive nel saggio Il «gran fior» del Paradiso: Dante, la Candida Rosa e il Sacro Graal, in corso di pubblicazione su “Riscontri – Rivista di cultura e attualità” anno LXIV n. 1 / gennaio-aprile 2022.
11 – Cfr. Hutin, La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo, cit., pp. 91, 157-158.
12 – Fulcanelli, Il mistero delle Cattedrali, cit., p. 145.
Piervittorio Formichetti