Dante e l’Origine: uno studio di Giuliana Poli – Giovanni Sessa
I settecento anni dalla morte di Dante sono stati celebrati in Italia con convegni di studio, dibattiti, e una messe di scritti della più diversa natura. Si sa, l’opera dell’Alighieri, è immensa, non solo per la vastità della sua produzione, ma per le prospettive che essa apre, tanto in termini spirituali che intellettuali. Nel corso dei secoli, esegeti delle più diverse formazioni hanno creduto di aver individuato porte di accesso privilegiato al suo sapere poetico. In tal senso, un ruolo di rilevanza hanno svolto autori sensibili a problematiche esoteriche, tra loro Rossetti, Valli, Guénon, per fare qualche nome tra i tanti. Tale scuola di pensiero si è spesa nell’individuazione di possibili riferimenti iniziatici nella produzione del Padre delle nostre lettere. Tra i molti volumi, editi nell’anno in corso sul Sommo poeta, segnaliamo il lavoro di Giuliana Poli, Velame italico. La dottrina dell’Origine nella Divina Commedia, comparso, con prefazione di Aldo Onorati e patrocinio della Società Dante Alighieri, nel catalogo di LuoghInterori (pp. 70, euro 14,00).
Si tratta di una raccolta di brevi saggi scritti dalla Poli per la Società patrocinante, nell’ultimo frangente. L’autrice, giornalista, vanta una formazione che spazia dall’iconologia all’antropologia culturale. Il gusto per le immagini lo si evince anche dalla grafica, davvero ben curata, del volume e dalle riproduzioni di dipinti che accompagnano, passo passo, le sue riflessioni. In particolare, va preliminarmente chiarito che le sue analisi risultano debitrici, tanto nei confronti degli interpreti “esoterici” del grande poema, quanto, più in generale, delle prospettive proprie del pensiero di Tradizione. La studiosa rielabora originalmente le tesi dei primi, tentando di individuare: «le tracce di una Tradizione antica e ancestrale “italica” presente nella Commedia» (p. 7) e, soprattutto, ne abbia contezza preliminare il lettore, legge al “femminile” tale antica Sapienza. Come rileva il prefatore, si può essere più o meno d’accordo con le sue conclusioni, resta il fatto che, almeno per certi aspetti, esse hanno tratto innovativo.
Le pagine di Giuliana Poli muovono dall’assunto che, nel processo storico dell’umanità e nella vita dei singoli, vi siano fasi, momenti di passaggio, chiusi da: «un evento che ha come scopo quello di ridare equilibrio attraverso un atto disarmonico» (p. 9). Nel vuoto così prodotto, si perdono i riferimenti abituali, la “scorza superficiale” della vita che, poco dopo: «ritroverà nel proprio tempio interno, una luce rinnovata» (p. 9). E’ quanto accadde, come si rileva dalla lettura che l’autrice compie del V Canto del Purgatorio, a due nobili marchigiani, Jacopo del Cassero e Bonconte da Montefeltro, le cui tragiche morti, connotate da grande dispersione di sangue, vengono interpretate in termini alchemico-simbolici. Nel caso di Jacopo, il lago di sangue rinvia al Fuoco ermetico e al ricongiungimento con la propria gens. Nel caso di Bonconte, attraverso l’elemento Acqua, questi “defluirebbe” verso la vera Libertà, l’Origine, fino alla conquista dell’ “Io sono”. Anche il canto del Miserere, che chiude la narrazione delle morti dei due, testimonia la necessità di: «una conversione del cuore per salvare l’Anima e ritrovare il punto della luce dentro di sé» (p. 13).
Chiarificatrice, al fine di comprendere la visione tutta declinata al “femminile” di questo studio, risulta l’esegesi dell’Inno alla Vergine di S. Bernardo, nel XXXIII Canto del Paradiso. Nella prima strofa, il poeta descriverebbe, a dire della Poli, l’irradiarsi del Principio originario nei giorni del Solstizio d’Inverno, fase nella quale si chiude il ciclo dell’anno e si determina un Nuovo Inizio. In tali giorni: «la luce è angusta e genera un momento di massima drammaticità e sofferenza della Natura» (p. 16), cui farà seguito la nascita della scintilla divina. Il Natale, è qui presentato, quale giorno del mistero della generazione primigenia e del suo riassorbimento. La Donna perfectissima, assimilati gli elementi cosmici, produce, tramite l’Amore, l’energia, la scintilla luminosa, l’Intelligenza, operante immanentisticamente nell’Uno-Tutto. Compito del Sapiente, ricongiungersi a tale Madre Celeste. Il tema qui discusso è collegato alla figura di S. Antonio Abate, che Dante presenta nel canto XXIX del Paradiso. Il maiale da cui il santo è tradizionalmente accompagnato nell’iconografia più diffusa, in realtà, è un cinghiale bianco, animale che, nella tradizione celtica, da un lato veniva associato alle funzioni sacerdotali e, dall’altro, era simbolo della sapienza germinativa dell’Origine, eminentemente femminile.
Tale funzione è esemplarmente rappresentata da Beatrice, della quale il Poeta, nei versi 121-126 del XXIX Canto del Purgatorio, presenta l’essenza attraverso tre figure di donna, ognuna delle quali è connotata da uno dei tre colori, tipicamente “italici”, della beatitudine: verde, bianco e rosso. Beatrice è, quindi, Una e Trina e, ricorda Poli, nella Trinità il tre è: «il ritorno del multiplo all’unità assoluta» (p. 30). Il verde, sotto il profilo simbolico, è colore della speranza rigenerativa, legato al fulmine e al tuono, indica l’inizio della via epistrofica e ascensionale verso l’Origine. La Donna, in tale contesto, è Via alla Libertà. La figura della Donna eminente, di Beatrice, è altra rispetto a quella di Francesca da Rimini, che pure ha esercitato tanto fascino “umano, troppo umano” sui lettori. Beatrice, rappresenta il desiderio svincolato dalla dimensione catagogica della carne, la tensione erotica cantata dai Fedeli d’Amore, mentre Francesca diviene simbolo di un Amore effimero, senza “ali”, non anagogico e, quindi, contraddittoriamente mortale. L’Amore, ricorda l’autrice, può indirizzare virtuosamente la natura, oppure ridursi a mera brama. A seconda di come lo si vive, può condurre all’adempimento della via Solare, o vincolare all’illusorietà della via Lunare.
Nel Canto XIX del Purgatorio, Dante fa esplicito riferimento alla falconeria e al falco. Tale rapace, proprio come il Sole, nel suo volteggiare libero nell’aria, prima scende sotto l’orizzonte e poi risale: indica la speranza di rinascita, di ri-generazione: «il falco incappucciato è sinonimo di speranza della luce che nutre chi vive nelle tenebre» (p. 43). L’intera esegesi dantesca della Poli, trova esemplare sintesi nella figura del “messo celeste”. Figura misteriosa questa, che compare nel Canto IX dell’Inferno. L’autrice la legge quale personificazione dell’energia originaria che crea e distrugge, della potenza della physis che, opportunamente attualizzata: «purifica, compie l’opera del solve et coagula» (p. 52), mettendo in comunicazione l’alto e il basso, l’uranico e il tellurico, trasmutando la “pietra grezza” in “levigata”.
Questi sono solo alcuni dei plessi del libro, altri momenti della Commedia vengono attraversati e discussi, tra essi l’appassionate analisi del detto dantesco: «Il Bel paese dove il Sì suona» e la discussione della possibile presenza del volto dell’Alighieri in una pittura del Botticelli. A noi basta far rilevare al lettore che, anche in Dante, la physis con le sue potenze agenti, assume, in alcuni luoghi della sua vasta opera, il valore di presenza sovrastante ed eterna, a cui l’uomo, il Sapiente, deve rapportarsi per condurre un una vita “in ordine” e persuasa.
Giovanni Sessa