Coscienza dell’Io quale antidoto al transumanesimo – Daniele Laganà
“Dove vada una tale forza, che ben presto nulla più tratterà; quale sia il suo esito finale, ciò non lo sappiamo. Non libera rispetto a sè, priva di luce, essa può precipitare sino a toccare catastroficamente il fondo di quella età oscura o del ferro, che antiche tradizioni preconizzarono. Ovvero, se supera sè stessa, se si libera dalle forme arimaniche della materia e della chiusa, violenta, mala individualità, essa può trovare un equilibrio superiore, una via di sanità e di trasfigurazione, sboccando in un’epoca nuova di realismo e di azione trascendente“
(Epilogo, Krur 1929, ristampa anastatica a cura di Massimo Scaligero, Edizioni Tilopa, Roma 1981, p. 387)
Di là dalla istintiva paura della novità, di ciò che interviene a spezzare la passiva tranquillità del già noto e dell’abitudine; è giusto, specialmente oggi che lo sviluppo scientifico e tecnologico interviene così pesantemente nel campo stesso della coscienza, interrogarsi sugli scenari aperti da questo progresso: quanto e come l’ingegneria informatica, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale cambieranno la nostra visione dell’uomo e della vita? Una tale domanda s’impone a maggior ragione dinnanzi all’irrompere di una filosofia, quale quella transumanista, che ci mette davanti allo scenario di un’integrazione sempre più profonda tra uomo e macchina, al fine di sviluppare facoltà straordinarie o risolvere problemi come la malattia e la morte. L’ipotesi della compatibilità della mente umana con l’hardware dei computer, con l’implicazione teorica della trasferibilità e della emulazione della coscienza individuale su un supporto digitale, non solo non può lasciarci indifferenti ma ci obbliga, o dovrebbe obbligarci, a fare finalmente i conti con la domanda delle domande: che cos’è l’uomo?
Qual è il mistero della coscienza, della vita e della morte? Domande fino ad oggi rimaste nell’oscuro campo del dogma religioso o dell’astratta speculazione filosofica, ma che oggi richiedono la scoperta – o la riscoperta – di un diverso approccio di ricerca. Un grande potere richiede sempre una grande responsabilità ma, d’altra parte, non può esservi responsabilità senza che vi sia consapevolezza: quest’ultima è la sola chiave che ci permette di condurre il processo creativo senza lasciarci passivamente sedurre o incantare da esso, è la sola possibilità che ha il cercatore di non smarrirsi – di non dimenticare se stesso – nel corso della sua stessa ricerca. La scienza è uno strumento di cui l’uomo si serve nella indagine della realtà, non viceversa: ecco perché un individuo che ha dimenticato se stesso, che ha dimenticato la sua essenza, che ha smesso di ascoltarsi e si è allontanato dal suo centro, si illude che tutto questo possa essergli restituito dallo strumento scientifico. Quando l’indagatore si confonde con l’indagine comincia la confusione delle lingue e dei linguaggi.
Questo interrogarsi sulla Scienza non equivale dunque al tentativo di fermarne il progresso, tentativo invero sempre velleitario; ma deve puntare a spezzarne la meccanicità e la disumanizzazione del processo.
Il primo pericolo da cui occorre guardarsi è la logica consumistica che, in ossequio al dio danaro, trasforma il “mezzo” – lo sviluppo tecnologico – in un bisogno, di cui l’uomo diventa dipendente, un consumatore compulsivo. Ciò che doveva aiutarlo migliorandone la condizione di vita, in sostanza, finisce col renderlo uno schiavo inconsapevole. Tutto questo è quello che vediamo accadere con l’uso massivo della tecnologia, specialmente da parte dei più giovani – abuso , questo, che produce un senso di alienazione dalla realtà, fino anche a un vero processo di dis-identificazione dal proprio corpo per rinchiudersi in uno spazio virtuale. Il bisogno spasmodico di accedere a una massa caotica di informazioni, lo scrollare continuo del dito sullo schermo degli smartphone, produce un effetto ubriacatura che nasconde in realtà il profondo bisogno di sfuggire a se stessi. Di non fare i conti con la propria interiorità.
In effetti, il transumanesimo, prima di rappresentare il pericolo della umanizzazione della macchina (cioè la possibilità che la macchina sviluppi una coscienza sua autonoma), cela il pericolo della meccanizzazione dell’uomo: il fatto cioè che sia l’uomo a diventare una macchina. Un individuo incosciente, dominato dalla reattività inconscia, privo di libertà e incapace di pensare. Da questo punto di vista, il transumanesimo dunque è cominciato molto prima; quando cioè è stata inculcata nell’uomo l’idea che il sapere dovesse essere qualcosa di prettamente tecnico, guardando quasi con disprezzo a tutto ciò che afferiva alla cultura umanistica: alla filosofia e all’arte, che ci insegnano a riconoscere la bellezza e il significato più profondo delle cose; all’insegnamento del latino e greco, che attraverso le loro regole ci insegnano la capacità di costruire consapevolmente il pensiero.
Essere costantemente immersi in un mondo digitale, quale è il mondo tecnologico contemporaneo, ci ha reso inoltre consumatori passivi di una corrente di immagini preconfezionate a cui siamo perennemente esposti. Questo è il vero pericolo da cui oggi occorre guardarsi: l’immergersi in un mondo fatto di immagini preconfezionate allontana l’uomo dalla possibilità di sviluppare l’immaginazione, che è lo strumento principe per la conoscenza di se stessi e dei significati più profondi della realtà. L’immaginazione è la chiave che permette al mondo esteriore e al mondo interiore di incontrarsi; quindi, allontanare l’uomo dallo sviluppo cosciente dell’immaginazione significa allontanarlo dalla più vera comprensione della realtà. Come già detto, è velleitario tentare di opporsi a tutto ciò.
Dinnanzi a questo scenario a poco serve lasciare che l’inquietudine ci atterrisca, essa deve invece portarci ad assumere un quantum in più di autocoscienza, necessaria a trasformare “alchimicamente” il veleno in farmaco. Questo risultato può essere ottenuto non opponendosi a questa corrente, ma piuttosto sviluppando interiormente la caratteristica opposta, e cioè sviluppando l’autocoscienza: una maggiore consapevolezza di sé che faccia da centro alla nostra vita, cosicché non avremo bisogno di trovare il nostro centro in qualcosa che è fuori da noi, arrivando a confondere il mero strumento (la scienza) con noi stessi.
Una tale consapevolezza, quindi, diventa la chiave di un utilizzo cosciente della tecnologia; un utilizzo libero, in quanto, non essendo noi più dipendenti, essa ritorna ad essere ciò che deve essere: uno strumento, che va utilizzato per uno scopo. Paradossalmente, mai come in questo tempo occorre riscoprire l’intensità dell’esperienza materiale dei corpi, la pienezza della percezione sensoriale: da qui il contatto con la natura, il contatto fisico con gli altri, e poi la bellezza e la ricchezza del nostro mondo interiore, l’intensità dei sentimenti, e infine la regola di un pensiero logico che si libera della meccanicità dell’inconscio.
Questo risveglio dell’Io, questo riscoprirsi, è il solo e vero antidoto al transumanesimo; che non rifiuta la scienza, ma le restituisce la sua dignità di strumento al servizio dell’uomo e della conoscenza.
Daniele Laganà