Considerazioni sugli Indoeuropei: critica all’opera di Harald Haarmann – Fabrizio Bandini
La recente lettura del volume Sulle tracce degli indoeuropei: Dai nomadi neolitici alle prime civiltà avanzate del linguista tedesco Harald Haarmann, edito in Italia da Bollati Boringhieri nel 2022, mi offre l’occasione di scrivere alcune considerazioni non solo sul libro in questione, ma anche sugli indoeuropei stessi e sullo stato dell’arte degli studi a loro legati.
Haarmann è un fervente seguace delle teorie della Gimbutas e non lo nasconde, anzi, se possibile si spinge pure oltre.Il suo approccio è fortemente di parte, sia sull’origine degli indoeuropei, sia sulla ricostruzione della loro civiltà e della loro religione originaria, sia sui loro rapporti con civiltà altre. Per quanto riguarda l’origine degli indoeuropei, sulla localizzazione della loro Urheimat, il nostro autore sposa la teoria kurganica della Gimbutas, la cosiddetta teoria nord-pontica, liquidando tutte le altre in maniera spiccia, senza neanche affrontarle o portare prove ulteriori a proprio favore, a parte le sue teorie linguistiche e la sua interpretazione dei reperti archeologici.
Sappiamo bene, invece, che la teoria kurganica, seppur interessante e degna di considerazione, ha alcune falle che sono state segnalate nel corso degli anni da vari studiosi, e che ci sono teorie alternative sulla Urheimat indoeuropea altrettanto valide, se non assai più valide. Mi riferisco in particolare alla teoria, sostenuta anche recentemente da altri studiosi, come Kilian (1983) e Boettcher (1999), che vede la civiltà indoeuropea provenire dalla cultura di Maglemose (5000 a.C.), dalla cultura della ceramica a nastro, dalla cultura nordica di Ellerbeck-Ertebolle e della cultura dei vasi imbuto (4400- 3400 a.C.), situata fra l’Oder, la Vistola, l’Elba e il Reno.
La civiltà kurganica in questa prospettiva diventa un’estensione di questa antica patria indoeuropea, a seguito della cosiddetta migrazione pontica, sostenuta da diversi autori, fra cui Romualdi (1978). Haarmann non ne parla nemmeno e sposa la teoria della Gimbutas a riguardo della cosiddetta vecchia Europa, legata a popolazioni agricole e tendenzialmente matriarcali, in un filone di pensiero in cui troviamo anche Robert Graves. La nota questione del faggio nelle lingue indoeuropee, inoltre, che fa propendere per una origine della patria ancestrale più nordica e occidentale delle steppe pontiche, la liquida definendola superata, ma senza portare prove scientifiche probanti e definitive a riguardo.
Facendo parlare gli stessi indoeuropei – che a nostro giudizio è la cosa migliore da fare – ovvero le antiche fonti letterarie che ci hanno lasciato, essi rimembrano un’arcaica patria nordica, polare addirittura, in un’epoca storica in cui in clima della nostra Terra era assai diverso da quello di oggi. Questi ricordi sono attestati dalle opere più arcaiche dei popoli indoeuropei, come i Veda indiani e l’Avesta iranico. Ma numerose sono le fonti anche presso altre stirpi, come gli antichi greci e i romani.
I vari racconti legati all’Iperborea nordica – di cui parlano Ecateo di Mileto, Ecateo di Abdera, Esiodo, Pindaro, Erodoto, Alceo, Licurgo, Platone e Giamblico – sede del dio Apollo e da cui proviene anche il sapiente Abaris, ne sono il segno tangibile. Come pure quelli sulla nordica Thule, di cui parlano Eratostene, Dionisio Periegete, Strabone, Pomponio Mela, Plinio il Vecchio, Virgilio, Antonio Diogene, Claudio Tolomeo, Marziano Capella, Boezio, Beda e Petrarca.
La glaciazione di quelle antiche terre avrebbe spinto gli indoeuropei – o meglio, i loro antenati, comunque si chiamassero – a migrare verso sud. Le Urheimat, nord-europee e nord-pontiche, sarebbero quindi successive di diversi secoli. In tempi più vicino a noi questa antica tradizione è stata sostenuta da validi ricercatori, come Krause (1893) e il brahmano e studioso indiano Bal Gangadhar Tilak (1903). Per quanto riguarda la ricostruzione della civiltà e della religione originaria indoeuropea (o protoindoeuropea, come la chiama lui) Haarman si basa sempre su analisi linguistiche ed archeologiche, appoggiandosi ancora alla Gimbutas, e superandola addirittura in certi tratti.
La magistrale ricostruzione della civiltà e della religione indoeuropea, attualmente insuperata, fatta da Georges Dumézil, analizzando a fondo i miti dei popoli indoeuropei, viene appena accennata da Haarman e poi messa da parte, non citando neanche un suo libro in bibliografia. Secondo lui i protoindoeuropei, erano più che altro pastori e guerrieri, con una società certo gerarchizzata, ma rozza e semplice, nulla a che spartire con le raffinate civiltà successive fondate dai diversi rami degli indoeuropei. Il loro pantheon, nella sua ricostruzione minimalista, era notevolmente limitato.
(G. Dumézil)
Avevano un dio del Cielo, un dio e una dea del Sole, una dea della Terra, alcune dee dei fiumi, un dio dei pastori e una dea dei cavalli. La gran parte delle divinità citate dalle varie tradizioni indoeuropee successive sarebbero quindi prestiti da altre civiltà, soprattutto quelle femminili, secondo la ben nota dottrina della Gimbutas, o inserite non si sa come in epoche più tarde.
Haarman addirittura supera la Gimbutas, attribuendo alla civiltà paleo-europea e alle altre civiltà conquistate dagli indoeuropei, tutti quei teonimi che risultano di dubbia origine. La sua critica diventa ancora più insistente quando va ad approfondire i rapporti degli indoeuropei con le altre civiltà. Haarman sottolinea di continuo che la civiltà paleo-europea e alle altre civiltà agricole, come quella di Harappa, erano assai superiori ai rozzi pastori delle steppe, e quando ci sono dubbi su attribuzioni di scoperte tecnologiche la sua preferenza va ovviamente per le prime.
Leggendo l’opera questa impostazione diventa a tratti fastidiosa, tanto da dare l’impressione di avere davanti più che un libro sulle tracce degli indoeuropei, un testo critico su di essi. Sembra quasi che tutto ciò che le civiltà indoeuropee hanno fatto di bello e di grande, sia dovuto più che a loro, all’influenza decisiva dei popoli di altre civiltà. L’autore si appoggia inoltre nella sua analisi, oltre che alla Gimbutas, agli studi sulla genetica di Cavalli Sforza, Menozzi, Piazza, Achilli, che talvolta risultano già superati.
Per fare un esempio la loro analisi genetica sugli etruschi è stata già smentita dal recente studio del Max Planck Institute in collaborazione con esperti di vari atenei, come Tubinga, Jena, Ferrara, Firenze e Napoli, pubblicato su Science Advances (The origin and legacy of the Etruscans through a 2000-year archeogenomic time transect, 2021). Fra gli etruschi e i vicini italici non vi era nessuna differenza genetica significativa.
Tutto questo denota una decadenza generale degli studi sugli indoeuropei, almeno in certi ambiti accademici. Haarman non è il solo a portare avanti la teoria della Gimbutas, nel mondo accademico oramai viene proposta da più parti in maniera quasi acritica, se non dogmatica, facendo calare il silenzio su tutto il resto. Studiosi del calibro di Georges Dumézil sono messi da parte e ignorati, per lasciare spazio a ricostruzioni della civiltà e delle religioni indoeuropee assai dubbie e fantasiose. Ma la cosa più grave è quella di non far parlare gli indoeuropei stessi su chi erano e cosa pensavano, ovvero la sterminata mole di canti sacri, miti ed epopee che è arrivata sino a noi. Ed è con la loro voce che voglio chiudere questo mio breve scritto.
“Zeus lo manda a Delfi e alle correnti della fonte Castalia, perché di là profetizzasse ai Greci, interpretando ciò che è giusto e appropriato. Ma Apollo, salito sul cocchio, incitò i cigni a volare verso gli Iperborei. Quelli di Delfi, orbene, quando seppero ciò, dopo aver composto un peana e la sua musica, e aver istituito danze di giovani intorno al tripode, invocarono il dio perché venisse via dagli Iperborei. E quello, dopo aver dato responsi oracolari per un anno intero fra gli uomini di laggiù, quando ritenne che fosse giunto il momento opportuno perché risuonassero anche i tripodi di Delfi, ordinò questa volta ai cigni di volare indietro dagli Iperborei. Era allora estate e proprio la mezza estate, quando secondo Alceo Apollo si mosse dagli Iperborei”.
(Alceo, frammento 42).
Fabrizio Bandini