Commento a Leopardi: l’esegesi del filologo e grecista Carlo Diano – Giovanni Sessa
Carlo Alberto Diano (1902-1974) è stato filologo, filosofo, grecista, traduttore e poeta. La sua opera è ascrivibile a una corrente carsica, ma rilevantissima, del “pensiero italiano”: quella che, con estrema serietà, ha guardato, a muovere proprio da Leopardi, al tratto tragico della vita. È nelle librerie per Mimesis il suo, Commento a Leopardi, a cura di Francesca Diano e Gaspare Polizzi (per ordini: 02/21100089, mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 192, euro 18,00). Si tratta della tesi di laurea alla quale Diano cominciò a lavorare, ventunenne, nel 1923 sotto la guida dell’italianista Vittorio Rossi. Il volume è impreziosito da un testo della figlia Francesca, Dell’infinito bene. Dialogo fra Leopardi ed Epicuro, nonché dai saggi introduttivi dei curatori. Non sia tratto in inganno il lettore: pur trattandosi di un’opera giovanile, le sue pagine risultano fondamentali per avere acconcio accesso alla visione del mondo del pensatore. Quest’edizione va segnalata in quanto i curatori hanno tenuto conto di appunti e scritti conservati nell’Archivio Diano.
In realtà, lo studioso avrebbe voluto laurearsi su Eschilo, sul quale aveva lavorato seguito da un illustre docente, Nicola Festa, ma le condizioni economiche della famiglia lo indussero a spendersi su Leopardi, sia per un reale interesse nei confronti del poeta-filosofo, sia perché tale argomento avrebbe ridotto i tempi di composizione della tesi, consentendogli in un lasso di tempo limitato, di inserirsi nei ruoli dell’insegnamento liceale. Il Recanatese rimarrà comunque, per tutta la vita, uno degli “autori” dello studioso di Monteleone. Diano rimase orfano di padre durante l’infanzia e poté, pertanto, prestissimo esperire il senso ultimo e tragico dell’esistere. Il carattere prevalente ed esegeticamente rilevante del Commento, va individuato, come messo con chiarezza in luce dalla figlia, nell’essere la “storia di un’anima” narrata da un’anima affine: «Il suo metodo fu quello di analizzare e ricostruire la personalità di Leopardi […] quel che di fatto ne risultò fu un’analisi di Leopardi che in termini junghiani potremmo definire “del profondo”» (p. 35). Figlio della Magna Grecia, Diano ereditò dell’Ellade la dimensione più arcaica, che gli consentì di evincere nella poesia leopardiana: «quella “segreta luce” del cuore, che […] è la luce del Sacro, quella luce che vede vibrare a circondare la forma» (p. 38).
Polizzi rileva che le tesi del volume raccolgono i risultati cui la critica leopardiana era pervenuta in quel frangente storico (i primi decenni del Novecento), e quindi sono cariche di riferimenti a Croce e soprattutto al maestro di Diano, Gentile, ma si badi: il giovane studioso le lesse e fece proprie in modalità critica. Diano non risparmiò critiche neppure a uno studioso di vaglia, quale Porena. La perla dell’Infinito è avvicinata dal Nostro ai versi di Correspandances di Baudelaire, in cui venne delineata: «la funzione “mistica” della poesia» (p. 13). Le sue analogie nascoste in linguaggio allusivo sono: «più vicine alla musica che alla poesia» (p. 13). In tale contrapposizione poesia-musica va individuato il contrasto tra: «tra vita e forma […] la visione del rapporto tra dionisiaco e apollineo in Nietzsche» (p. 14). Questo è il tema centrale nell’intera produzione di Diano: la forma, l’atto aristotelico, ciò “che avvolge”, cela l’evento, la dynamis, la possibilità-potenza originaria della physis. Un rapporto che, come colto da Cacciari: «I mortali […] potranno imparare soffrendo solo a portarne il duplice gioco» (p. 15). Per questo, ricorda Diano, la creazione poetica di Leopardi, lo si evince in particolare nella canzone Ad Angelo Mai, è sospesa nella lotta tra fede e disinganno: «La forma eventica è un vissuto in cui immagine allusiva e struttura razionale dell’immagine convivono in unità primitiva», come ha scritto Rigobello (p. 16). Sarà la riflessione logocentrica a distinguere i due piani.
Tale distinzione condurrà Leopardi ne L’ultimo canto di Saffo, testimonianza del dramma esistenziale dell’autore, a smarrire l’autentica vocazione poetica mentre, come esemplificato nel Dialogo con Torquato Tasso, Giacomo come il Tasso: «non potendo vivere, sogna» (p. 16). La potenza poetica si ripresenterà in A Silvia, in cui: «dopo tante pene […] egli riconquista la serenità pura d’una nobile e cosciente rassegnazione» (p. 17). Nelle Operette morali, ci dice Diano, Leopardi trascrisse i quattro stati d’animo da lui attraversati: 1) la contemplazione cupa che perviene a una disperazione calma che, a volte, assume volto cinico; 2) un sorriso ironico che si fa sarcasmo; 3) un entusiasmo dolente; 4) uno sfogo che si ripiega su sé stesso. In essi, Francesca Diano coglie l’analogia con gli stadi del processo di individuazione in Jung, Confessione, Chiarificazione, Educazione e Trasformazione, corrispondenti alle fasi del processo alchemico: «Forse Leopardi non giunge alla piena individuazione,, non compie l’“Opera al rosso”» (pp. 47-48), ma si pose lungo il cammino. Leopardi, eroe tragico, rileva Diano, non poteva vincere la delusione della vita se non: «gustandola in tutta la sua amarezza» (p. 49).
(Carlo Diano)
A differenza di quanto sostenuto da filosofi contemporanei (tra gli altri, Severino, Giovane, Donà, Capitano), per Diano la produzione leopardiana, almeno apparentemente, non sembra avere valenza filosofica. In realtà, leggendo tra le righe del Commento, il sentire pensante del grande recanatese, recupera la dimensione “mistica” che, stante la lezione di Colli, connotò la visione del reale propria dei Sapienti. Nei suoi versi, lo ricorda la figlia, respira l’Anima di cui disse Jung e, più recentemente, Hillman: «La mistica risolve il conflitto tra l’io e il mondo con l’annullamento totale, che sia in Dio, o nell’Infinito, o nel nulla eterno. O in quel silenzio cui ogni parola tende» (p. 55). In sostanza, a dire di Diano, a Leopardi mancò l’ancoraggio alla trascendenza, intuì il sacrificio della Croce, il sacrificio del Dio “sofferente” e “trionfante” in uno, ma non seppe contrapporre alla “negazione assoluta”, l’ “affermazione assoluta”. In realtà, per chi scrive, il dio che muore e risorge, la potenza dell’evento che si dà nella forma e solo in essa, era già stata significata in Grecia dalla potestas di Dioniso: il dio che ha insegnato agli uomini a vivere accettando il dolore e la morte, senza cercare ricovero all’inclemenza del mondo nel trascendente. A tale visione è ascrivibile il mondo poetico del Recanatese. Diano resta autore rilevantissimo, il Commento e le sue opere, ponendo il lettore oltre le false dicotomie in cui l’asfittico dibattito teoretico oggi si muove, indicano un cammino da seguire, un “sentiero interrotto”, un itinerario da riscoprire.
Giovanni Sessa